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La leggenda del gelsomino egeo – Racconto di Veronica de Gregorio

Arrivò dal buio. Dal lato opposto della vita. Con il suo bel lasciapassare e la benedizione degli dei. Dopo trent’anni stava per ritornare in quella minuscola isola dell Egeo. Era stata paziente e si era messa in attesa. Del resto, dalle parti in cui viveva ora, il tempo non aveva importanza. Nemmeno quello della pazienza. Bisognava soltanto aspettare il momento giusto e che gli dei le accordassero il permesso. Il momento era giunto. Bisognava che tornasse. E gli dei glielo concessero.

Venne fuori dal mare. Lo stesso che se l’era portata via un anno dopo che si erano sposati, in un giorno come un altro di un Aprile. Fu in una di quelle mattine in cui l’aria ferma e sospesa è solo un’ ingannevole ripresa di fiato prima della tempesta.
Stavros era un pescatore esperto. Come lo erano stato suo padre e i suoi avi. Osservò la superficie del mare e annusò l’aria. Valutò che prima della sera non ci sarebbe stato pericolo. Saltò in barca e si preparò a togliere gli ormeggi. Lei lo aveva accompagnato, come sempre. L’aria dell’alba non sufficientemente riscaldata da un sole ancora incerto, era pungente, ma ci era abituata. Qualche volta lui la portava con sé, d’estate. Le dava una tavoletta di sughero, lei ne srotolava un filo alla cui estremità un amo luccicante e a forma di pesce, serviva per adescare pesci che non arrivavano mai. Ma andava bene così. Spesso, ingannata dalla forza della corrente o da un intrico di poseidonie che imbrigliava l’amo, si convinceva di aver preso qualcosa. Allora in preda alla gioia rideva e batteva i piedi sul tavolato, facendo oscillare la barca. Stavros sapeva bene dell’ennesimo fallimento, ma non voleva interromperle quell’attimo felice. La guardava senza dire nulla. Gli piaceva vederla ridere. Lei lo faceva in un modo speciale. Era una che rideva intera. Con una forza che entusiasmava l’aria.
Quella notte, alla stessa stregua di un minuscolo oggetto puntuto finito per sbaglio sotto le lenzuola, un insidioso stato d’inquietudine le impediva di dormire. Si era impossessato di lei a poco a poco, col moto crescente di una marea, soffondendosi all’improvviso, lento e inarrestabile. Qualcosa di simile a un presagio di cui avvertiva la catastrofe senza che ne trovasse il nome. Non le era mai accaduto. Non riusciva a trovare la ragione né a darsi pace di quella diffusa sensazione di spiacevolezza. Era una donna serena e si reputava felice. La sua era una vita semplice e senza pretese. Scorreva insieme al ciclo delle stagioni, senza scosse, rinnovandosi come i fiori a primavera. Da una settimana sapeva che il bambino che desideravano tanto stava crescendo dentro di lei. Glielo avrebbe detto quella sera, a letto, in uno di quei momenti in cui la prossimità fisica, inducendo all’intimità, predispone a svelare segreti. Maschio o femmina non aveva importanza. Sarebbe nato a dicembre. Niente avrebbe potuto renderla più felice.Ma quella cosa minacciosa e senza nome continuò a turbarla per tutta la notte. – Vengo con te, gli disse. – No. Fa troppo freddo e poi starò via solo qualche ora. – Vengo con te. – Che cosa cé’? – le chiese. – Niente. Ho soltanto bisogno di stare con te. Era una donna caparbia, in lei desiderio e azione coincidevano, quando decideva una cosa la reputava fatta. Nessuno l’avrebbe convinta a rinunciare. Lui la conosceva bene e lo sapeva. Scrutò un’altra volta il mare e l’aria. In fondo sarebbero restati fuori solo qualche ora. Le allungò la mano per aiutarla a salire, liberò la barca dall’ormeggio e tirò il motore. Ma qualcosa non andava. Non capiva, il carico di benzina era a posto e il motore era nuovo. Rombò solo al quinto tentativo. Lei tirò un sospiro di sollievo. Quell’impedimento iniziale le era sembrato la conferma della sua precognizione.
