Era bella. Dio, quanto era bella. Mi ritrovai a pensare che nessuna foto che avevo in casa o nessun ricordo che conservavo di lei le rendesse giustizia. Era la mia Elena di sempre, ma ancora più radiosa. Quel lungo sonno le aveva fatto bene, pensai. Che orribile pensiero, adesso che ci rifletto. In ogni modo, avevo il cervello totalmente annebbiato. Da lei. Non vedevo che lei. Sentivo ogni fibra del mio corpo tendere spasmodicamente verso quella visione, eppure non riuscivo a muovermi. Non ricordo com’era vestita. Di bianco sicuramente. E aveva folti capelli ricci. Si sentiva liscia dentro però, mi diceva spesso scherzando. Ho sempre sospettato che li portasse mossi solo per far piacere a me. I capelli erano un suo punto forte, li curava in modo quasi maniacale, eppure, superato il primo shock, non ne aveva fatto un dramma quando le cure gliel’avevano portati via. Semplicemente, aveva fatto dei foulard la sua nuova mania. Ne aveva tanti e di varie fantasie. Io e Andrea la aiutavamo a sceglierne uno ogni mattina. Durante il primo periodo, è stato relativamente facile cercare di mantenere una certa tranquillità, almeno apparente. Col senno di poi, avrei capito che era solo speranza.
Dopo qualche mese, le cose precipitarono. Si aprì una voragine e ci inghiottì tutti.
Cambiavamo umore ogni dieci minuti. Io insieme a lei. Quando volevo piangere, mi infuriavo. Quando ero arrabbiato, uscivo sbattendo la porta di casa e piangevo come un idiota. So che posso esser stato un peso per lei, un ulteriore pesante peso con cui fare i conti. Come se non ne avesse avuti già abbastanza da sopportare. Mi sembrava tutto surreale. Non poteva succedere a noi. Non volevo perderla. E invece lei si allontanava da me sempre più. Un attimo prima stavamo abbracciati sul divano, a ridere per qualche stupida battuta in televisione, il momento dopo ci urlavamo.
Nelle ultime settimane della malattia, pretendeva che la portassi fuori a cena tutti i sabato sera e che trascorressimo le domeniche pomeriggio in riva al mare. Come se l’aria ancora fredda di marzo le facesse un gran bene. Aveva persino preso l’abitudine di mettere il rossetto rosso quando accompagnava Andrea a scuola. Non aveva mai usato il rossetto rosso. Io non riuscivo a capirla. Non si lamentava mai dei dolori, eppure ero sicuro che soffrisse. Più la volevo a casa a riposarsi, più lei usciva. Ricordo la rabbia che provavo. Una volta mi ritrovai a scagliare a terra la prima cosa che avevo a portata di mano. Il portafrutta di mia suocera. Un tonfo assurdo. Le mani mi tremavano. Andrea venne in cucina a chiedere cosa fosse successo.
– Niente Andrea, papà si è lasciato scappare la coppa. Torna a studiare, amore – lo tranquillizzò Elena. Poi si mise gli orecchini che aveva in mano, guardandomi diritto negli occhi, quasi in segno di sfida. Eppure la amavo. Disperatamente e più di prima.
La nostra storia era nata sotto il segno dei pesci. Un bacio a fine febbraio e due iniziali in un cuore incise su un banco della mitica 4° A.
