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L’amore in una penna – di Sara Bichicchi

Il dottor Sapienza entrò nello studio claudicando e si appoggiò stancamente alla scrivania.
« Olivieri? » borbottò, assestando sul naso gli occhiali appannati. « Olivieri Carolina? »
La ragazza pallida sdraiata su un divanetto annuì. Sapienza brancolò fino a una poltrona malconcia e, prima di sedersi, ne sprimacciò risolutamente i cuscinetti.

« Parli pure, signorina, » esordì frattanto, « io l’ascolto. »
« Ecco, dottore, io… » Carolina respirò a fondo, mangiucchiandosi con frenesia le unghie.
Lo psicologo schioccò teatralmente la lingua e si accomodò, fissando sulla paziente due occhietti vispi. « Continui, forza. »
« Vede, il problema è che continuo a pensare a Massimo » buttò lì la ragazza con un sospiro di frustrazione. « Abbiamo rotto, ma non riesco a farmene una ragione. Non lo avrei mai – e sottolineo mai – creduto possibile e… scusi? »
Il dottore si sporse in avanti e pungolò la giovane con la punta di una penna. « Scriva » le disse. « Cominci dal principio e scriva. »
« Non capisco. » Carolina, recalcitrante, cercò di rifiutare la biro, ma l’uomo gliela lanciò senza complimenti.
« Ripercorra tutto per filo e per segno, da quando ha conosciuto questo Massimo fino a oggi, e metta nero su bianco » ribadì Sapienza, abbozzando un sorriso sghembo e porgendo alla ragazza un taccuino. Lei afferrò il blocco con una smorfia e, aggrottando le sopracciglia, stappò la penna. Subito un inchiostro nero brillante macchiò la carta.

« Ho incontrato Massimo a scuola, per caso, e all’inizio proprio non lo sopportavo. Così arrogante e saccente, con quel sorriso sardonico perennemente impresso sulle labbra, mi irritava come nessun altro. Tra noi c’era una competizione sfrenata e, come se non bastasse, era sempre dov’ero io. In cortile, in corridoio, in palestra, ovunque. E mi guardava. Con quel maledetto sguardo penetrava più in profondità di quanto avrei voluto.
« Uscire con lui fu una sorta di scommessa, una gara di nervi, e non so a che punto la competizione è diventata attrazione. Attrazione fatale, del tipo che scoppia contemporaneamente nel cervello, nel cuore, nella pancia, e pare destinata a durare in eterno. »
Carolina riprese fiato e gettò un’occhiata al foglio: nell’ultima riga l’inchiostro non era acquoso come nelle prime.
« Per un po’è stato tutto allucinante, era come vivere in simbiosi: ci capivamo senza parlare, intuivamo in anticipo se l’altro stava male e, quando eravamo insieme, tagliavamo il mondo fuori. C’era libertà, in quei mesi, ma poi sono venute le promesse. Mi piaceva l’idea di amarlo per sempre, di non essere mai sola, perciò le ho prese sul serio. »

La voce della ragazza s’incrinò, resa rauca da una nota aspra. Sulla carta, intanto, le parole ingrigivano.
« Su, prosegua » s’intromise Sapienza, vedendo che il resoconto non riprendeva.
« Non so bene che cosa sia successo dopo, » ammise Carolina, « forse è subentrata la routine. Ogni giorno è diventato tristemente uguale al precedente, sapevamo già dove saremmo andati, che cosa avremmo fatto, le battute a cui avremmo riso. Persino i discorsi non cambiavano di una virgola: inerti chiacchierate sulla scuola, la casa in montagna dei suoi, i pessimi stufati di mia madre. Discussioni sterili che… » La penna cessò di scrivere. La giovane allora l’agitò energicamente, finché un debole gettito d’inchiostro non affluì all’estremità, permettendole di continuare. « … che portavano soltanto a galla le differenze. Improvvisamente era difficile immaginare un futuro con Massimo e… » La biro smise di nuovo di funzionare. Quando ripartì, dopo uno scossone ancora più vigoroso, i segni sul foglio erano pressoché bianchi. « … e, prima ancora che me ne accorgessi, eravamo distanti anni luce. Non restava che la passione, ma forse era semplice tempesta ormonale, e ben presto sparì pure quella. Niente più piccole attenzioni, niente buongiorno né buonanotte, così… » La penna morì definitivamente.
« È finita. » Carolina allungò l’oggetto allo psicologo.
« Lo so, » mormorò l’uomo, meditabondo, « e hai potuto evitarlo? »
« Questo che c’entra, scusi? » domandò la ragazza, confusa.
« Risponda, la prego » insisté il dottore.
« Beh, no, » mugugnò la giovane, « è finita e basta, non aveva più inchiostro. »
« Esattamente, » confermò Sapienza, « in questo modo fungono le penne, signorina, e pure l’amore: è fulgido in origine, però perde gradualmente la sua forza. È una parabola naturale. »
« Non necessariamente, » obiettò Carolina, « alcuni amori durano nel tempo. »

« In quei casi non si tratta più di amore, » la rimbeccò l’uomo, « ma di qualcosa di più. L’amore di per sé è tutt’altro che inossidabile. »
Il volto faceto dello specialista si stagliava contro la luce, d’un tratto accecante, di un paio di faretti e la ragazza, infastidita, abbassò lo sguardo. Nel farlo, tuttavia, trasalì. Una marea nera saliva dalle pagine del blocco e le imbrattava le dita, i palmi, i polsi, continuando a salire. La confessione della storia con Massimo si era dissolta, fagocitata da quell’orrore scuro, e pareva volerle entrare nelle vene. Istintivamente, Carolina urlò, mulinò le braccia in aria e chiuse gli occhi terrorizzata. Quando li riaprì, l’accolsero le infantili stelline attaccate al soffitto della sua camera. Le lenzuola appiccicate alla pelle, la fronte madida di sudore e il respiro accelerato non lasciavano dubbi sul fatto che, sebbene fosse pomeriggio, si fosse appisolata e avesse avuto un incubo, eppure un elemento del sogno rimaneva: le sue mani erano effettivamente sporche d’inchiostro.

« Che cavolo! » inveì la ragazza, individuando in una stilografica con la punta spezzata la fonte del liquido nero. Era quella che le aveva regalato Massimo in occasione del loro ultimo anniversario e adesso – dormendo doveva averla schiacciata – era irrecuperabile, dissanguata. Senza pensarci due volte, Carolina la buttò nel cestino. Per scrivere il racconto che le ronzava in mente, scelse una biro blu.

 

Sara Bichicchi

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