Ma l’universo trama, sempre, e a nostra insaputa. Non sarebbe stato un giorno qualsiasi. Così era deciso. Un pescatore di un’isola egea avrebbe maledetto se stesso e il mondo. Sarebbe stato meglio se quel motore non si fosse messo in moto. L’Egeo aveva deciso di prendersi una donna e un figlio di cui suo padre non avrebbe saputo mai. Dopo la tragedia, Stavros il pescatore non parlò mai più. Il mare gli strappò via anche la voce.

Ειρήνη fece ritorno in un’alba gelida e ancora indecisa di febbraio. L’aria era strapazzata da un vento furibondo. Scagliato da Est mise in subbuglio terra e mare. Come una bestia ferita che si dimeni alla cieca perché non sappia con chi prendersela, scalciava rabbioso sulla faccia e l’anima delle cose. Impazzito e senza misericordia si accanì contro tutto ciò che gli ostruisse il passaggio. La sua ferocia si schiantò contro i muri delle case rabbrividendo grondaie, lamiere e scuotendo le fronde indifese degli alberi. Dal porto saliva il lamento di legno dei fianchi dolenti e spossati delle barche. Grovigli cadaverici di sugheri, galleggianti, bottiglie, squarci di pesci sventrati, idee di relitti indecifrabili, annaspavano esanimi sul ringhio dei cavalloni. Avvoltolati tra gigantesche arricciature marine, apparivano e rifluivano come naufraghi senza terra e senza pace. Una luna piena e senza giudizio svettava indifferente sulla luce ancora fievole del crepuscolo. Allungata sulle cose, penetrava le soglie dissestate delle case rischiarando muri e lembi di pesanti coperte odorose di lavanda sotto le quali, avvolti e segreti, dimoravano i sogni e i peccati degli uomini. Stavros il pescatore non aveva né gli uni né gli altri. La febbre altissima per la broncopolmonite lo stava consegnando alla morte.

Sulla spiaggia campeggiava un cartello. Indicava il nome dell’isola di F. Era stato messo lì per i viaggiatori speciali come lei. Perché non sbagliassero la meta. L’Egeo nasconde oltre duemila isole, confondersi era un rischio che quella donna, arrivata da un posto così remoto e solo per la temporanea compassione dei suoi dei, non poteva correre. Doveva fare presto. Il tempo dell’uomo che l’aveva persa stava oltrepassando la fine.
La barca di Stavros era la più piccola. La riconobbe subito. Sul fianco un nome: Ειρήνη. Il tempo e il sale che, impietosi, scavano sulla faccia delle cose, lo avevano sbiadito e si leggeva appena. Eppure se ne restava là, stremato ma irriducibile, in una lotta impari contro gli anni e il sale. Ειρήνη. La successione di quelle sei lettere non era solo il nome di una barca. Quelle sillabe racchiudevano due volti in una storia spezzata. Stavano lì a testimoniarlo al mondo e al Mare. Ειρήνη era lei.

Il mare, creatura indomita e ingannevole. Non si è mai certi di ciò che gli passa nella testa. Ha leggi proprie. Non conosce misericordia. Né per le cose né per gli uomini. E se ne frega della morte e del dolore. Non sa neanche che cosa siano. Sono concetti che non può comprendere. Le faccende umane non gl’interessano. Sono minuzie. Al pescatore Stavros non si accontentò di strappargli una donna. Non volle concedergli neanche di nominarne il nome. Lo risucchiò insieme al volto cui apparteneva, quel giorno di tren’tanni prima, l’ultima volta che l’uomo lo pronunciò.
Ειρήνη. Lo scagliò nell’aria con una forza inaudita, tanta da esaurire tutta la voce per le parole future. Lo piantò in quel punto preciso del mare e del tempo, come se fosse un limite, l’inizio e il finale di qualcosa oltre il quale la sua esistenza non sarebbe andata oltre.
Visse così, fino alla fine: muto e aggrappato al ricordo di un nome che non poteva nominare. Ειρήνη.
