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Il treno – Racconto di Daniela Trovato

Correva il treno, veloce.
Aspettavamo che da un momento all’altro i nostri sguardi si incrociassero, inconsapevolmente. Non sapevo nulla di te. Forse quell’attimo che ci avrebbe fatto incontrare sarebbe passato inosservato a chi aveva fretta di arrivare alla sua quotidiana meta.
Per noi non lo è stato. Fatale quel minuto di anticipo all’arrivo del treno a Firenze.
Ero partito col treno delle 7.05 e avrei raggiunto Firenze in mezz’ora. Lo scompartimento, dapprima vuoto, si era via via riempito di gente, ragazzi con i loro zaini, giovani di colore con le loro sporte piene di cianfrusaglie da esporre nel lungarno, donne che si recavano chissà dove e per incontrare chi. Li osservavo pensieroso e su ognuno di essi cominciai a pensare le più svariate vicissitudini. Ma ritornai in me, in quell’attimo in cui avevo chiuso la porta di casa mia, lasciando il mio malessere invadere la mia anima. Trentanove anni, una figlia, una moglie. Un fallimento. Il mio lavoro assorbiva l’intera giornata. Tornavo a sera inoltrata, cenavo, sedevo sul divano e lì sprofondavo per ore. La sveglia al mattino mi ricordava che era di nuovo giorno e, allora cominciavo a correre.
Il mondo scorreva a tratti veloce dal finestrino, l’aperta campagna, i campi coltivati, le piccole masserie, gli animali già al pascolo, la foschia mattutina che creava strati velati, il buio. Provai a chiudere gli occhi, ma fui distolto dal controllore che mi chiese il biglietto da vidimare. E a un tratto fu giorno. Il sole colpiva il vetro, sporco di mille goccioline di pioggia ormai asciutte, il riverbero mi accecò, ma ero piacevolmente attratto da quei graffi di luce, che sembravano spade affilate pronte a trafiggere il cielo rosato e il verde dei campi.
Una voce metallica, preregistrata, scandiva le varie fermate. La mia stava quasi per arrivare. Avrei incontrato nuova gente, persone sconosciute e avrei venduto il mio lavoro e forse dimenticato le mie ansie, le mie passioni, la mia vita quella che avrei voluto vivere con te …
Ecco, ero arrivato. Presi la mia borsa con dentro il computer e tutte le carte, inutili, ma da cui non mi separavo mai. Erano il mio passato. Il mio mondo prima di te.
Scesi, incurante del peso che mi portavo addosso, una malinconia latente a volte, imperante in altri. Un ragazzo mi chiese se fosse quello il treno per Grosseto e, distrattamente annuii. La stazione pullulava di pendolari, fantomatici individui, ognuno con i propri pensieri appiccicati addosso, come una seconda pelle, sguardi tristi, spenti, felici, assenti tra centinaia di singole figure, distaccati, un po’ egoisti, forse senza rendersene conto, preoccupati solo ed esclusivamente di se stessi, stati d’animo diversi e contraddittori, identità che faticavano ad andare avanti, oltre le proprie prospettive, logore o arrese davanti a quel cammino impervio che è la vita. Incapaci o impreparati a guardarsi dentro e avanti, costruttori di un labirinto difficile da oltrepassare e da cui uscire.
Meditavo molto sui comportamenti degli altri, al contrario evitavo me. Le mie imperfezioni, le mie dissonanze, nulla che rovinasse la mia innaturale calma, la mia autostima, la mia emozionalità, certamente poco appaganti e positive.
Un istante, solo uno. Tu.
Una emozione fuori dai miei canoni si era impossessato del mio Io. Chi eri? Chi sei? Fatico ancora a credere che tu esista. Una eterea figura, senza alcuna parvenza di essere reale, stavo fantasticando la tua persona, leggiadra, quasi impalpabile. Ma eri lì. Seduta su quella seggiola di legno, immersa nella lettura di un libro, dalla copertina sgualcita. Le tue mani, la fede al dito.
