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Il piatto – racconto di Manuel Crispo

Quando il sottile filo del sogno si fu spezzato ed ebbe ripreso conoscenza, la prima cosa che l’uomo percepì fu il corpo della ragazza, nuda, stretto contro il suo. Anche lui era nudo, capì con quel barlume di consapevolezza che lentamente si mutava in orrore, – nudo – nudi – ma dove? E a quale scopo erano stati portati lì, ovunque si trovassero? Aprì gli occhi e subito fu consapevole di molte cose contemporaneamente, primo: che lui e la ragazza giacevano immersi nella più profonda oscurità; secondo: che i loro corpi poggiavano abbandonati su un pavimento di pietra liscia e spoglia; e terzo: che i seni di lei premevano contro il suo braccio, dolcemente, sfiorando la sua pelle come sollevandosi e abbassandosi al ritmo di un respiro regolare, proprio di chi si trovi avvinto nel sonno più profondo.
« Chi sei? » domandò, sorprendendosi del suono rauco della sua voce, quasi la stesse udendo allora per la prima volta. « Che cosa ci facciamo qui? E dov’è, qui? »
Niente. In cambio dei propri sforzi, l’uomo ottenne solo altro silenzio. L’angoscia dell’incertezza divenne presto insopportabile.
Tremando in tute le membra, l’uomo riuscì infine ad alzarsi in piedi. L’oscurità era totale. Non un rumore, a parte il respiro pesante della sua compagna di prigionia. Un passo alla volta, con infinita cautela, avanzò nel buio. Contò più di venti passi prima di incontrare il primo ostacolo: un muro di pietra. Era più largo dell’ampiezza massima delle sue braccia; impossibile dire quanto fosse alto. Decise di proseguire sulla sinistra. Dopo un’altra dozzina di passi giunse alla fine della parete. Percorse tutto il perimetro della sua prigione, si fece un’idea della sua superficie.
« E ora? »
Niente. O forse qualcosa: un odore, anzi, un profumo. Pane caldo e latte. L’uomo sentì lo schiocco del piatto di metallo che veniva calato sul pavimento un attimo prima di udire il suono della voce della sua compagna di prigionia, che si era nel frattempo destata.
« Chi sei? Che succede? Dove mi trovo? » gridò, a ripetizione.
« Calmati » disse lui, raggiungendola in qualche modo. « Mi spiace, ne so quanto te. Non ho idea di dove siamo o come ci siamo arrivati. »
Goffamente, l’uomo le prese le mani e le strinse. La ragazza, si accorse con sgomento, tremava come se avesse la febbre. Con poche frasi incerte le raccontò il proprio risveglio e i risultati delle investigazioni.
« Non capisco nulla » disse lei. « Non ricordo nulla. Solo, mi sembra che non dovrei trovarmi qui. »
« Mi pare di ricordare qualcosa » disse lui, porgendole il latte e il pane. « Ricordo un recinto, o comunque uno spazio ampio, in cui non potevo muovermi liberamente. Fermo, in attesa di qualcosa o qualcuno. C’erano tantissime persone attorno a me, nel mio ambiente. Sembravano tutti inebetiti, confusi. Poi mi sono sentito sollevare. Il mio ultimo ricordo è una vertigine. Poi nulla. »
Mentre parlava, sentiva la ragazza masticare e bere con avidità.
« Dov’è la porta? » domandò poi questa, come se non avesse udito neanche una parola del suo confuso racconto.
« Come? »
« La porta. »
« Non c’è nessuna porta » disse lui, che aveva tastato il muro proprio alla ricerca di una via d’uscita.
« E allora questo cibo da dove è arrivato? Da dove siamo arrivati noi? »
« Dall’alto, probabilmente. »
La sua compagna restò in silenzio per un po’.
« Non riesco proprio ad immaginare il motivo di tutto questo. »
« Suppongo che lo scopriremo. »
« E se non lo scoprissimo mai? E se non ci fosse alcuna ragione? »
I capelli dell’uomo si drizzarono, ed egli poté sentire il sangue defluire via dal suo viso. E se non lo scoprissimo mai? Se non lo scoprissimo mai? Si domandò ossessivamente. La prospettiva gli appariva peggiore della stessa morte.

Come si misura lo scorrere del tempo quando non si ha accesso alla luce del sole o delle stelle? L’uomo e la sua compagna non avevano altro riferimento che il vassoio con il cibo che, volte al giorno (decisero) veniva calato dall’alto, da una botola di accesso che si dischiudeva senza un rumore, preceduta solo da un lieve flusso di aria fresca e che, come scoprirono montando l’una sopra l’altro, si trovava ad una distanza dal pavimento superiore alla somma delle loro altezze.
La loro vita monotona non era priva di rischi. Ogni notte (come chiamarono il periodo di tempo compreso fra la cena a base di fibre e la colazione a base di latte e pane) l’uomo si alzava dal giaciglio e percorreva carponi la distanza fra l’angolo dove dormivano e quello che avevano eletto a cacatoio e poi tornava indietro, ma mai del tutto incolume. L’unico modo per lavarsi era sacrificare una parte dell’acqua che gli veniva fornita tramite botola. Verso la fine la ragazza non ci faceva più caso e anche l’uomo smise di preoccuparsene.
« Tua madre? Tuo padre? » gli chiese lei, un giorno.
« Cosa? »
« Voglio dire » scandì la ragazza « Ricordi il volto di tuo padre e tua madre? »
« No » rispose lui.
« E il tuo nome? »
« Mi sembra… »
« Sì? »
« Mi sembra quasi di non averne mai avuto uno. »
« Mi gira la testa » gemette lei, accasciandosi.
L’uomo lanciò un lungo sospiro. Era forse un tipo di carcere? Possibile che avesse commesso reati di tale agghiacciante orrore da essere condannato al buio eterno della memoria, alla perdita della propria identità? Al momento non aveva risposte, ma solo altre preoccupazioni. Il buio era talmente fitto che cominciò a dubitare di essere in grado di vedere. Avrebbe dato qualsiasi cosa per una scintilla, un barlume di luce.
« Dammi la brocca » disse bruscamente alla ragazza. Lei gliela porse in silenzio. Lui la prese per mano e insieme, a tentoni, raggiunsero una parete. L’uomo vi sbatté contro la brocca con violenza e la ceramica, frantumandosi contro la pietra, produsse una minuscola scintilla luminosa. Abbastanza per accertarsi di non essere cieco. Abbastanza per vedere il suo sorriso.
« Che hai da ridere? » disse lui, stizzito.
« La tua mano è calda » fu la risposta di lei. « È… piacevole. »
Dalla direzione della voce, capì che si era distesa. Capì anche che voleva che lui si distendesse accanto a lei, e così lo fece. Si sentiva stanco. Le mani di lei lo guidarono in qualcosa di umido, caldo. Lui iniziò a spingere piano. Lei gemeva.
« Sei tutto il mio mondo » gli sussurrò all’orecchio.
Era vero: il mondo non esisteva più. Presto non udì più alcun rumore eccetto un lieve russare. La ragazza si era riaddormentata. Così fece anche lui.