Nessuno conosceva i pensieri del pescatore, tranne il suo Dio. Tutte le domeniche si recava nella piccola chiesa ortodossa, l’unica dell’isola, e ascoltava la messa delle dodici. Quadrata e imbiancata a calce, era stata costruita con le offerte e il lavoro degli isolani per sostituire quella vecchia in cima alla collina, e che il tempo e la successione di tre terremoti avevano distrutto. Cinta da ulivi secolari e dalle macchie profumate di menta e rosmarino selvatico, conteneva solo otto panche, quattro a destra e quattro a sinistra, ed erano più che sufficienti. Gli abitanti dell’isola erano 143 e anche da quelle parti la fede cominciava a scarseggiare, tranne nei vecchi e nel pescatore Stavros. Dio era l’unico con il quale avesse mantenuto un dialogo. Lo incontrava ogni domenica, alla messa delle dodici. Ma sapendo che Dio, essendo preso da innumerevoli faccende, per ascoltare davvero gli uomini, ha bisogno d’incontrane uno alla volta, aspettava che la chiesa si svuotasse e che venisse il suo turno. Era un uomo umile e paziente e, a differenza del suo dio, non aveva nessuna faccenda da sbrigare. Né peccati dai quali farsi assolvere. L’ultima a lasciare la chiesa era Demetra, una donna antica grassa e vestita di nero dalla vedovanza. Sedeva sulla stessa panca, la prima a destra, e occupava lo stesso posto da tanto di quel tempo che vedere quella panca era vedere lei. Prima di andarsene, rinnovava il segno della croce e, sorreggendosi con una mano per non cadere, tributava un ultimo inchino di ringraziamento. Al Capitano voleva molto bene. Gli era legata come una madre a un figlio senza esserlo. Stavros la salutava con un cenno della testa. Sapeva che nella preghiere di quella piccola donna c’era spazio sufficiente anche per lui. Quando finalmente la chiesa si era svuotata e Dio stava là solo per lui, s’avvicinava all’altare. Inginocchiato, affidava orazioni segrete alle braccia martoriate di un Cristo ligneo inchiodato a una croce. Gli isolani, anche i più giovani, ne conoscevano la storia e gli erano affezionati. Spesso gli portavano del vino, i piatti speciali delle feste sacre e lo salutavano chiamandolo “ Capitano”. Demetra era l’unica abitante dell’isola che, a modo suo, frequentasse. Capitava da trent’anni e sempre di domenica. In una grossa cesta, la donna infilava frutta, formaggio di capra e baklava, la ricopriva con un telo di lino bianco e, sistematala sulla testa, s’incamminava su due glutei enormi verso il porto. La sua figura serpeggiava tra la collina come una macchia nera con un apice bianco in movimento. Affannata dal peso e dall’artrosi, bofonchiava l’ennesima imprecazione contro le gambe malferme e chiedeva un po’ di misericordia al suo dio. Stavros l’attendeva sulla banchina. Seguiva l’avanzare di quella sagoma scura e tondeggiante pensando che sarebbe stata una buona madre e che, forse, Dio era stato troppo preso dall’assurdità della guerra per accorgersene. La vedovanza sopraggiunta dopo due mesi di matrimonio, aveva privato Demetra di un uomo, della possibilità di avere un figlio e aperto un debito con la sua femminilità. Era il 1918, la fine della prima guerra, per Demetra era appena cominciata. I vecchi, a dispetto di un aspetto che neanche affidando alla più feconda e generosa delle immaginazioni si sarebbe potuta immaginare piacente, raccontavano che fosse stata la donna più bella dell’isola di F. e di quelle limitrofe. Ma Demetra, soffocando ogni foga ormonale e abbrutendo la grazia che la generosità del caso le aveva concesso, sfidò la natura e la vinse. Non condivise mai più il letto con un uomo. Il grasso in cui si allargò e la crescita di grossi peli furono il suo modo di distanziarsi dal mondo, di difendersi dagli uomini e di salutare la sua femminilità. Per gli isolani e per se stessa divenne”Demetra la grassa baffuta”. Rintanata dietro la pietra nuda di una vecchia casa, viveva dei prodotti di un piccolo orto, dei centrini di filo lavorati all’uncinetto e del pescato che le regalava il Capitano e che, in buona parte, finiva ai cinque o sei gatti con cui condivideva la sua esistenza. Al Capitano la baklava non piaceva, l’accettava soltanto per riguardo e per regalarla ai quattro bambini che vivevano sull’isola. Assicuratosi che Demetra risalisse la collina, li invitava con un cenno della mano e, diviso il dolce in piccole porzioni perfettamente uguali, aspettava che venissero a prenderla. I bambini salivano sulla barca, veloci e agili come pesciolini, sgattaiolando rapidi e chiassosi, così com’erano venuti.
