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La fragile casa – Racconto di Teresa Bonanno

Il canto del gallo, la cosa più detestabile per chi, come me, non ne vuole sapere di iniziare una nuova giornata.
Che poi di nuovo cosa c’è? Niente, proprio come sono solita rispondere a chi mi fa domande sulla mia piatta vita.
Piatta…perché dire già sottoterra sarebbe un contro senso con il termine stesso di vita, a meno che…io non sia un verme.
Uhm…mi differenzia solo il fatto che non striscio, però sono umidiccia.
Rocco, tutta colpa sua!.Mi lava il viso per farsi portare fuori.
Almeno lui ha degli obiettivi: fare la pipì, mangiare, bere.
In realtà sono bisogni primari, ma per lui sempre obiettivi sono.
“va bene, va bene, mi alzo.”
A volte glielo dico un po’arrabbiata, altre invece con un tono quasi che lo ringrazia.Oggi è così: lo ringrazio.
Nel mentre che mi preparo lui mi fa gli attacchi, mi mordicchia e mi dice, a modo suo, di fare in fretta.
La fretta, e chi la conosce più? Sono talmente rallentata nei movimenti che una lumaca mi batte in velocità.
Ci chiudiamo dietro la porta di casa e si va, il solito percorso, verso la rocca.
Lui scodinzola felice. Beato lui!
La mia vocina interiore, quella che mi tormenta sui miei fallimenti, stranamente – o con l’intento di darmi forza- mi dice:
” Emma, dovresti prendere esempio da lui!Tu hai sempre quel muso lungo!”
Va beh, non è incoraggiante tutto il messaggio, ma una parte sì.
Forse miglioro.
Arrivati all’acquedotto, una folata di vento tra i capelli.
Stranamente, sorrido.
I gesti della natura sono così avvolgenti, come la mano di quel soffio che, oltre me, accarezza dei rami di un salice piangente.
Intravedo una stradina mai vista prima.
“perché no?”
Intraprendo il nuovo percorso, ma la vocina non tarda a farsi sentire
” e se poi ti cacci nei guai ed è pericoloso?”
Alzo le spalle, per quel che m’importi.
Con non poche difficoltà, mi addentro sempre più nella vegetazione di quella strada sterrata, che a ben vedere aveva tutti i dettagli di non essere battuta da tempo.
Sollevo lo sguardo verso l’alto, cosa che mi capita di rado, e noto il tetto di una casa.
Mi dirigo verso di essa più per la prosecuzione della camminata che per curiosità; anche quella mi ha abbandonata ormai da tempo.
Dunque eccomi davanti ad essa.
La prima cosa che noto é che é…abbandonata.
La desolazione attorno a quelle mura, sola come me.
Guardo Rocco che si comporta in modo strano: indietreggia ed alza il pelo.
Improvvisamente, abbaia.
Sussulto dalla paura e gli grido
“mi hai fatto prendere un accidenti!”
Cerco di aprire la porta con Rocco che riesce a liberarsi dal guinzaglio e scappa verso la direzione opposta.
A nulla servono le mie grida a fermarlo, corre come una lepre.
Quando finalmente riesco a raggiungerlo, lo trovo con la lingua di fuori, pronto a correre nuovamente se solo avanzo di un altro passo.
Allora mi viene l’idea: faccio finta di mastivare rumorosamente qualcosa.
Trucco riuscito, l’ho preso per la gola, in entrambi i sensi.
Decido di rientrare a casa e lungo il cammino incontro Cesare, un gran chiacchierone che in maniera velata ci prova sempre con me, che mi chiede dove fossi stata a passeggiare visto che non m’ aveva vista passare al solito orario dal solito posto.
Insomma, Cesare è peggio di quelle zitelle alla finestra che sanno tutto di tutti!
Gli avrei voluto rispondere a molo modo, ma non ne sono capace.
Quindi, dopo averglielo detto, mi racconta di quella casa, di una ragazza straniera, Katherine, che era stata tempo addietro rapita e portata lì a morire.
Mi dice che c’è una leggenda che la vuole ancora lì a vagare nella casa, di specchio in specchio; intrappolata nel luogo che per la seconda volta le aveva rapito l’ anima.
Liberatami di Cesare giungo finalmente a casa ripensando a quando detto e accaduto con Rocco.
Si dice che gli animali sentano la presenza dei morti e questa asserzione ha sempre avuto un certo acchito sulla mia persona.
Decido di lasciare Rocco a casa e di tornare alla casa.
Provo un gran senso di colpa per il fatto di non portalo nuovamente con me; é così facile sentirmi in colpa anche per queste piccole cose.
Rifaccio la strada ed arrivo di fronte alla casa, ora la guardo con occhi diversi, di chi conosce la sua presunta storia.
La porta scricchiola ed il pavimento di legno fa altrettanto ad ogni mio passo.
È cupa e le finestre chiuse la rendono buia, fortuna ho lasciato la porta aperta a dirigere la mia direzione.
La cosa che mi colpisce è la scalinata frontale con appeso sul muro uno specchio con la cornice rifinita.
Volgendo lo sguardo ne vedo altri sulle altre due pareti.
Odio gli specchi, questi sono fin troppi.
Ed ecco tornare lei, la maledetta vocina:
“Guarda come ti sei fatta! Ti riconosci? Brutta, grassa e vestita schifosamente.”
Come darle torto? Aveva pienamente ragione.
Mi desta dalla lotta interiore che sto affrontando, uno strano riflesso nello specchio.
Suggestione?
I brividi lungo la schiena però sono qualcosa di reale.
Mi avvicino allo specchio, ma vedo solo ciò che lo specchio rimanda del mio essere.
Schifosa dentro e fuori.
La rabbia mi assale, afferro un candelabro e lo getto verso di esso.
Quello cade a terra e si rompe in mille pezzi, come me.
Eruttato il vulcano represso dentro, mi sento libera, a pezzi, ma libera di averne aperto la bocca.
Piegata sulle gambe, piango.
Esco dalla casa con la sensazione di aver liberato anche altro, o forse, è solo quello che voglio credere.

 

Teresa Bonanno

 

 

 

 

 

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