Accosto e spengo la macchina. Non sarà una città, ma almeno in questo gruppo di case c’è un bar. O almeno penso si tratti di una locanda. Digito la scritta che campeggia sull’ingresso. Confermo, traduzione letterale è ‘Osteria del sinistro’. Prima di scendere dalla vettura controllo per l’ennesima volta quanta strada mi manca per arrivare al mio hotel. Previste ancora tre ore di viaggio. Guardo l’ora. Sono le 19:48. Più tre fanno le 23. È decisamente il caso di fermarsi qua a buttar giù un boccone.
Scendo, chiudo a chiave, controllando che i miei averi siano più al sicuro possibile. Percorro i pochi metri fino all’entrata facendo respiri profondi. Odio presentarmi in posti sconosciuti, solo e senza conoscere la lingua. La porta si apre con uno scampanellio bronzeo. L’interno è tutto in legno, dal pavimento al soffitto. Cinque tavolate piazzate vicine. Un bancone lungo, e tante bottiglie quante sono le bestie imbalsamate. La polvere si mescola al fumo mentre ruota attorno alle lampadine ciondolanti. Faccio i dieci passi che mi separano dalla signora in grembiule bianco. La donnona rubiconda mi fissa dall’alto della sua altezza.
Devo alzare lo sguardo per poterla fissare negli occhi. Mentre salgono mi riportano di seni immensi, di collo taurino, di mandibole serrate. E soprattutto di migliaia di macchie sulla sua divisa. Il primo pensiero che ho le riguarda. Il mio menù sarà insalata e acqua, non oso immaginare come possano essere i cibi, se quello è il suo canone di pulizia. Poi la seconda considerazione. Con che coraggio le chiedo di digitarmi sul cellulare quello che vuole dirmi? Improvvisamente mi sento stupido ad aver pensato di usare un’applicazione traduttrice al posto di una guida. Lei mi sta osservando. Inizia a parlare come si fa coi bambini, accompagnando le parole sillabate con gesti eloquenti. Mi sento una scimmia ammaestrata mentre rifaccio il gesto di mangiare. Lei lascia la postazione, mi si affianca e mi conduce come cucciolo smarrito ad una panca. Mi fa accomodare. Scompare e ricompare in una frazione di secondo. Arriva con una brocca, un bicchiere e un cestino con dentro il pane. Li appoggia davanti a me, mentre dal grembiule toglie le posate avvolte in un tovagliolo. Io non oso alzare lo sguardo dal tavolo. Che è pulito. Logoro ma pulito.
Mentre osservo il bicchiere mi accorgo di essermi sbagliato. Non è sporco, è solo opacizzato dai troppi lavaggi. Come il tovagliolo, che risplende di candeggi e ne porta le cicatrici con rammendi fatti ad opera d’arte. Mi lascia solo ancora una volta. Alzo lo sguardo. Sono il solo avventore. Mi sento fissare da tutti quegli animali imbalsamati che mi fissano dalle pareti. Per non entrare in panico mi concentro sul cellulare. Scrivo all’app cosa voglio da mangiare. Quando ritornerà la matrona le farò leggere cosa voglio. ‘Insalata condita.’ Direi che l’acqua non è il caso di ordinarla, penso, mentre sconsolato verso il contenuto della caraffa sbeccata. Noto con sorpresa che il vino ha tonalità intense. Un giallo carico, quasi arancione. La gola è troppo riarsa per aspettare le raffinatezze della degustazione. Trangugio il bicchiere in un fiato. Esterrefatto sorrido.
Sentori minerali che si tramutano in torba e fieno, per poi fiorire fruttati. Me ne verso un altro. Neppure mi accorgo che lei è in piedi di fianco a me. Il mio sorriso deve essere quello di un bambino con le dita nella nutella, mentre le passo lo smartphone. Legge l’ordine. Il suo sguardo si indurisce. Il mio stomaco vuoto dal mattino mi rimanda al palato sapore di terra dura. Si dirige verso l’unica porta oltre il bancone. Mentre si allontana la osservo pensando ad un’orsa. Agile ed imponente. Trangugio un altro bicchiere. Il sentore di terra dura mi percorre la gola, depositando fiori e frutti lungo il percorso. Istintivamente mi volto. La comare precede un omone, sembra una bambina da quanto immense sono le spalle di lui. La barba luccica selvaggia del suo argento, coprendo metà del grembiule. La sua voce mi riporta a quando ero bambino, alle fiabe sugli orchi. Non riesco a capire una parola di ciò che dice. Ma il tono non è certo amichevole. Mi sento un salmone che chiacchiera con un grizzly. Appoggia le mani sulla tavola. Guardandole mi rendo conto che potrebbero afferrarmi come fossi una bambola.
Il brivido che dai glutei mi risale fino alla nuca viene accentuato dal suono di una campanella. Vivo già la scena da wrestling. Lui che mi afferra e mi lancia contro la testa di cervo al di là della sala. Io che vengo trafitto dalle sue corna. Sono talmente disperso in questo incubo da non notare la ragazza che si è frapposta fra me ed il gigante. Lei prende il mio telefono è legge cosa avevo scritto. Inizia a parlare veloce coi due, mentre la sua risata mi trascina lontano dai sogni di assassinio. Le pareti paiono spalancarsi come vallate e boschi mentre le risa tuonanti dei due si sommano alla sua. Finalmente la ragazzina si rivolge a me. Noto che è in pigiama. Uno di quelli di flanella, da calde coperte in una stanza gelida. Il viso gentile, labbra che….parlano la mia lingua. Mi dice cortese che lei è la figlia, che sua madre l’ha chiamata appena si è accorta che c’era uno straniero al ristorante. Che lei l’aveva presa con calma, che era già a letto a leggere un libro e che quindi non aveva voglia di scendere a conoscerlo. Però quando aveva sentito il tono agitato dei genitori in cucina, aveva deciso di vedere che cosa stava succedendo.
A quel punto le chiedo io perché sembrava che volessero mangiarmi. Lei ha le lacrime agli occhi dal ridere, dice qualcosa al padre. Lui alza la mano sinistra. Noto una cosa. Gli mancano le ultime falangi dell’anulare e del mignolo. Continuo a non capire. La mia mente mi avverte che potrebbe essere un rito della zona. Una specie di iniziazione. Che tra un secondo la madre mi terrà fermo il braccio mentre la figlia mi consolerà ed il padre mi taglierà le dita con la mannaia. E che sfiga, sono anche mancino. Le mie sono lacrime di autentico terrore mentre li fisso uno ad uno negli occhi. Strano, vi leggo una sincera allegria. La figlia mi illumina.
“Vede, questi traduttori sono molto approssimativi nel nostro dialetto. I miei si sono agitati perché ha tradotto ‘insalata con dita’. E come può immaginare papà è suscettibile sull’argomento!”.
La mia risata suona come il fischio della pentola a pressione, mentre l’oste mi versa l’ennesimo bicchiere di vino. Poi si allontana mentre la figlia mi spiega che stava andando a prepararmi una cena da re per farsi perdonare. La madre aggiunge altri tre coperti vicino a me.
Francesco Sampietro