L’estate sull’isola di F durava molto a lungo. L’Inverno, che della gioia festosa e dei piedi nudi e allegri dei bambini non sa che farsene, costringeva gli abitanti dell’isola di F a rintanarsi in casa. Iroso, irrompeva su quella scheggia di terra egea gonfiando cielo e mare e rosicchiando i muri delle case. Il Capitano non se ne avvedeva. E neanche gl’importava. Viveva un tempo estraneo alle stagioni. Senza scansioni. Fermo, nella casa dov’era nato, la stessa che l’aveva visto con Ειρήνη, e accolto il vagito e la prima schiusa degli occhi di suo padre. Costruita a ridosso della piccola strada sterrata, lungo la spiaggia, il lavorio del sale e dell’indifferenza ne avevano sgranocchiato la facciata. Tracce sparute di colore rimandavano a una pervicace idea di azzurro. Gli anni e l’incuria avevano soffocato fiori lussureggianti e cespugli salmastri di piante aromatiche, costringendoli in un groviglio di erbacce che penetravano la soglia di casa. Da un enorme vaso in coccio addossato al muro, a destra della porta d’ingresso, scoppiava un gelsomino silenzioso. Il tempo lo aveva arrampicato fin sopra il tetto. D’estate i grappoli bianchi dei suoi fiori davano dimora ad api indaffarate e levavano nuvole profumate che riflettevano la luce rosata dell’alba. Il Capitano ne cimava i fusti e teneva i parassiti alla larga. Lo aveva piantato Ειρήνη. Era l’unica cosa di cui l’uomo si prendesse cura e che desse movimento a un tempo che per lui non passava mai. Con l’avvicendamento delle stagioni quel gelsomino gli misurava giorni, mesi e anni che nel suo animo scivolavano indifferenti. Il mondo, dentro e fuori di lui si era rimpicciolito, restava fermo, racchiuso nell’immagine del volto e delle mani sottili di una donna che aveva perso ma che continuava a vivere in quella pianta. E a morire anche. Nella perpetua circolarità del suo rinnovo era un appunto. Fermo. Inchiodato dal tempo senza tempo e direzione dell’assenza. E del dolore. Il tempo, quello del Capitano, era rimasto imprigionato in mezzo al mare. In quel punto del passato e dello spazio in cui l’Egeo inghiottì Ειρήνη. Il dolore. Il Capitano aveva lasciato che radicasse dentro di lui senza resistenza, come radici di un albero nella terra. Lo trattava con riguardo. Come un ospite molto speciale e che non dia nessun motivo per chiedergli di andarsene. Il Capitano non lo avrebbe mai fatto. Era tutto ciò che gli restava di lei. E della vita. Alla stessa stregua del sonno, del pane e delle abluzioni mattutine. Era come una necessità. E l’unica compagnia. Conviveva nel Capitano, seduto e senza scosse. Senza far rumore. Se ne restava lì nell’angolo più riparato del suo cuore, rinnovandosi silenzioso di anno in anno. Al suono e nel movimento luccicante di una cesoia. Nell’andirivieni della scoronatura profumata di un gelsomino. Come tutte le piante della terra, il gelsomino aveva avuto la fortuna di un dio compassionevole che gli aveva risparmiato le sofferenze e i desideri degli uomini. Ma il Tempo, che avendone tanto a disposizione e non sapendo come trascorrere le sue giornate spesso s’annoia, sgattaiolò dai disegni di quel dio e decise di assegnarli un compito. Stabilì che diventasse un ponte. Tra un uomo e una donna. Tra due vite e una morte. Tra la morte e l’amore. L’amore chiede di vivere, sempre. E si aggrappa a quasiasi cosa. Per il Capitano era il volto di una donna rievocato dagli accenti metallici di una cesoia. Ειρήνη. Lei apparteneva al tempo immuetvole del cuore. E non se ne sarebbe andata mai. Il movimento in avanti degli anni l’allontanava ma la macchia odorosa di un gelsomino gliela riportava. Viva. Attaccata alla sua vita. Come delicati fiori penduli a una pianta.