Come si misura lo scorrere del tempo quando non si ha altro che il proprio respiro? L’uomo aveva ormai smesso di chiederselo. Ancora una volta, la prima cosa che lui percepì, risvegliandosi, fu il corpo della ragazza, nuda, stretto contro il suo. Se avesse potuto vederla l’avrebbe guardata con tenerezza: si limitò ad accarezzarle il capo, piano. In quel luogo gelido il suo corpo era l’unica fonte di calore. Cercò di immaginarne le curve, gli anfratti, le minuscole imperfezioni. La toccò, poiché al mondo non esisteva nient’altro da toccare. La udì respirare, poiché al mondo non esisteva nessun altro che respirasse. Lui riposava dentro di lei, sentiva il battito del suo cuore attraverso i loro sessi fusi in uno solo.
Poi, d’improvviso, accadde. La botola sul soffitto della cella si aprì di schianto. Perché ora?, Perché io?, si domandò l’uomo. Una luce intensissima invase la stanza, stordendoli. Dall’apertura emerse un gigantesco tentacolo gelatinoso che afferrò l’uomo per il collo. La ragazza gridò.

« Adesso prepariamo lo ZcXfgIeX di umano » disse Stryfex, rivolgendosi alle telecamere. « È un piatto della nostra tradizione povera, dico bene Tara? »
« Sì » confermò Tara, una creatura interamente composta di bocche immerse in una specie di corpo gelatinoso a sua volta inguainato in un tailleur di taglio sartoriale. « La dobbiamo ai poverissimi Scortichini di Oick’ Atset, i lavoratori del mattatoio di umani che, a fine giornata, ricevevano insieme alla paga, il cosiddetto “quinto quarto √2”, ovvero gli scarti delle carni macellate, che loro cucinavano nei modi più creativi e fantasiosi. Nacque così lo ZcXfgIeX, piatto della tradizione popolare oggi apprezzato da gourmet e turisti che continuano a lasciarsi affascinare dai sapori decisi della nostra regione. Sapori che devono continuare ad esser tramandati, per non rischiare di perdere il contatto con le nostre radici. »
« Ben detto Tara! E ora, per cominciare, prendiamo un umano… » Stryfex afferrò l’uomo urlante, lo poggiò su un gigantesco tagliere di legno incrostato di sangue. Con un altro dei suoi orridi tentacoli prese una mannaia. « E tagliamogli la testa. »
Zack!
A questo punto Stryfex sorrise alla telecamera. Il regista della trasmissione di cucina fece partire una canzone che parlava di cibo e di quella particolare sensazione che si prova quando l’addome gonfio di cibo si tende, generando soddisfazione e allegria.
« Poi lo puliamo… »
Stryfex prese un altro coltello e ne incise l’addome dallo sterno al pube, ne estrasse le viscere e le scaraventò in un recipiente.
« Ora prendiamo l’intestino dell’umano e lo laviamo, facendo attenzione a lasciare il chimo, quel liquido lattiginoso prodotto dalla digestione degli alimenti, che darà al nostro ZcXfgIeX un sapore piacevolmente acre. »
In studio, un nutrizionista prese la parola.
« Caro Stryfex, ma lo sai quanto è nutriente un piatto di ZcXfgIeX? »
« Certo che lo so! Ai miei gherdfsg lo preparo sempre, in questa stagione. »
Nel frattempo il cuoco aveva terminato di preparare l’intestino dell’umano.
« Allora. Spelliamo l’intestino e lo tagliamo a pezzi di venti centimetri circa, lo mettiamo in un piatto e lo spruzziamo con aceto di FgiRTy. Tritiamo cipolla, sedano e prezzemolo. »
A questo punto della trasmissione Zyrtion, l’esperto di vini, avrebbe dovuto fare una salace battuta sulle femmine della specie umana, ma se ne dimenticò. Per ovviare all’inconveniente Stryfex, con finta goffaggine, scaraventò per terra ciò che restava dell’umano con un movimento buffo che fece ridere tutti, in studio e a casa.
« Oh no! Accidenti! Tanto lavoro per niente! » si lamentò il nutrizionista, che come al solito non aveva capito un ghyupholon.
« Poco male » disse il cuoco, aprendo nuovamente la cella. « Ne abbiamo un altro. »

 

Manuel Crispo

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