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Lunghe distanze – racconto di Palma Lavecchia

Sono tre i protagonisti di questa storia, accaduta oltre un Secolo fa, e che Vi verrà narrata dalla voce di due di loro e dalla mia. E’ una storia di lunghe distanze, che a quel tempo apparivano immensamente più insormontabili di quel che sembrerebbero oggi.

Siamo nel 1909, nel Regno delle Due Sicilie, e più precisamente nella città di Messina, che ancora fatica a riprendersi dal terribile terremoto che all’alba del 28 dicembre di un anno prima aveva distrutto gran parte del costruito ma, soprattutto, ucciso metà della popolazione. Una catastrofe di dimensioni enormi, la più grande di cui il territorio italiano conservi memoria, che giunse in un momento di già forte pressione socio-politica per il Sud del Paese.

Aldo e sua madre Luigia erano tra i sopravvissuti, ma di risorse per pensare di campare ancora a lungo non ne avevano a sufficienza. Occorreva trovare una soluzione, e quella soluzione non poteva che essere il viaggio verso il sogno americano. Un viaggio che, però, Aldo avrebbe dovuto affrontare da solo perché Luigia era affetta da una malattia che non le avrebbe consentito di superare i severissimi controlli a cui sarebbero stati sottoposti non appena fossero giunti dall’altro capo del mondo. Aldo avrebbe dovuto partire da solo, ma per questo ogni volta che si riapriva il discorso, lui scuoteva la testa e lo chiudeva immediatamente: “Mamma, io qui da sola non ti lascio”.

Finché un giorno lei fu più risoluta e lo mise a sedere di fronte a sé, mostrandogli con mano tremula una lettera di presentazione da mostrare a un compaesano, giunto a New York qualche anno prima e che certamente avrebbe potuto fare qualcosa per il suo unico e amato figlio. A sua insaputa, infatti, quella donna analfabeta e che conosceva soltanto il linguaggio della natura dei loro piccoli campi, aveva cercato ogni utile informazione perché quel figlio ostinato si decidesse finalmente a partire. Vicino ai suoi piedi aveva avvicinato una valigia di cartone rigido e un fagotto in cui aveva raccolto quel poco che di quella Terra fosse il caso di portarsi dietro; poi, con l’altra mano aveva estratto dalla tasca del grembiule un biglietto di sola andata e glielo aveva porto.

La mattina dopo, prima che il sole sorgesse, Aldo era sulla banchina del molo di Palermo, e con quel biglietto acquistato con quel poco che a sua madre, vedova e sola, era rimasto, si preparava a un mese di navigazione a bordo di uno dei grandi piroscafi transatlantici che in quel periodo coprivano quella grande, immensa, distanza. Un mese di navigazione, stipati in cuccette collocate nella parte bassa della nave, da cui al mattino, qualunque fossero le condizioni atmosferiche, lui e tutta quella gente avrebbero lasciato per raggiungere il ponte, dove avrebbero sostato fino a sera. Un viaggio che oggi non riusciremmo neppure a immaginare per le condizioni che solo la speranza e il sogno avrebbero potuto dar forza per affrontare.

Dopo tanti giorni di salsedine tra i denti e mare a perdita d’occhio, la terra ferma apparve come un sogno nell’albore perlaceo delle prime luci ovattate del cielo, ma nulla fu in confronto all’emozione palpitante che suscitava nel petto quella statua immensa che, in nome della “Libertà”, era pronta ad accogliere quanti, da luoghi lontanissimi, raggiungevano gli Stati Uniti mossi dalla voglia di rinascere, dalla speranza di restituirsi un futuro, o più frequentemente dalla disperazione e dall’assenza di alternative.

I controlli a cui Aldo e tutti i suoi sconosciuti compagni di viaggio furono sottoposti a Ellis Island furono severissimi, ma per fortuna riuscì a superarli tutti. E a sera, seguendo poche indicazioni tracciate su una rudimentale mappa ormai sgualcita, raggiunse un palazzo e lì chiese a suoi compaesani dove poter trovare il tizio il cui nome era scritto su quella lettera di presentazione che gli aveva dato sua madre ma che lui, analfabeta come lei, come tanti, non avrebbe saputo leggere.