La vita del Capitano scivolava sul mare. Vi attraversava gli anni e ne faceva parte, tanto che gli isolani, alla stessa stregua del dettaglio compreso in un paesaggio, non pronunciavano la parola “mare” senza associarla all’immagine della sua barca. Da oltre trent’anni, all’alba e tranne i giorni in cui il vento del Nord era troppo inferocito per affronarlo, in lontananza, il borbottio affannato di un motore annunciava che la Ειρήνη stava per mare. Il Capitano prendeva il largo, poi, scelto un punto, sempre lo stesso, gettava la rete e restava in attesa. Fermo, appuntato sull’acqua, sul volto serico e senz’ossa di quel mare. Solo e ricurvo. Come una piccola vela soffiata
Quella del Capitano era una strana pesca. Salvo che per i pochi pesci destinati a sé e a Demetra, e che girellavano disorientati in un consunto secchio di plastica blu, restituiva tutto il pescato al mare, trattenendo piccoli relitti e oggetti improbabili. Lembi di stoffa, brandelli di plastica, avanzi di oggetti imprecisabili, erano esaminati con una curiosa scrupolosità. Terminata l’ennesima disamina, riponeva tutto in un sacchetto dei rifiuti che avrebbe gettato a terra. I pescatori che lo incontravano al largo s’interrogavano sul perché di quello spreco e di un’attività così singolare. Ma la risposta la conosceva soltanto il Capitano e per darla non aveva voce. Il vero motivo di quelle uscite in mare senza senso era la speranza di ritrovare qualcosa che fosse appartenuto a Ειρήνη. Un minuscolo lembo del vestito o anche un filo di lana dello scialle indossato quella mattina, gli sarebbe bastato. I fiori che continuava a deporre su quella lapide sul nulla lo facevano uscire di senno. In quel gesto inutile provava la sensazione di perdere l’orientamento, come di chi giri in tondo, di essere prossimo a qualcosa che non sta da nessuna parte. Non riusciva a darsi pace.
Sull’isola di F. le stagioni sgusciavano piano e senza scosse. L’estate sbiadiva nella luce pallida dei primi pomeriggi d’ottobre e con la partenza dei pochi giovani alla volta delle Università di Atene e di Napoli. Nei boschi le foglie cricchiavano sotto i passi e il verde lucido degli alberi cedeva ai fiammeggianti belletti cromatici dell’autunno. Svuotata degli ultimi turisti, delle loro risate sguaiate e dei chiassosi tintinnii dei bicchieri nei bar, l’isola si riappropriava della sua vita semplice, del silenzio e di una pace che neanche la furia del grecale invernale avrebbe interrotto. I giorni attraversavano con lentezza gli uomini , la natura e le cose. Nelle poche case le giornate scorrevano lungo il filo colorato e il tintinnio metallico dei ferri usati per le amorevoli geometrie di pesanti maglioni fatti a mano.
Il tempo, allentando le sue maglie, sospendeva l’isola in un’atmosfera letargica, allontanandola ancor di più dalla terraferma.
Di sera gli uomini di ritorno dai mestieri di terra e di mare s’incontravano alla taverna di Cristina per giocarsi a carte una bevuta di uzo. Cristina serviva il liquore in bicchieri di vetro consunti e opachi. Ogni tanto, tra un’imprecazione e l’altra per un punto fatto dall’avversario, qualcuno trovava il tempo e lo spazio per alimentare qualche pettegolezzo sulle donne, soprattutto quelle giovani o qualche turista abituale partita da poco. I più spavaldi, e che erano anche i più vecchi, gareggiavano nell’inventarsi particolari piccanti di relazioni soltanto vagheggiate e che erano l’unico modo di fronteggiare la beffa che il desiderio si fa della vecchiaia. Il Capitano non giocava a carte, né gli piacevano.
