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Il signor Corvo – racconto di Roberto Militello

“Guardate i corvi: non seminano e non mietono,
non hanno ripostiglio né granaio,
e Dio li nutre” (Luca 12,24).

C’era una volta – e c’è ancora – un corvo che ogni giorno frequenta con una signorile discrezionalità casa mia entrando direttamente in salotto attraverso una finestra, che lascio aperta di proposito. Non svolazza per casa a fare danni, non fa chiasso, non tocca e non rompe niente, gli importa solo di appollaiarsi sulla credenza e aspettare. Aspettare che cosa? Che il vecchio orologio a cucù affisso alla parete rintocchi l’ora, così che quella graziosa canarina gialla faccia la sua comparsa. L’unica cosa che vuole è vederla e ascoltarla cantare. Temo che il poveretto neanche immagini che è finta, che non si tratti di un volatile vero e proprio.

Da quando l’ha vista la prima volta si è fatto furbo, nel giro di qualche giorno ha imparato a presentarsi pochi minuti prima dell’ora esatta. Arriva da chissà dove, tutte le volte che può, anche più volte al giorno, come se fosse l’unico custode di un piccolo miracolo quotidiano al quale sente di non poter mancare. Arriva, entra, si siede e, con lo sguardo fiducioso verso l’orologio, aspetta. Ogni volta che lo vedo, credimi, quasi mi commuovo. Vorrei tanto dirgli: “Amico, guarda che stai rischiando una grossa cantonata” ma alla fine non lo faccio mai.

Il corvo sta’ buono e aspetta in silenzio, seduto comodo. Solo quando l’orologio batte l’ora lui scatta improvvisamente sulle zampe, spiega le ali nerastre e apre un po’ il becco, quasi rapito dall’estasi non appena la finta canarina gialla compare e scompare, come una magia. Non può neanche immaginare che ad animarla in realtà è solo un meccanismo a corda.

Quando torna il silenzio e rintocchi non si fanno più sentire, il corvo si ricompone, a volte se non è soddisfatto con un balzo si porta sopra l’orologio e cerca di bussare sull’apertura, gracchiando appena, quasi che dicesse: “Ancora una volta! Non te ne andare”. Però quando si convince che lo spettacolo è davvero finito torna sul davanzale della finestra e ci rimane per qualche secondo, ad osservare sia all’interno che all’esterno, come se volesse capire da quale mondo stesse uscendo e in quale altro stesse facendo ritorno.

Una volta è saltato sull’orologio ed ha protestato così tanto che ne ha provocato la caduta. Nel rimorso della sua colpevolezza è subito volato via e l’orologio non si è rotto per miracolo. Ma decisi che da allora in poi per evitare altri spiacevoli inconvenienti avrei tenuto quella finestra sempre chiusa. Ricomparve prima di sera, il colpevole, per lo spettacolo delle sei in punto. Trovando la finestra chiusa ha provato con tutte le altre finestre possibili, non contento, ha sorvolato a lungo il tetto, gracchiando di protesta di fronte all’evidenza che era inutile cercare una seconda entrata. Alla fine, con aria afflitta, si è appollaiato sul davanzale dell’unica finestra che gli consentiva di osservare, seppur parzialmente, il ritorno alla scena della finta canarina gialla, ma l’ho visto volar via poco prima che l’orologio ultimasse la sua opera.

“Nel giro di qualche giorno – pensai – si leverà di torno, si troverà un altro passatempo da idiota e non si farà più vedere”. Ma mi sbagliavo. Il corvo ha imparato ad appollaiarsi sul davanzale di quell’altra finestra e torna sempre tutte le volte che può. Si porta vicino al vetro, senza bussare col becco, senza gracchiare niente, si siede, aspetta e quando tutto finisce se ne vola via per chissà dove.

È passato tutto l’inverno così, col sole o con la pioggia, con la grandine o con la neve, non è passato un giorno senza che il corvo venisse a farci silenziosamente visita. I rigori dell’inverno l’hanno un po’ fiaccato, smagrito e spennacchiato. Ma lui non molla, ma non avrà altro da fare nella vita? Avevo le mie titubanze, ma decisi di continuare a tenere le finestre chiuse. Prima o poi l’avrebbe capito che era il caso di rassegnarsi.
Una settimana fa, di primo mattino, una gelida grandine veniva giù dal cielo, così copiosa che sembrava un piccolo bombardamento. Era l’ultimo colpo di coda di un inverno che per quel giorno aveva deciso di inscenare temperature polari. Io tenevo tra le mani la mia tazzina di caffè e osservavo il maltempo attraverso il vetro della finestra. L’orologio a cucù fischiettò i suoi primi sette rintocchi e del corvo non ci fu traccia.
“Non riuscirebbe neanche a svolazzare con un tempaccio così” mi dissi.
Ma pochi attimi dopo il corvo si presentò sul davanzale con un pessimo atterraggio.