E sarà proprio per il bisogno di scrivere e di leggere le molte lettere che avrebbe inviato e ricevuto da sua madre che Aldo ebbe modo di conoscere Gemma, una donna di poco sopra la cinquantina, giunta in America appena un paio d’anni prima. Una donna dai modi raffinati e gentili, affabile e materna, rassicurante e serena. Aldo aveva valutato che potesse avere suppergiù l’età di sua madre, ma dall’incarnato chiaro e sottile era evidente che la vita trascorsa fosse stata molto diversa da quella della sua amata genitrice. Gemma aveva due occhi verdi brillanti, che lasciavano immaginare che il nome fosse stato suggerito proprio da quelle due gemme preziose lì poste ad arricchirle il volto, incorniciato in una capigliatura chiara e sempre ben composta. La incontrava nel negozio di famiglia, che ormai gestiva quasi sempre da sola e dove riceveva tutti coloro che chiedevano in prestito la sua buona istruzione, oltre che i generi alimentari in bella vista sugli scaffali.

GEMMA:

La prima volta in cui vidi Aldo provai un moto di simpatia che ricordo ancora. Era uno di quei ragazzoni di campagna, rotondo e dal colorito rossastro, scurissimo di capelli e dalle sopracciglia folte, che disegnavano un’arcata precisa sopra due occhietti neri e piccolini.

Io vivevo lì con mio marito da qualche anno, da quando i miei genitori, veneti da generazioni e ormai attempati, avevano insistito per ricongiungersi ad altri fratelli, che fino ad allora avevano gestito il negozietto di alimentari di cui ora mi occupavo io sola e che era diventato un po’ il punto di riferimento per molti nostri connazionali. In più, avendo io studiato e praticato in Italia il mestiere di insegnante, mi prestavo per molti di loro a scrivere lettere o a leggere quelle che arrivavano dai parenti lontani.

Aldo lo accompagnò da me uno dei credo dodici siciliani che viveva con lui in un appartamento di fronte al nostro negozio. Durante il giorno, con loro lavorava come carpentiere in un quartiere a nord della città e la sera rincasavano per concedersi un po’ di riposo su letti di fortuna.

Mi chiese di scrivere poche parole a sua madre, per dirle che era arrivato a destinazione e che aveva trovato un buon posto e una bella casa che divideva con pochi amici e che presto le avrebbe mandato qualche soldo. Lo fissai a lungo: sapevo bene che le condizioni non erano esattamente quelle che stava descrivendo e mi chiesi se dall’altra parte sua madre lo avrebbe intuito o gli avrebbe creduto. Erano in molti quelli come lui, infatti, che arrivavano certi di fare fortuna e finivano, invece, per adattarsi a contesti che mai avrebbero immaginato. Moltissimi furono quelli che, non riuscendo a sostenere quell’impatto, nel giro di qualche anno fecero ritorno in Italia; altri, invece, tenendo duro riuscirono in qualche modo a ritagliarsi un angoletto in quell’economia indiscutibilmente fiorente e a crearsi una piccola fortuna.

Mi chiese quanto mi dovesse per il disturbo; gli risposi che quello per me non era un disturbo, ma solo un piacere, quello di entrare in così tante storie che, con il tempo, mi stavano decisamente arricchendo, e che quindi forse …quasi quasi… avrei dovuto io pagare ognuno di loro. Ricordo che mi sorrise e se ne andò. Lì per lì pensai “Che ingrato, non ha pure salutato…”, ma dopo poco lo vidi rientrare con un piccolo barattolo di vetro. “Questa è marmellata che ha fatto mia madre con le sue mani. Lo so che ne vendete, ma questa è l’unica cosa preziosa che posso darti e credo sia anche la più buona di tutte.” Quel suo gesto mi commosse profondamente e la accolsi con gratitudine sincera. E aveva ragione, era la miglior marmellata di uva che avessi mai assaggiato fino ad allora.

Dopo un mese tornò con il cuore in gola per l’emozione, sventolando una lettera. Non riusciva neppure a parlare. “Guarda, è arrivata questa! L’ha fatta scrivere sicuramente mia madre.. Ti prego, dimmi cosa c’è scritto!” E andammo avanti così, a lungo. Come con tutti gli altri italiani che vivevano nel nostro quartiere.