Qualche volta Cristina, che dietro il banco preparava grossi maglioni di lana da spedire a suo figlio Michele, studente di medicina in Italia, andava a portargli una tazza di tè con il miele. Uscita sulla strada, le bastavano pochi passi. La casa del Capitano era a circa venti metri dalla taverna. Arrivava con la faccia avvolta in uno scialle nero, come i capelli, le guance infiammate da pensieri insospettabili e dei quali, pensando alla redenzione domenicale della confessione, si perdonava. Alexandro, il marito, passato a miglior vita dopo un infarto, le aveva lasciato il letto vuoto consegnandola alla condanna di un desiderio senz’approdo. Come certi dipinti antichi che, anche sotto la polvere e le incrostazioni, serbano intatto il loro splendore, il Capitano, non ancora sessantenne, mostrava i segni di una bellezza che una impercettibile continuità aveva digradato senza stravolgere. Il suo viso evocava una sensualità che l’avvicendarsi degli anni aveva diluito nella forma senza alterarne la sostanza e che, rimandando all’immagine giovanile dell’uomo, sollecitava le solitarie e notturne voglie di Cristina. Ma al Capitano la furia ormonale di Cristina lo lasciava indifferente. Aveva sviluppato un olfatto selettivo e speciale. L’unico odore che percepisse era quello del gelsomino durante la fioritura. Per quanto pregnanti, gli accesi effluvi della pelle di Cristina non lo richiamavano a null’altro se non a una sgradevole interferenza nella sacralità del suo spazio olfattivo. Ma era un uomo garbato e che non giudicava. Cristina restava una donna premurosa e gentile, i suoi accessi ormonali gli sollecitavano soltanto tenerezza e un sorriso bonario. – Bevi finché è caldo, – gli raccomandava. Il Capitano la ringraziava con un cenno della testa. La seguiva andarsene, così com’era arrivata, accesa, imbarazzata e rapida.
Nell’isola di F. era opinione dei vecchi che un solo minuto oltre i cinque necessari per rientrare alla taverna, sarebbe stato un motivo sufficiente per suffragare le fantasie peccaminose su una vedova quarantenne, florida e piacente. Cristina lo sapeva bene e svolgeva quel compito tendenzioso in tutta fretta. Durante il tragitto affrettava il passo, immaginando il brusio e lo scambio dei loro sguardi maliziosi mentre, tra una levata di carte e una di bicchieri, dietro spessi occhiali dalle montature quadrate, si scambiavano ammiccamenti spiando gli orologi e l’uscio. Ma non aveva nulla di cui rimproverarsi e quelle congetture non la tangevano. In fondo non era successo nulla. E benché tra i suoi pensieri ci fosse una speranza che al suo dio sarebbe apparsa disdicevole, non correva pericoli. Quel peccato soltanto immaginato le sarebbe stato assolto durante la confessione della messa successiva.
L’inverno giunse puntuale, insinuandosi nelle nudità indifese degli alberi e sotto gli usci delle case. I pescatori andavano in mare raramente, tutti tranne il Capitano.
Una gelida e piovosa domenica di febbraio, al porto, tra la continuità dei fianchi esagitati delle barche, qualcuno notò un vuoto. La barca del Capitano non era stata ormeggiata. Al suo posto c’era un piccolo specchio d’acqua putrida dove, tra chiazze d’olio e fasci d’alghe strappate al fondale, indifferente alle cose degli uomini, una chiassosa anatra girava in tondo, starnazzando felice. Dodici rintocchi di campana annunciarono la metà del giorno.
Non era mai successo che con condizioni meteorologiche così avverse il Capitano prendesse il largo, né che perdesse la messa domenicale, neanche una volta.
Fu Cristina a dare l’allarme. In pochi minuti tutta la comunità dell’isola si radunò al porto per stabilire il da farsi. Le donne sgranavano rosari mormorando preghiere al loro Dio, mentre gli uomini, stretti in cerchio, si scambiavano opinioni e prendevano decisioni.. La notte precedente c’era stata una burrasca, forse il Capitano era stato spinto dalla corrente oltre le tre miglia entro le quali era solito andare.
