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Il sapore del mare – Racconto di Antonella Dilorenzo

Io non ho mai visto il mare, però lo immagino. Spesso.
Me lo ha raccontato Omeir.
Riesco perfettamente a tracciare un’effige nella mia mente. C’è una distesa di terra, molto sottile e chiara che chiamano sabbia. Pare che questa sabbia, in estate, brilli sotto la luce del sole e scotti abbastanza, soprattutto a mezzogiorno, quando i raggi battono diretti sulla terra.
“I bambini ci fanno dei castelli con la sabbia. Uniscono dell’acqua marina, mescolano il composto in un secchiello, lo rendono compatto, capovolgono il secchiello, lo sfilano via e sorridono compiaciuti davanti alla loro fortezza. È divertente, sai?”
“Mi piacerebbe provare. Riusciamo a farlo con questo e un po’ di acqua?” – con la mano indicai a Omeir la terra su cui poggiavamo i piedi in quel momento.
“No, Ioan, non è proprio così, con questa non ci si riesce. La sabbia è delicata e si lavora facilmente con l’acqua, ma quando è bagnata graffia, quando soffia il vento può entrarti negli occhi e creare un fastidioso prurito. Però, la sabbia è leggera. Questa terra pesa, sulle mie e sulle tue spalle”.
Dopo una grande distesa di sabbia, si giunge in una zona di mezzo che chiamano bagnasciuga. Pare sia il posto preferito per sedersi e sentire l’onda infrangersi sul corpo e poi immediatamente allontanarsi.
“La cosa che mi piace di più è stare seduto sul bagnasciuga e contare i secondi che mi dividono dalla piccola onda che viene a finire sul mio corpo. Quando il mare è calmo ci impiega cinque secondi, quando è agitato anche due, o tre” – mi raccontava Omeir.
Ero piegato con la testa in giù. L’alzai. Chiusi gli occhi. Provai a immaginare il mare e contai ad alta voce: “Uno, due, tre. Mare agitato!”. E poi: “Quattro, cinque. Mare calmo!”. Omeir drizzò la schiena e raggiunse la mia altezza. Mi posò due dita sulla fronte bagnata e seguì la linea retta che correva dalla tempia sinistra a quella destra. Fece per raccogliere il sudore tra i polpastrelli che mi adagiò sulle labbra. Avevo ancora gli occhi chiusi.
“Senti questo sapore? Com’è il tuo sudore?”
“Salato!” – risposi prontamente senza mai aprire gli occhi.
“Bene, ora puoi immaginare il sapore del mare”.
Pare che l’acqua sia molto salata. La salsedine, così la chiamano, si attacca alla pelle, e compare solo quando l’acqua è evaporata dal corpo. È bianca, e se provi a strofinarla via diventerà polvere. Diventerà sale.
L’acqua è tanta, moltissima. Si dimena a destra e a manca, in su e in giù, si trasforma in mulinelli giocando con leggeri aliti di vento. Quando, però, quel vento è a favore, l’acqua si lancia in una folle rissa marina partorendo figli assassini, decisamente agitati, che tutti usano chiamare cavalloni. Ma se torna la quiete, dicono che puoi ascoltare il rumore del mare in una conchiglia, guardarlo cullarsi lentamente nel suo letto, e provare a sonnecchiare con lui lasciandoti andare come un morto a galla. La luce del sole potrebbe accecarti e farti perdere l’equilibrio, ma il sale ti spingerà su per la schiena, la testa e le gambe e sognerai di essere in paradiso.
Quello che non riesco a immaginare, però, è dove finisce il mare. Omeir mi ha raccontato di una linea blu che si intravede se guardi lontano all’orizzonte. Pare che questa riga sia esattamente a metà tra il cielo e il mare.
“Li divide o li unisce?” – chiesi.
“Sei tu a decidere. C’è qualcosa che unisce o divide me e te?”
“Ci unisce questo campo, questo lavoro, questa sfortuna, questa clandestinità, questa voglia di libertà”
“Anche il cielo e il mare condividono tutto questo: fratelli, ma diversi; liberi, ma prigionieri di una linea blu”
“Omeir, ma tu quante volte hai visto il mare”
“Una sola volta”
“E com’è stato vederlo?”
“Il vento era a favore e si scatenò una rissa marina. Eravamo in trecentosette, ci tenevamo stretti l’uno con l’altro, io ero legato con una corda a mia madre e non mi staccai fino a quando non toccammo la sabbia. Il mare mi fece paura quella notte, ma nelle ore successive restammo a guardarlo. Lo vedevo minaccioso, ma ringraziavo le onde per avermi portato fin lì. E oggi un po’ lo detesto, se penso che mi ha diviso da mio padre e da mio fratello. E tu, come fai a non aver mai visto il mare?”
“Sono cresciuto in campagna con mio padre e mia madre. Un giorno mio padre decise di incamminarsi per l’Italia, disse che avremmo trovato fortuna. Non avevamo nemmeno un’auto e camminammo per oltre un mese e mezzo rischiando di frontiera in frontiera dalla Romania all’Italia, con dei treni e degli autobus presi senza biglietto.
Eravamo io, mia madre e mio padre e un solo bagaglio. Qualche soldo per mangiare e nessuna aspettativa di fortuna. Poi sono finito qui e in quindici anni di vita, io non ho mai visto il mare”.
Omeir mi chiese: “Lo vuoi vedere davvero il mare ora che è estate?”
Mi cominciò a battere il cuore. Non sapevo che rispondere, ma in un sussulto dissi: “Sì!”, e nell’istante successivo ritornai sui miei passi: “E come facciamo? Dov’è il mare?”
“Non lontano da qui. Di fronte alla stradina della tendopoli, non hai notato la fermata di un bus? Ecco quella corriera va al mare. Noi andremo lì alle 3 di questa notte approfittando del buio, aspetteremo il bus delle 5.30 e saremo lì in quindici minuti esatti. Lo vedremo e ripartiremo con la corriera delle 6.15. Alle 6.30 saremo già di ritorno e potremmo farci prendere dal capo nero con il furgoncino per andare nel campo.”
“Mi sembra troppo rischioso però. Come usciremo dalla tendopoli?”
“Chiederò a Ghana di farci un favore. Stai tranquillo, sorveglierà per noi”
Erano le tre di notte, di quella notte agostana dove non vedevamo solo pomodori e casse, ma stelle e onde immaginarie. Erano le tre di notte e Omeir era riuscito a farmi scavalcare la recinzione. Ghana ci guardava le spalle. Erano le tre di notte e camminavamo verso la fermata del bus. Era buio e vedevamo poco. Erano le tre di notte e mi meravigliavo che fosse stato così facile scappare. Camminavamo: io davanti e Omeir dietro, sentivo il suo respiro affannoso alle mie spalle ed ero protetto. Quando sorrisi compiaciuto per la grande impresa che stava succedendo mi voltai e Omeir non c’era più.
Erano le tre di notte di un’estate d’agosto e io sognavo il mare.
Mi avevano raccontato che nell’acqua marina si può correre, pare si dica “nuotare”. Se muovi le gambe su e giù, e le braccia come se stessi spostando qualcosa, puoi arrivare anche alla linea blu, toccarla e vedere che differenza c’è tra il cielo e il mare. Provai a pensarci, ma quando mi voltai era tutto buio. Omeir non c’era più e non potei che abbandonarmi ai calci in faccia.
Io, però, credo di averlo visto davvero il mare.

Antonella Dilorenzo

 

 

 

 

 

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