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Il quaderno – Racconto di Claudia Antolini

Una ragazza, un’amica, tanto giovane da poter essere una figlia e abbastanza grande da essere la maestra della figlia, le regalò un quaderno. Uno di quelli belli, con le pagine con le righe lisce, che ti danno la sensazione di poterci correre sopra con la penna senza fermarti nemmeno per dormire.
La copertina era rigida e morbida: cartone rivestito di seta verde acido ma sotto ci sentivi l’imbottitura, come un capitonné prima di punzonarlo. L’acido era spezzato da un tenero andirivieni di fiori di pesco japan style oro e turchesi.
Nessuna scritta, nessuna provenienza come a dire: scrivimi e basta e non fare altre domande.
Non che sapesse cosa scriverci.
L’idea era quella di scambiare il favore descrivendo la persona che glielo aveva donato ma la banalità di una cosa del genere la fece rabbrividire.
Così pensò e ricordò ciò che avevano vissuto insieme: dipinto, letto, chiacchierato, giocato tutte e tre insieme come bimbe di tre età.
Avevano parlato di persone, di tutte le persone, che si conoscessero o meno: del genere umano.
Non si era fatto per eccesso di critica e non da comari inacidite.
Erano aneddoti, vicende di paese, un paese piccolo che ti illude nel farti conoscere tutti ma che non hai mai la certezza di conoscere davvero. E non potevi nemmeno esimerti dal conoscerle o dal sentire le loro storie, peraltro nemmeno tanto avventurose, perchè bastava avvicinarsi alla bottega, l’unica, o al bar, l’unico e subito ti giungevano notizie.
Certe volte si domandava cosa avessero pensato, il bar e la bottega, di questi nuovi paesani arrivati dalla vicina provincia con la loro casetta ecologica che profumò di legno la valle per giorni e giorni.
Brucerà subito? Ma ci stanno i mobili? Ma da dove vengono? E che lavoro fanno?
Ricordò quel giorno in cui l’anziano signore le chiese se fossero davvero residenti o se fossero villeggianti. E quell’altro che le chiese come stesse l’altro bambino, scambiando cicciobello per il secondo figlio.
D’altronde la giovane amica non trovò accoglienza migliore tre anni dopo, giunta dal profondo sud. Talvolta nemmeno un cenno di saluto e si trattava della maestra, figura che un tempo avrebbe rispettato anche il parroco.
Parlare di facce, quindi, era il loro passatempo. Ci si è abituati a parlare di facce bazzicando internet: uomini con facce di donna, donne con nomi da uomo, bambini mascherati da grandi e grandi… da bambini.
Le facce di paese erano in carne e ossa, certo, sebbene non cambiasse il concetto: chi erano? E nemmeno quelli che frequentavano il bar e la bottega sapevano esattamente chi fossero. Giusto il nome, l’indirizzo, casa verde a fianco della villa gialla, e il mestiere.
Ma chi erano?
La prima faccia che le venne da descrivere non fu certo la prima che vide ma sicuramente la prima per importanza nell’ordine delle facce che parlano.
Quando lo incontrò la prima volta le vennero i brividi. Uno strano sollevarsi di capelli sulla nuca, come stimolati da una scossa leggera.
Era con la madre e capì, senza guardarla, che anche lei, silenziosa e attenta, stava provando la stessa sensazione. Brividi.
Era fine agosto, trasferiti da tre mesi e un caldo anomalo per la valle.
Gli occhi piccoli, sorcini, leggermente vicini, acuti e stupidi, osservavano frettolosamente, dal basso, quasi il capo non potesse reggersi ritto sul collo taurino.
Espressione torbida di chi ha qualcosa da pagare e non vuole farlo, fuggendo in tondo dal proprio destino. Un prigioniero dantesco nel girone dei golosi, vista la stazza, con l’andare di anima frettolosa che le ricordava dei personaggi di un famoso film di animazione di Miyazaki.
Camicia bianca con manica attorcigliata e rattrappita attorno agli avambracci grassocci, calzoni tirati, neri e cravatta allentata. Pensò subito che l’avrebbe rivisto nelle stesse condizioni anche a dicembre, in barba al freddo, con la medesima ciocca unticcia che gli scappava da dietro l’orecchio.
Si presentarono e nello stringergli la mano le cadde l’occhio sulla forfora impigliata fra i capelli lunghi. Ritrasse la mano.
Aveva sempre pensato di essere una strega. Non vi era una ragione specifica, solo un sentore, qualcosa che la conduceva lontano nel passato e che profumava il presente di terra, di fuoco, di erbe e di gatto. L’incenso le dava la nausea.