LUIGIA:

Avevo aspettato quella lettera per mesi. L’ansia che provai quella sera in cui era partito per Palermo gliel’avevo nascosta dietro una finta fermezza, di chi non ha tempo per le emozioni perché ha tanto di più serio a cui pensare. Non era vero, mi si stava squagliando l’anima, ma non volevo che si portasse dentro il rimpianto di avermi lasciata sola. Ce l’avrei fatta; doveva farcela anche lui dall’altro capo del mondo. Del resto, l’unica cosa che mi restava da offrirgli, dopo che la vita ci aveva spazzato via tutto, dagli affetti all’oro dei campi, era la speranza.

Quando giunse quella lettera, profumava di rose. Con le mani sporche di terra non volevo toccarla. Corsi a cercare una mia nipote che aveva imparato da poco a leggere e scrivere, e assieme, con emozione infinita, leggemmo quella e ne scrivemmo subito un’altra.

E andammo avanti così, per mesi. Passavano le stagioni, gli acciacchi e il dispiacere, ma in quelle lettere ci raccontavamo solo cose belle. Attraverso i racconti di Aldo, vivevamo anche noi un piccolo angolo di quel sogno americano e dalle nostre lettere lui poteva ancora sperare di sentirsi a casa, tra le sue cose, i suoi ricordi. Ogni volta gli descrivevo qualcosa, gli parlavo di qualcuno degli animali a cui era più affezionato, gli raccontavo di qualche nascita e raramente di qualche morte. Gli parlavo della ricostruzione, gli raccontavo che dolcetti avevamo preparato con le vecchie zie per Natale, gli raccomandavo di coprirsi bene, perché lì a New York è freddo …mica come in Sicilia!… manco ci fossi stata, io che non sapevo neppure dove fosse.

Lui mi raccontava che era stato fortunato, che il lavoro gli piaceva e i caporali lo trattavano bene. Con il passare dei mesi, mi spiegò come mi avrebbe recapitato parte del suo guadagno attraverso il Banco di Napoli, e nonostante tentassi di convincerlo che a me non serviva nulla, che avrebbe fatto bene a tenerseli, almeno una volta al mese mi arrivava il suo sostegno promesso, una boccata d’ossigeno che spartivo con i pochi parenti rimasti.

Le sue lettere erano come un soffio di brezza sul cuore in una giornata soffocante di afa, e ogni volta era una festa: con le vecchie zie ci sedevamo tutte attorno ad un tavolo, con Annetta che leggeva lentamente e io che, con gli occhi chiusi, immaginavo di sentire la voce di mio figlio mentre parlava della sua nuova vita. Era difficile indovinare come fosse il mondo che lo circondava, soprattutto per me che avevo sempre vissuto in un rione rurale fatto di poche cose semplici. Eppure, le sue descrizioni della città erano così dettagliate che quasi mi pareva di vederla, di vedere lui.

Aldo mi raccontava soprattutto delle persone che incontrava: mi elencava i nomi, com’erano fatte, i loro caratteri e qualche storia che le riguardava, e mi diceva che aveva capito che la lingua serve a poco perché con la gente buona ci si capisce lo stesso: talvolta bastano gli occhi. Mi diceva che la metropoli era bella, ma che a sera, quando la città lentamente si faceva silenziosa, a lui mancava il suono delle cicale, il pallido bagliore delle lucciole nella campagna buia, il canto lontano delle onde che si infrangevano sugli scogli.

Quelle volte mi venivano giù le lacrime, perché avevo paura che fosse comunque un modo per farmi sapere che si sentiva solo, che gli mancava il suo mondo, che quella di andarsene non fosse stata la scelta migliore.

Però poi c’erano anche un sacco di storielle divertenti nelle sue lettere, e allora subito mi tornava il sorriso e dei suoi racconti non perdevo mai occasione di parlarne con chiunque, con quell’orgoglio di cui solo una madre può essere capace. E quelle frasi, non importa che fossero poche, chiedevo ad Annetta di rileggermele e rileggerle ancora, al punto che lei mi ripeteva, annoiata “Uffa, zia: ma ormai le conosco a memoria!” Anche io, ma non me ne stancavo mai: erano la compagnia più potente, il balsamo per ogni acciacco.