Per la prima volta in ritardo, mostrava un aspetto più brutto e sgraziato del solito. Goccioline d’acqua stillavano dalle sue piume scure e lui, infreddolito e inzuppato di pioggia, troppo stanco per trovarsi un altro posto al riparo, si posiziona lentamente nell’unico angolo dal quale può scorgere, socchiude gli occhi a fessura per osservare meglio l’interno e, tremante per il freddo, si mette ad aspettare, sotto il perenne attacco dei chicchi di grandine che lo picchiano senza tregua.

A quel punto ne ebbi abbastanza della mia stupida convinzione che finora avevo agito per il suo bene, che tenendolo distante dal sogno lo avrei costretto ad avvicinarsi alla realtà. Mi sentii in colpa. Mi avvicinai alla finestra, la aprii e delicatamente lo raccolsi. Probabilmente la stanchezza gli aveva reso impossibile volar via o persino cercare di difendersi da me a colpi di becco, si lasciò circondare dalle mie mani e solo allora mi resi conto di quanto fosse gelido, a tratti scosso da brevi fremiti per il freddo. Lo adagiai sul tappeto accanto al termosifone, poco dopo si trascinò in un punto dal quale poteva osservare il vecchio orologio a cucù. Si accovacciò sul tappeto e con lo sguardo sempre puntato in direzione del suo unico punto di interesse si lasciò scaldare, asciugandosi le penne e recuperando un po’ di energia. Lo osservai aspettare tranquillo, per tutto quel tempo non lo disturbai e lui, da vero signore, fece altrettanto con me.

Quasi un’ora dopo l’orologio era sul punto di inscenare lo spettacolo delle otto del mattino, quando se ne rese conto zampettò in direzione della credenza e con un balzo vi salì per raggiungere il suo punto d’osservazione preferito.
Nell’attimo esatto in cui l’orologio iniziò a rintoccare l’ora il corvo ridivenne allegro e giocoso: batté le ali e girò in tondo, saltellando sul posto per la felicità. Ad ogni ritmico cucù della finta canarina gialla seguiva un suo tenue gracchio, come se volesse dare l’idea di unirsi a quel canto che in realtà canto non era. E quando l’orologio si ammutolì, veloce come un fulmine di piume nere, sfrecciò attraverso la finestra e volò via, indifferente alla pioggia.
“Quel povero, stupido, idiota spennacchiato – mi dissi – non ne avrà mai abbastanza”. Ma lo dissi sorridendo.
Per di più, da quando gli ho nuovamente permesso di entrare dalla finestra, talvolta si presenta con un dono, che non dimentica mai di lasciare sulla credenza poco prima di volarsene via. Quasi sempre è un fiore, ne sceglie sempre uno diverso, tra i più colorati che gli capita di incontrare. Altre volte si tratta di inutili, piccoli oggetti luccicanti che di sicuro scambia per preziosi: tappi di bottiglie, monetine, caramelle, biglie colorate, persino frammenti di vetro che raccoglie chissà dove e che trasporta nel becco, custodendoli come se fossero diamanti.

“Saresti in grado di riempirmi la casa di spazzatura, dannato deficiente! – gli ho detto oggi pomeriggio, poco prima delle tre – Credi di fare del bene, di essere in buona fede, credi che non c’è niente di male nell’inseguire il tuo sogno, ma un giorno capirai e ti renderai conto che ti stai facendo solo del male. Non c’è nessun lieto fine per te. Cadrai giù e le tue ali non ti saranno di nessun aiuto. Sei uno stupido perdente. Tutto questo ti farà stare malissimo”. E per la prima volta in tutti questi mesi lui si volta verso di me, dice “craaaac!” e poi torna ad osservare l’orologio.
Ha ragione. Dice che c’è una cosa peggiore di non sentirsi benvoluti o amati: non voler bene a nessuno o non amare affatto.

 

Roberto Militello

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