Il mare era ancora alto e l’aria minacciava tempesta, ma il grosso peschereccio di Andrea, un giovane pescatore e l’esperienza di suo padre Vassili, un vecchio ed esperto marinaio, furono reputati sufficienti per affrontare l’impresa. Entrambi indossarono dei resistenti impermeabili verdi e degli stivaloni dello stesso colore. Staccarono gli ormeggi e salparono. Il peschereccio si staccò dal porto, lento e sospettoso, con la circospezione di un grosso animale che aggiri una trappola. Prese il largo sotto un cielo cupo e minaccioso, seguito dalle preghiere delle donne e dalla lucida sfiducia degli uomini. Sparì dall’occhio degli isolani e dell’isola virando a Est, dietro la sentinella di un solenne faraglione, lasciandosi alle spalle le donne in preghiera e il silenzio parallelo degli uomini. Andrea e Vassili s’inoltrarono nell’impresa senza scambiarsi una parola. Nella solitudine dei propri cuori affidarono se stessi e il Capitano alle braccia aperte del Cristo nella chiesa.
Avvistarono la barca del Capitano a quattro miglia dalla costa. Stava incastrata tra due scogli antistanti un isolotto disabitato.
Riuscirono ad accostarsi dopo una serie di faticosi tentativi andati a vuoto. Il Capitano era riverso a terra, privo di sensi, il corpo bagnato fradicio. Sembrava un cencio picchiato dalla pioggia. Andrea si abbassò senza perdere il suo appiglio e, combattendo contro le potenti sferzate dell’acqua, girò il corpo del Capitano per tastargli il polso. E’ vivo, gridò, vecchio pazzo
Al porto, pronti ad accogliere i tre uomini, trovarono una piccola folla e Nicola, il medico dell’isola che prestò i primi soccorsi e accertò le funzioni vitali del Capitano. Demetra ingiunse di assisterlo a casa propria. Nicola assentì.. L’ospedale più prossimo era sull’isola di I, a quattro ore di navigazione. Con quelle condizioni meteorologiche così pessime sarebbe stata una follia. Demetra, accompagnata da altre donne, anticipò il piccolo corteo che seguiva il Capitano. Entrata in casa tirò una coppia di lenzuola pulite dall’armadio, un’altra coperta, sprimacciò i cuscini e, preparato il letto, accese una candela votiva sul comodino, davanti a un’icona della Madonna nera. – Ha una polmonite molto grave ma ce la farà, annunciò in tono greve Nicola – Questa penicillina fa miracoli, ora ha soltanto bisogno di stare al caldo e riposare. Terminata la visita, Nicola chiese all’adunata di lasciare la casa e si congedò istruendo Demetra sulle cure, le modalità e i tempi con cui andavano somministrate le medicine. La donna attese al suo compito sistemandosi su una grossa poltrona di nappa marrone alla sinistra del letto, prospiciente il comodino con la Madonna nera. Controllava la temperatura e somministrava farmaci con quella compassione senza cedimenti che necessiti la cura di un animale ferito. A vederlo così, incosciente e ritirato su un fianco, Stavros il Capitano le sembrava lontano anni luce da quell’uomo forte e ombroso che fingeva di mangiare la sua baklava. Era questo che pensava, mentre, sovrastando il ticchettio dell’orologio, sussurrava orazioni.
Per tutta la notte il sottofondo arrochito della sua voce in preghiera accompagnò l’andirivieni della corona del Rosario tra le dita. All’alba, sopraffata dalla stanchezza, il sonno sospese l’ennesima Ave Maria su un grano d’argento. Si addormentò serena, nel cono di luce tiepida della lampada, con il baluginio d’argento di quella corona benedetta tra le mani.
Il mattino schiarì sotto il Grecale. Al porto i pescatori furono costretti a rinforzare gli ormeggi. Gli spifferi gelidi penetrati nella casa di Demetra vorticavano le note fumanti del caffè turco emanate da un grosso bricco d’alluminio.
Il Capitano stava immobile. Aveva mantenuto la stessa posizione tutta la notte. Neanche la tosse violenta che gli scuoteva il petto come una scossa elettrica era riuscito a cambiargli la posizione.