Intanto, gli anni passavano e il desiderio di riabbracciarlo si faceva sempre più forte. Da una parte sapevo quanto sarebbe costato il viaggio e non volevo che spendesse così tanti soldi per quello che era un mio bisogno; ma dall’altra sentivo che quelle lettere non riuscivano più a colmare quell’insormontabile distanza con l’unico legame di sangue che avevo su questa Terra. Lui cercava di tranquillizzarmi, mi diceva che anche lui non vedeva l’ora di riabbracciarmi e che non appena avesse sistemato alcune cose e avesse avuto la certezza di non perdere il lavoro, sarebbe tornato. Mi diceva che un giorno, così, senza che me lo aspettassi, lo avrei trovato ad aspettarmi sulla porta e avremmo fatto una grande festa in cui avremmo mangiato e bevuto alla faccia dell’America, che sì, era bella, ma mai come casa sua.

Ma intanto passavano altri anni, altre stagioni e altra attesa, tanta, ma Aldo non si decideva a tornare.

GEMMA:

Quando avvertii il suono delle campanelle della tenda del negozio e la vidi entrare, non ci fu bisogno di sapere chi fosse. Lei mi fissò quel tanto che le bastò a capire se avessi davvero intuito, poi mi affondò con una domanda composta da una sola parola, ma dentro cui era contenuto tutto il mare che separava i due Continenti: “Perché?”

Uscii da dietro al bancone e le andai in contro, liberandola del peso della sua valigia, consapevole del fatto che, purtroppo, sarebbe stato l’unico di cui avrei potuto liberarla. Le feci cenno di sedersi all’unica sedia presente in negozio, ma lei, senza mai smettere di fissarmi, scosse la testa e tornò a chiedermi: “Perché?”

“Perché anni fa ho perduto il mio unico fratello, e ho assistito, con lui, all’appassirsi improvviso e inesorabile della vita di mia madre, come se da quel momento per lei nulla contasse più. Allora, pur senza conoscerla, ho sentito che avrei fatto qualunque cosa pur di evitarle quello stesso dolore.”

Una lacrima si era infilata nel solco, uno dei tanti, che rigavano il volto di Luigia e stava scendendo come un rivolo improvviso che si fa strada sulla terra arida e la bagna. Il suo sguardo si trasformò, come fosse un misto di comprensione e rabbia; poi, quando recuperò un filo di voce, la spese per una manciata efficace di parole: “Hai avuto un buon pensiero. Ma nel realizzarlo, – mi disse – non hai tenuto conto di una sola cosa: l’istinto di una madre.”

VOCE NARRANTE:

Aldo era precipitato da una impalcatura qualche anno prima. Gli amici si erano immediatamente rivolti a Gemma, chiedendole un riferimento per rintracciarne i parenti, ma lei aveva negato di averne, di ricordarne. Aveva mentito, ora era chiaro. In compenso, si era offerta di occuparsi di ogni cosa riguardo la sua sepoltura che avvenne, grazie all’aiuto offertole da uno dei più assidui clienti della sua bottega, nel “The Evergreen Cemetery”, a pochi passi dal quartiere in cui Aldo aveva vissuto.

Gemma era letteralmente penetrata in quella sua storia di miseria e speranza, ne aveva assorbito l’essenza, e ora si sentiva, ormai, come se ne facesse davvero parte. E fu così che aveva valutato che avrebbe potuto cercare di trattenere Aldo in vita attraverso i racconti che, puntualmente, avrebbe fatto pervenire a sua madre: racconti fatti di buon umore, di belle cose, di belle storie, di buona gente. In alternativa, avrebbe solo condannato quella donna, anziana e fortemente provata da una vita difficile, ad un ennesimo dolore a cui, quasi certamente, non sarebbe sopravvissuta.