Ritornai nel mio mondo fatto di niente, ma il tuo si stava impossessando della mia mente. Corsi alla fermata del bus, pochi minuti e avrei dovuto aspettare l’altra corsa. Mi attardai, volutamente.
Tornai sui miei passi e mi sedetti accanto a te, iniziai a parlarti, a chiederti se fosse interessante quella lettura. Fu l’attimo più lungo e più intenso che io potrò ricordare nel mio futuro, eri tu che avresti dato un senso alla mia vita.
Iniziò tutto così.
Una sera restai a Firenze. Un improvviso convegno, dissi, si protraeva oltre i tempi previsti.
Ricorderò quella sera, quella notte, come il sogno che si realizza, il compimento di un’opera, l’estasi. I nostri corpi, un’unica anima.
Fusione
Addormentarsi,
dolcemente.
Alle tue mani
Affido i miei sogni,
Complice e amante,
Tra i miei segreti.
Mi dissolvo
in te.
I miei pensieri,
Mi avvolgono
A te.
Altri incontri, altre notti, ancora la colazione insieme, un unirci tra passione rubata ai minuti e amore invece profondo che cresceva, senza confini, senza gli spazi di una camera di hotel, profuso all’inverosimile. Ogni istante sempre più dolce, ma intriso di un continuo cercarsi tra la gente, tra le lenzuola, tra un caffè e uno squillo del telefono. Il correre per sentire all’unisono i nostri fiati, i nostri gemiti, il nostro unico corpo fuso, esausti, sfiancati, ma teneramente abbracciati, ad aspettare che i colori tenui dell’alba ci rendessero vivi, ancora e, forse sperando, per sempre. Si consumava lentamente lo stare insieme, senza alcuna condizione, quella stessa condizione che metteva un ostacolo al nostro amore, un misto di sentimento e passione, senza chiederci “E domani?”.
Che invece arrivò, in leggero anticipo, come quella mattina il mio treno, inaspettatamente.
Quel pomeriggio uggioso di fine novembre, ti fermasti, a un tratto, voltasti il tuo sguardo verso di me, quel momento di dubbio nel dire, abbandonasti la prospettiva della nostra corsa, del nostro volo, del nostro sogno, lasciando lì, tra le foglie accartocciate del viale, quell’enorme mole di sentimento, di pensieri, di amore che era quella spontanea intima volontà di tornare, nel tuo mondo prima di me, o forse dovrei dire, di noi.
Svaniva, come foschia, la tua presenza, senza un probabile forse, tantomeno una prospettiva di incertezza, e scorgere il finale, tagliente, era ormai solo quella l’unica certezza. Li sento, ancora, quando cammino, i tuoi sospiri alle mie spalle, le tue risa aggraziate, anche se adesso non ci sei, non più.
Ti sento, ancora quando nel cuore della notte, mi sveglio, quasi sfiorato dalla tua pelle, dalla tua voce, inesistente. Mi riaddormento, continuando a immaginarti, col tuo sorriso, labbra che mi sfiorano, che lasciano il sapore dell’amore che ci sembrava infinito, per sempre sarà.
Assenza
Notte,
La tua eterea presenza
È costante.
Chiudo gli occhi
E vedo la tua immagine
Sogno
E ci sei
Mattino.
Mi sveglio
E ti percepisco,
Ma qui accanto a me,
Solo la tua anima.

Anche stamattina ho ripreso il treno per incontrare di nuovo altra gente, indaffarata, altri ragazzi con i libri a ripassare la lezione rimasta da completare la sera prima, donne trasandate alla ricerca di rispetto, uomini in cerca di una dignità, e gente anonima. Non più te.
Un laconico e ripetitivo “Arrivederci a stasera”. Presi un caffè in stazione: pregustai il sapore, amaro, sentii l’odore, intenso e il ricordo, nostalgico è subito tornato a te, dolce, adorabile… eterea figura di un incontro fortuito, in un mattino a Firenze.

Daniela Trovato

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