Era sempre stata una ragazza solare e forte, ma in quei momenti, quella sua ostentata forza o voglia di restare attaccata alla vita era per me peggio di un pugno allo stomaco. Forse perché il suo dottore mi aveva detto chiaramente che solo un miracolo avrebbe funzionato a quel punto. E lui era ateo. Figuriamoci io. Non ricordavo neanche più come si pregava. E non avevo intenzione di farlo, dal momento che mai prima di allora ero stato così convinto che non potesse esistere alcun Dio. Qualche dubbio, successivamente, me lo sono anche posto. Mi domandavo se avessi fatto tutto l’impossibile per cercare di trattenere Elena in questo mondo. Anche chiedendo un miracolo a chi non credevo che potesse ascoltare. A dire il vero, temo la risposta e mi tengo tuttora lontano dalle chiese. Forse per vigliaccheria o forse perché non sono pronto a perdonare nessuno, uomo o Dio o destino che sia. Se sei pronto a perdonare, devi liberarti della rabbia e guardare avanti. Io non volevo e non voglio che mi sia sottratta l’unica cosa che non mi fa sentire un completo automa. Non credo che sia ancora giunto il momento di voltare pagina. La ferita è ancora troppo aperta e i punti di sutura troppo mal messi. Non riesco a fingere, neanche a due anni di distanza, neanche con Andrea, che le cose vanno un po’ meglio. Elena era più brava di me a fingere. In fin dei conti, non era così forte come le piaceva far credere. Quando rientravo dalle mie passeggiate notturne e mi infilavo nel letto, appoggiavo la mia testa sul suo cuscino, accanto alla sua. Il più delle volte era umido. Quel suo maldestro tentativo di sembrare forte a tutti i costi mi rendeva solo amareggiato e più scontroso. E lo celavo piuttosto male. A volte riuscivo a sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, alla fine. Forse nessuno dei due ci credeva davvero. Lei si limitava ad annuire. Avrei fatto di tutto per darle qualcosa di più concreto della speranza.
In quel sogno, Elena era un angelo luminoso e io mi sentivo all’inferno. Stavo camminando, non so dove, e mi accorsi che mi osservava incuriosita, sospesa qualche metro sopra la mia testa. Allora, cercai disperatamente di raggiungerla, agitavo le braccia e scalciavo. Ma non riuscivo neppure a sollevarmi di mezzo centimetro. Durante questi patetici tentativi, sentì una furia cieca svegliarsi dentro di me e la certezza che presto o tardi mi sarei trasformato in un lupo feroce o in una qualsiasi altra bestia. E lei si allontanava sempre di più, rivolgendomi uno sguardo pietoso. Una parte di me ringraziava che se ne stesse andando per paura di farle del male, ora che grosse zanne mi spuntavano al posto dei denti. Ma ecco che si avvicinò di nuovo mentre mi tendeva la mano, insistendo che l’afferrassi. E improvvisamente mi sentì sollevare. Era una strana sensazione. Non provavo nessuna pace interiore, sentivo solo l’adrenalina scorrere in me. Avevo di nuovo le mie vecchie sembianze, i miei ricci capelli arruffati, il mio pallore e i miei denti. Volavamo sopra il paese. Il cielo si era colorato di tinte aranciate e più il vento si alzava più volavamo in alto. Senza scambiarci una parola. La mia mano ancora nella sua.
Non so per quanto tempo continuammo a sorvolare quei campi, ma a un certo punto iniziò la discesa. La sua stretta di mano era ancora decisa. E neanche io avevo intenzione di lasciarla andare. Si specchiò nei miei occhi castani e mi rivolse un sorriso divertito. Sapeva bene quanto desiderassi volare, nei sogni intendo, non riuscendoci mai. Le diedi un bacio sulla guancia. La sua pelle era liscia e profumata come la ricordavo. Poi mi baciò lei teneramente sulla mia. La mia barba doveva risultare piuttosto ispida, immaginai. Una volta toccata terra, mi lasciò la mano e io, a malincuore, non mi opposi. La seguì con lo sguardo tornarsene chissà dove, fino a quando non scomparve del tutto nel cielo ormai buio.
Mi svegliai nel mio letto rendendomi conto di avere ancora sul viso un sorriso ebete e sulla guancia il ricordo della lieve pressione delle sue labbra. Avevo un solo rimpianto. Avrei potuto baciarla come si deve, ancora un’ultima volta.
Venditti aveva ragione quando cantava “Diciott’anni sono pochi per promettersi il futuro”.
Anna Chiara Morciano
Io non mi sento un missionario. Fare il Libraio è giustamente un mestiere come un altro. Essere indipendenti è farlo in maniera diversa e secondo me è anche più gratificante.
Basta con il piangersi addosso, non sono i librai la specie da proteggere lo sono i lettori !
Roberto
Libreria Centofiori Milano