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Il viaggio – racconto di Maria C. Morabito

Mi fermai all’angolo della strada, tirai fuori dalla tasca il minuscolo pezzo di carta, l’indirizzo era quello, come il luogo descritto da te. A destra una Chiesa, a sinistra una piazza con un piccolo ristorante sempre affollato da gente di passaggio. L’orologio del campanile scandiva ad una ad una le sue ore, le 20,00 in punto. Ero stanca, affaticata dal viaggio ma tanto felice d’aver sentito finalmente l’odore della tua città. Mi domandavo se tu avessi percepito la mia presenza sotto quel cielo che all’imbrunire si colorava di appena di rosa. Ma non so come, il mi sguardo si spostò da quell’incantesimo in cui sembravo essere entrata. Ti vidi.
Ed eccolo li, l’uomo tanto amato, desiderato, l’uomo per cui avevo fatto quel viaggio con poche cose nella mia valigia. La scena mi lasciò senza forze, la cruda realtà fece nascondere la fantasia nel buco più nero dove ancora brancola senza via d’uscita. C’era una donna quella sera accanto a te, stava addossata al muro, portava pantaloni stretti e un largo maglione dalle lunghe maniche.
Scorgevo appena le mani, quelle mani che all’improvviso spuntarono fuori come artigli per me. Le vidi salire lungo la tua schiena, accarezzarti le spalle, fermarsi sul tuo collo e, tu come in balia del suo sguardo ti perdevi nell’oceano di mari infiniti dove adesso avevo la certezza di non poterci più navigare dentro.
Rimasi statica all’angolo della strada, con quelle valigie pesanti nonostante il misero contenuto. Il braccio stava per cedermi mentre il mio corpo non ubbidiva più di stare dritto. MI domandavo come mai avevo ascoltato perdutamente la voce del mio cuore. Avevo sognato un letto comodo, una famiglia pronta ad abbracciarmi, mentre ora l’unico rifugio era quella Chiesa, mentre tu indifferente ed ignaro della mia figura dondolante e priva di volontà, spingevi la porta del ristorante seguendo con passo svelto la donna.
Avevo un chiodo nel petto, e se solo provavo ad ingoiare il mio pianto la gola si spezzava dal dolore.
Il lucido pavimento della Chiesa, mi suggerì di togliermi le scarpe, così scalza mi sentii nuda di peccato, simile a chi si spoglia di tutto per avvicinarsi a Dio.
Mi sedetti al quinto banco, la testa mi faceva tanto male, l’unica gioia sarebbe stata quella di poterti telefonare per alleggerire il mio tormento, ma non potevo farlo, non più.
Da quel banco per spostare i miei pensieri mi misi a fissare i Santi in alto nella cupola. Erano incastonati come pietre nella roccia. La loro visione mi arrivava quasi tridimensionale. Avevano fessure al posto delle labbra, e loro occhi erano prive di pupille, un taglio netto di spatola, ma rendevano nella loro visione perché scolpiti nei particolari del vestiario.
Al centro un Cristo di legno, un legno forse pregiato. Mentre guardo Cristo ti pensavo. Pensavo a quanti ceri e candele avevo acceso ai suoi piedi pregandolo per te, ed ora mi accorgevo che della cera sciolta Cristo non se ne fa niente.
Mi avvicinavo, ovunque mi spostassi lui sembrava guardarmi, aveva un rivolo di sangue dipinto di dolore ed io un attacco d’ira. Una voglia indescrivibile di spegnere tutte le candele attorno, e trovare una tenaglia per togliere quei chiodi di ferro eterni su quel corpo martoriato dagli uomini, avrei voluto chiudere un po’ le sue braccia, farlo riposare.
Ebbi un attimo di pace, non piangevo, e anche tu non facevi più tanto rumore nel mio cuore.
Ti vedevo mentre cenavi, sereno accanto alla tua giovane donna, mentre io ero ai piedi di quel Cristo. Mi sentivo uguale a lui in quel momento, tradita, umiliata.
Pensai che da li a poco qualcuno sarebbe venuto a chiudere la porta del mio rifugio, mi avrebbe trovata scalza su quel pavimento freddo dove i miei piedi sembravano aver messo radici, allora avrei chiesto dove andare…
Mentre tu avresti chiuso la tua porta alle spalle senza me, ed io presto avrei ripreso il mio treno muta nel mio pensarti.
All’uscita della Chiesa un mendicante mi ricordò d’aver dimenticato il segno della croce, già l’avevo dimenticato girando le spalle.
Ritornai a piedi nudi, mi inchinai e li nella Chiesa della tua città, in un segno di croce frettoloso chiesi perdono per l’averti amato così tanto

 

Maria C. Morabito

 

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