Ogni volta in cui aveva ricevuto le sue risposte, il cuore si era stretto come in una morsa ed erano trascorsi giorni prima di riuscire ad afferrare una penna e lasciarla scivolare su uno dei suoi fogli di carta profumati di rose. Eppure non si era arresa: dai racconti che gli altri migranti riferivano nelle lettere da mandare a casa traeva gli spunti migliori, gli aneddoti più divertenti, coglieva il calore di quel ponte che attraversava miglia e miglia e si ricongiungeva in vecchie case fatte di pietra e di un focolare sempre acceso. Qualche volta aveva spedito a Luigia addirittura dei biscotti fatti con le sue mani e ne aveva ricevuti altri fatti dalle mani di lei, a cui comunque mai aveva fatto mancare quella piccola somma mensile sul conto, grazie a cui Luigia aveva potuto addirittura curare la sua malattia.

Il giorno in cui gli amici di Aldo erano arrivati trafelati in negozio a raccontarle di quella disgrazia, Gemma aveva rivissuto lo stesso sgomento di tanti anni prima, quando il suo unico fratello, nel suo primo giorno di lavoro, aveva perso la vita in un brutto incidente.

Improvvisamente, si era sentita stranamente responsabile del futuro di quella donna lontana e sconosciuta, che però conosceva nell’intimità delle parole che di lei leggeva ogni volta tra quelle righe. Non avrebbe saputo dire se quel che aveva deciso di fare fosse un bene o un male, come suo marito aveva cercato insistentemente di ripeterle; si era limitata a rispondere a lui e a se stessa che se sentiva in cuor suo di dover agire così, certamente non poteva che significare che fosse quella la strada migliore.

Ma ora, quella certezza stava vacillando davanti agli occhi quasi inespressivi di Luigia, che continuava a fissarla attraverso rivoli di pelle umida, che emanava un odore forte, di chi aveva attraversato il mare e ogni comprensibile sacrificio pur di arrivare a scoprire perché Aldo non si decidesse a tornare a casa. Quell’odore di ruggine e di terra, di lacrime e fatica, di salsedine e rabbia, avvolse le due donne che, per un amaro scherzo del destino, si ritrovarono su un palcoscenico di una storia dannata che mai avrebbero voluto fosse la loro.

A quel punto, Luigia volle sapere ogni cosa di quel figlio che se n’era andato a morire così lontano da lei e lei, Gemma, ogni cosa di lui le raccontò, fino ad accompagnarla sulla piccola, modesta, lastra di marmo in un angolo di quel cimitero in cui ora riposava.

Ma dopo che ogni cosa fu detta, dopo che si erano consumate tutte le lacrime, dopo che i ricordi si erano esauriti, come la luce del sole che lentamente anche per quel giorno si era spenta, Gemma trovò il coraggio di tornare a racchiudere il mare che separava quei due Continenti, non più in una domanda, come aveva fatto Luigia ore prima, al suo arrivo, ma in una proposta, schiusa in una sola parola: “Resti”.

Lei l’aveva guardata come se fosse la prima volta, come se non l’avesse mai vista prima di allora. Ci fu un complicato gioco di sguardi che solo due donne come loro poterono scambiarsi, in cui fu racchiuso ogni dolore, ogni paura, ogni più estremo tentativo di sopravvivere, ogni perplessità, ogni ritenzione, compresa tutta la voglia di scappare, ma senza più neppure sapere dove, dal momento che l’unico essere che per lei contava, ormai riposava lì, e lì sarebbe rimasto in eterno. Allora, non c’era più Terra, non c’era più stagione, né urgenza, né legame che avrebbe dato valore al ritorno. E fu così che, senza neppure capire bene come, decise che sì, sarebbe rimasta

Chi le conobbe, ebbe modo di raccontare di loro che, a distanza di anni da quell’incontro, Luigia e Gemma erano ancora assieme, dietro quel banco di alimentari, in quel quartiere di New York in cui, tanti tanti anni prima era arrivato un ragazzo, rotondo, scuro e dallo sguardo buono, pieno di speranze e ignaro che il Destino avesse già scritto per lui una storia troppo diversa da quella in cui sarebbe stato pronto a scommettere e che nel farlo non aveva tralasciato di seminare nuove inaspettate possibilità.

 

 

Palma Lavecchia

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