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Nessun luogo – di Giacomo Ricchitelli

Ci sono ancora ragazzi che la sera vanno ai “calci in culo” per passare qualche momento di divertimento. Non lo avrei mai detto. Invece eccoli lì, dall’altra parte della strada, intenti a tentare di afferrare quella specie di coda di cavallo che dà diritto ad un giro gratis.
Sono contento, anche se a vedermi non credo si direbbe: seduto su un muretto sul lungomare di una cittadina minuscola, la sigaretta accesa tenuta tra le labbra troppo a lungo, lo sguardo fisso sulla giostra che gira. La musica a livello altissimo non copre le urla dei ragazzi, li guardo con un pizzico di invidia, ripercorro i venti anni che sono passati da quando avevo la loro età, rivedo tutti i sogni andati in frantumi, sospiro. In realtà, non ho mai avuto sogni, solo certezze.
Ero certo che avrei fatto strada, come si dice. Sono sempre stato convinto di essere superiore alla media, ho sempre dovuto impegnarmi un decimo degli altri per raggiungere gli obiettivi. finché gli obiettivi sono stati semplici: la scuola, le ragazze, lo sport praticato a livello amatoriale.
Si è fatta più dura quando avrei dovuto cominciare ad impegnarmi almeno la metà degli altri: ho scoperto subito che non ero in grado di profondere sforzi maggiori di quelli a cui ero abituato. Ci ho provato, ma la cosa non è mai durata più di un paio di giorni. Sono talmente pigro che capita, come ora, di lasciare che il vento fumi la mia sigaretta.
La mia capacità di concentrazione è talmente scarsa da impedirmi di seguire un discorso per più di cinque minuti, il mio interesse verso gli altri finisce al momento della stretta di mano, quando di solito uno sconosciuto dice il proprio nome: non lo ascolto mai, e se lo faccio dimentico subito. Il nuovo interlocutore mi stanca all’istante, il solo pensiero della fatica che dovrei fare per instaurare un rapporto con lui mi convince a mollare. Stringo la mano, annuisco un paio di volte alle solite frasi di circostanza, invento qualche impegno urgente e fuggo.
I ragazzi continuano ad urlare, ho osservato quattro o cinque giri completi e la coda di cavallo è stata conquistata sempre dai soliti due. Hanno una tecnica eccellente, se ci fossero le olimpiadi dei “calci in culo” avrebbero delle ottime chances di vincere.
Faccio un sorso d’acqua dalla bottiglia che porto sempre con me, una sorta di coperta di Linus che mi accompagna da quando, qualche tempo fa, mi è capitato di avere la gola secca. Sembrava sempre che stessi per morire di sete, così ho preso l’abitudine di girare con dell’acqua sempre a disposizione, nemmeno fossi un marciatore nel deserto.
Mi alzo, questo muretto è piuttosto scomodo ed ho completamente perso la sensibilità alle natiche. Intanto i ragazzi si sono stancati dei “calci in culo”, adesso girano per il minuscolo luna park, se così si può definire, alla ricerca di qualcosa da fare. Anche io mi guardo intorno per capire se c’è qualcosa da fare, ma non credo si possa fare altro che una lunga passeggiata sul lungomare, a meno di non volersi cimentare in una delle poche attrazioni del parco giochi.
Ombre rifuggono la luce, danzano lente, che tanto un’ombra è indefinibile.
Qualcuno butta giù un paio di bicchieri, tra decine di peluche, sperando magari che quelli si animino un po’, per vedere l’effetto che fa. Perché è più divertente vedere orde di peluche inseguire ombre umane, che non assistere a qualche risata forzata sulle giostre, alla felicità lugubre e malinconica di un attimo.
Qui non c’è gioia, nonostante le luci, la musica e lo sferragliare delle giostre provino a coprire la tristezza, proprio non ce la fanno. Fosse così facile. E non c’è nemmeno terrore adrenalinico, nonostante qualcuno sosti di fronte alla casa degli orrori sperando che le gambe comincino a tremare.
Anche qui, è solo tempo perso. Non facciamo altro che perdere tempo, in un modo o nell’altro. Per fortuna.
Giro un po’ su me stesso, faccio un altro sorso d’acqua e mi incammino. Sono troppo vecchio per le giostre, che, tra l’altro, non mi piacevano nemmeno da giovane. Dopo una decina di lunghe falcate le voci dei giovani non giungono più al mio orecchio, mentre la fastidiosa musica è ancora chiaramente udibile. I lidi si susseguono uno dopo l’altro, tutti uguali ad eccezione del colore degli ombrelloni. Viviamo in un mondo talmente mercificato che bisogna pagare anche per andare al mare. Le istituzioni, in Italia, sono pigre come me, preferiscono vendere, concedere in appalto, piuttosto che prendersi cura del proprio patrimonio. Posso capire.
Finalmente la musica scompare alle mie spalle, approfitto della prima striscia di spiaggia libera, della larghezza di cinque o sei metri, rigorosamente sporca, per sedermi sulla sabbia. Io odio la sabbia, ma oggi va bene così. Accendo una sigaretta, guardo lo smartphone, non ci sono chiamate perse. Avrebbe dovuto chiamare già da un po’, ma ormai la puntualità è un optional. Con questi aggeggi la gente riesce ad istupidirsi a tal punto da dimenticare tutto il resto. Avrà afferrato il telefono per chiamarmi, ma avrà ricordato qualche impegno urgente in uno di quei giochi a turni che ormai tutti fanno online.
Starà sistemando il fienile, o armando il cavaliere o Dio solo sa cos’altro.
Rigiro il cellulare tra le dita, fisso lo schermo nero, mi alzo, cammino verso il mare e lo lancio più lontano possibile. Uno splash lieve, quasi impercettibile, è l’ultimo suono che emette.

 

Giacomo Ricchitelli

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