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In un tempo lontano – racconto di Cristina Bracelli

Guardai dentro dalla finestra che dava sul giardino.

In punta di piedi, i nervi tesi e il collo tirato, mi sporsi il più possibile.

I vetri, anche se un po’ offuscati dalla polvere, restituivano abbastanza nitidamente l’interno della grande villa.

Sotto i miei piedi c’erano dei legni secchi, cercai di non fare alcun rumore, anche se tutto mi lasciava supporre che nessuno avrebbe potuto udirlo.

Sembrava abbandonata.

Quasi non respiravo, forse per quell’emozione inaspettata.

Riuscii a scorgere delle vecchie tende strappate che forse un tempo erano state bianche.

Una era per terra che copriva come un sudario un bel pavimento in cotto antico rosso, l’altra pendeva dall’unico gancio che ancora la reggeva.

Mi accorsi solo allora che l’angolo destro del grande finestrone da cui stavo spiando l’interno era rotto e che i vetri, accarezzati da un raggio di sole, scintillavano sul cotto.

Un topo, infastidito dal mio odore, mi fissò a lungo con il naso fremente, cercando di capire se fossi un pericolo, e poco dopo spari’ dentro un minuscolo foro nel muro, senza fare alcun rumore.

Percepivo un odore strano, di stantio, di muffa e di qualcos’altro che non riuscivo ancora a distinguere, ma che dovevo aver gia’ sentito da qualche parte, e che per qualche motivo mi inquietava.

Un vecchio grammofono quasi intatto era rimasto stranamente abbandonato in un angolo e pareva protendersi verso la luce, nel tentativo di farsi notare.

Olio di lino. Si’, era proprio l’odore dell’olio di lino usato per dipingere, quello che avevo avvertito, ma com’era possibile? Che fosse la casa di un pittore? Che potesse nascondere ancora qualche piccolo tesoro dimenticato? Magari esisteva qualche spazio nascosto, non ancora visitato da ladruncoli o ragazzini in cerca di avventure.

Quell’odore nascosto nelle pieghe di un tempo passato era tornato a farmi visita all’improvviso e si era fatto riconoscere.

L’olio di lino era sopito nella mia memoria di bambina, quando mia madre dipingeva in cucina con la radio accesa, i pennelli sparsi sul tavolo e la mente altrove.

Il pensiero della radio accesa mi ridestò da quei lontani ricordi e mi riportò l’attenzione sul grammofono abbandonato.

Mi tornò alla mente l’ultimo mercatino d’antiquariato dove ne avevo visto uno.

Quella villa era l’alloggio perfetto per la musica di un grammofono, quasi mi pareva di udirla…

L’olio di lino mi entrò nelle narici e mi convinse che era ora di entrare in quella casa.

Ero rimasta tutto il tempo in punta di piedi a guardare attraverso la finestra, così mossi il primo passo alla ricerca di un ingresso.

Nelll’angolo dove si trovava il vecchio grammofono si intravedeva una porta semi aperta che lasciava intuire la presenza di un muro e a meno che la vista non mi stesse ingannando, su quel muro mi parve di cogliere un’ombra.

I vetri sparsi sul pavimento scricchiolarono, e piccole nuvole di polvere si alzarono ad ogni mio passo, mentre mi avvicinavo esitando alla porta. Cedette subito e si aprì senza sforzo e senza cigolii. L’ombra sul muro era enorme, ma era poco più grande dello strano macchinario che la produceva. Non riuscivo a distinguerne i contorni, ma l’insieme di ingranaggi, ruote dentate e stantuffi era vagamente inquietante e dava l’impressione di potersi rimettere in movimento all’improvviso.

Il primo impulso fu di allontanarmene il più in fretta possibile, ma la curiosita’ mi fece tornare indietro, dovevo capire che cosa fosse e perché fosse rimasta lì ferma per tutto quel tempo. Che fosse una specie di telaio meccanico? No, non ne aveva l’aspetto. Una macchina per stampare? Magari denaro falso? L’ipotesi mi affascinava, cominciai a fantasticare sull’idea di una famiglia nobile decaduta che per mantenere il suo prestigio sociale avesse adottato questo stratagemma…. No, non reggeva neppure questa ipotesi, ma allora che cosa poteva essere, dovevo assolutamente saperne di più.