Demetra si chinò, gli accostò le labbra alle tempie per fare una valutazione poi gli infilò il termometro in bocca e aspettò. La febbre era ancora alta ma era calata. S’inchinò davanti alla Madonna nera e la ringraziò con un’Ave Maria, poi sgusciò in cucina a preparare del latte caldo. Quando rientrò, il Capitano stava cercando di sedersi al centro del letto. Mostrava l’aria smarrita di chi, risvegliatosi all’improvviso, non riconosca il luogo in cui si è addormentato. Aprì bene le palpebre e mise a fuoco la faccia tonda e rubizza di Demetra. Nell’intervallo tra lo stato di coscienza e il senso di gratitudine che nutrì verso la donna, dentro di lui sentì staccarsi qualcosa. Ascese in superficie e gli mosse le labbra. “Ειρήνη”. Pronunciò quel nome rivolgendosi a un punto nell’aria, come se stesse guardando qualcosa di visibile solo a lui.
Demetra lo fissò con gli occhi sgranati. Era dura d’orecchi e per essere certa di aver udito bene gli avvicinò la faccia come per studiarlo. Non ho sentito bene, vecchio pazzo, hai detto qualcosa? Il Capitano girò il capo, continuando a guardare quel punto invisibile. “ Ειρήνη”. “ Madre Santa”, gridò, facendosi il segno della croce. Era un miracolo, il Capitano aveva ripreso a parlare. Non riusciva a crederci. Bisognava che gli altri lo sapessero subito. Gli rimboccò le coperte e, ingiungendogli di non muoversi, andò fuori a cercare Nicola e a dare la notizia.
Il Capitano aveva le idee confuse . Non ricordava con esattezza che cosa fosse successo né sapeva come e perché fosse finito nel grosso letto in ciliegio di Demetra. Tutto ciò che seppe quando chiamò quel nome fu una sola cosa. Doveva tornare a prendere la sua barca. Rischiare di perderla era come far morire Ειρήνη per la seconda volta. Provò a scendere dal letto ma la polmonite lo aveva annientato e lo vinse. Sprofondò nel sonno contro la sua volontà, esanime. Senza che se ne accorgesse.
Bastarono pochi minuti. Arrivò al porto, salì sul peschereccio di Andrea e prese la rotta della barca, quattro miglia a Sud-Est.
La ritrovò subito, era rimasta incastrata tra le rocce.
Poche sapienti manovre e si accostò. Fece un saltò e ci salì. Se non fosse stato sobrio non avrebbe creduto ai propri occhi. Ειρήνη era là. Giovane e con il suo scialle di lana a fiori lilla, lo stesso che indossava il giorno della sciagura. “Ειρήνη”. Si sentì inondato di gioia. Il suo dio lo aveva ascoltato. Era stato compassionevole e indulgente per entrambi. Aveva voluto che si ritrovassero. Lei non disse nulla, gli fece un cenno delle braccia e lo invitò a raggiungerla. Poi un’onda altissima. Non se ne erano mai viste di quelle dimensioni. Il Capitano sfiorò le labbra di Ειρήνη raccomandando le loro anime a Dio. Qursta volta l’Egeo l’inghiottì entrambi.
Intanto nella casa del Capitano, assieme a Demetra e a Nicola, era sopraggiunta una piccola folla. Quando il medico si avvicinò per verificarne le condizioni, il Capitano aveva gli occhi chiusi e il viso disteso. Gli prese il polso e glielo misurò.
Stavros era morto.
Ειρήνη aveva assolto il suo compito. Aveva fatto in tempo. Si tennero per mano durante tutta la durata del viaggio. Gli dei, allietati da quel lieto fine, fecero un’altra concessione. Li nominarono ambasciatori dell’amore, quello eterno delle favole e stabilirono che ogni anno, durante la fioritura estiva, sarebbero apparsi sotto il gelsomino.
Da allora molte cose sono cambiate sull’isola di F. I vecchi sono tutti morti e i giovani sono troppo presi dai sogni del loro futuro per credere o interessarsi a quelli che gli altri hanno fatto in passato. Né, tantomeno, e soprattutto con l’evvento dell’iphone, credono alle favole. La casa che vide questa storia non esiste più. Il susseguirsi di mareggiate violente se l’è portata via un po’ alla volta. Tutto ciò che resta della leggenda del Capitano e di Ειρήνη è il gelsomino. E’ diventato enorme. D’estate, quando è nel pieno del suo rigoglio, dal mare, la sua grande macchia profumata accende di bianco quel punto della strada. Se si ha la vista giusta si vedono un uomo e una donna che si tengono per mano.

Veronica de Gregorio

 

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