Eppure quella macchina mi diceva qualche cosa. La macchina e l’olio di lino insieme erano la spiegazione che stavo cercando.

Andai a scavare nei ricordi dei miei studi universitari.

Avevo sentito parlare di telai che venivano utilizzati in una delle fasi di preparazione di pregiate tele di lino.

Il tessuto veniva pettinato e spalmato con diversi strati di olio di lino per ottenere tele per la pittura ad olio con ottime doti di resistenza ed elasticità dalla superficie uniforme e senza imperfezioni che consentisse al colore di aderire bene rimanendo pulito e luminoso.

Possibile che si trattasse proprio di uno di questi macchinari? ma cosa ci faceva in una villa abbandonata?

Ancora una volta pensai di dover capire innanzitutto chi aveva abitato la casa, forse potevo trovare qualche informazione nell’archivio elettronico della biblioteca del paese, vecchi articoli di giornale ad esempio.

Ma non prima di aver proseguito la visita. Davanti a me un’altra porta. Entrai.

Un salone, forse la vecchia sala da ballo. E la carcassa di un carro: con i resti del suo rivestimento, chiaramente prodotto dal macchinario appena trovato, che ancora lo ricopriva quasi integralmente. E due grandi occhi liquidi e interrogativi che mi fissavano dal predellino: un piccolo cane scuro con un collare consunto seguiva le mie mosse con curiosita’. Stupita dalla sua presenza mi avvicinai per accarezzarlo, ma i due occhi si ritirarono prontamente nel carro e quando lo seguii mi trovai di fronte un uomo seduto su un antico sedile di legno, tranquillamente intento a rimestare in un pentolino. Stranamente, continuo’ nella sua lenta occupazione senza degnarmi di attenzione. Al mio saluto, alzo’ lentamente gli occhi, e mi chiese bruscamente che cosa volessi. Troppo stupita dall’incontro, farfugliai una domanda qualunque e chiesi scusa per la mia intrusione. L’uomo si appoggio’ allo schienale di legno e comincio’ a fissarmi con aria sospettosa.

Gli chiesi chi fosse e cosa ci facesse in una casa abbandonata.

Inaspettatamente alzò il suo sguardo stanco su di me e cominciò a parlare.

Mi disse che la casa era disabitata da almeno sessant’anni, da quando l’ultimo signore andò in disgrazia per debiti di gioco.

Aveva cominciato a lavorare per quella ricca famiglia quando era poco più che un ragazzo e il signore che portò alla rovina l’antica dimora era il figlio, quasi suo coetaneo, degli allora padroni.

Arrivò la guerra e il ragazzo fu chiamato alle armi, quando tornò dall’inferno, trovò la sua casa devastata e depredata e i suoi genitori morti.

Cercò di riportare la casa all’antico splendore ma per farlo si giocò gli ultimi gioielli di famiglia, scampati alla razzia, al tavolo verde.

Quando perse anche quelli, pensò bene di immischiarsi in un losco affare, con l’acquisto di quell’antico macchinario che avevo visto nell’altra stanza, per produrre tele di lino che sarebbero servite al mercato nero dei falsi d’autore e quella fu la sua rovina.

Entrò in un pericoloso giro d’affari e per uscirne e seminare anche gli strozzini, scappò all’estero.

Il vecchio mi disse che in quei giorni convulsi si nascose nei meandri della casa per mesi, senza mai farsi scoprire, fino a quando la situazione si calmò e nessuno venne più a cercare il suo padrone scappato.

Da allora tutti l’hanno creduta abbandonata.

Tutt’ a un tratto smise di parlare, e calò il silenzio.Abbassò lo sguardo e tornò a rimestare nel suo pentolino.

Dopo alcuni interminabili minuti, con lo stesso cipiglio con cui mi aveva accolta, nel medesimo modo brusco, mi chiese se volevo essere sua ospite e dividere la sua minestra.

Non me lo feci ripetere due volte e mi sedetti dove trovai posto.

Era sopraggiunto il tramonto e la luce crepuscolare entrava da un’alta vetrata illuminando di rosso tutta la stanza.

Mi sentii trasportare in un tempo lontano, le mie orecchie udirono il suono del grammofono, sentii il rumore dei passi degli ospiti nel salone da ballo accanto, la tavola era imbandita.

La cena di gala in mio onore stava per iniziare.

 

Cristina Bracelli

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