Vedersi dinanzi un esemplare della casta così affine al prototipo di parroco medievale rafforzò la convinzione di appartenere al folto gruppo delle disgraziate arse sui roghi di mezza europa.
Egli sfoggiò un lesto sorriso di labbra mantenendo lo sguardo furtivo.
Ah, lei sarebbe quella che deve gestire il piccolo hotel?
No, sono la sorella
bene, benvenuta
Quel benvenuta freddo, buttato sui sassi tondi della piazza, le sembrò un fazzoletto caduto dal bucato steso e che non ci si accorge di aver perduto.
Si allontanò in fretta, pestando quegli stessi sassi e dondolando quel suo capo chino, immerso in chissà quale libro.
La sua giovane amica ebbe modo di incontrarlo e ne riportò la stessa sensazione. Certo, le streghe si ritrovano come si ritrovano le anime, nelle loro schiere. A lungo parlarono di questo personaggio, uscito da qualche racconto storico o da romanzi di inizio ‘900. Raccontarlo a loro volta le aiutò ad allontanarne la paura, non quel timore del fuoco che covavano nella pancia ma il timore dell’oscuro, di ciò che non si sa, che non si controlla, che non si capisce e dal quale non ci si difende.
Il rappresentante del clero del loro paesino era altrettanto difficile da decifrare: un vecchio ma non così vecchio, chiuso ma non così ottuso, sciocco ma non del tutto stupido. Un signore cigliuto che ebbe l’onere di ereditare il posto da un ladro conclamato e che parve ai più persona semplice, senza arte né parte, di quelle che ci sono ma che non lasciano il segno. E che non si fanno segnare.
Non frequentando la parrocchia non si impegnarono minimamente a comprenderlo e a lui fu sufficiente sapere che lì, nella casina ecologica, risiedevano tre brave persone per nulla interessate alle chiesa.
Fu quando il chiacchiericcio di una compaesana o le mezze parole del bottegaio giunsero loro alle orecchie che le amiche si porsero le prime domande sulla questione. O meglio: iniziarono ad osservare.
La prima estate lo videro rincorrere rigidamente un cagnolino pezzato e magro, veloce come una saetta e borioso, in mezzo alla strada, in sfida con quel vecchio poco avvezzo al movimento. Leo si fermava giusto il tempo necessario a farsi quasi raggiungere per poi schizzare via di nuovo.
Dalla gente di paese si apprese che il parroco aveva voluto un cane per la compagnia ma che non fosse in grado di gestirlo fra cibo, messa, pipì, funerale, passeggiata e comunione. Così, appena apriva l’uscio, il cane prendeva la via.
Qualche tempo dopo le ragazze rividero Leo nel giardino cintato di una villa a pochi chilometri e capirono che il parroco era riuscito, per pura carità cristiana, a disfarsi dell’animale. O forse Leo era riuscito a disfarsi del parroco, per pura carità animale.
Tempo dopo, per questioni legate alle festività e alle necessità dei bambini del paese, ebbero modo di avvicinarsi a lui andando a casa sua. Dall’esterno giunse il riverbero di una musica d’organo così intenso che pensarono fosse lui stesso a suonare. In realtà era Glen Gould su Bach.
Il campanello tardò quindici minuti netti a farsi sentire, giusto su un silenzio programmato.
Il parroco aprì, si scusò, con quel suo strano modo di non guardare in volto le persone e di filare via borbottando, a testa china.
Fu in quel momento che, guardandosi, le amiche capirono quanto quel vecchio fosse solo. Non solo per volontà. Solo per destinazione.
Il lavoro del parroco, la vocazione per com’è stata concepita, senza famiglia, è davvero uno dei mestieri più introspettivi che esistano. Ci sono sorelle, fratelli, parenti meno vicini che si prendono cura di queste anime votate agli altri ma avere moglie e figli e, in seguito, nipoti è precluso.
Lui era portatore di una solitudine triste che non riusciva a colmare con il poco carisma in suo possesso, con le scarse doti oratorie, con la ridicola capacità di fare aggregazione. Al contrario di quel parroco borioso, egocentrico e, a suo modo, carismatico, del paese accanto. Due personalità così distinte che a metterne insieme uno, con due, si sarebbe fatto un Papa.
Così si rifletteva, fra amiche di tre età.
Quante volte si giudica l’individuo per ciò che fa e non per ciò che è? Sempre perché non si arriva a vedere altro.
Il libro delle facce del web si ferma lì, si arresta di fronte alla foto, al nome, vero o finto che sia e non va oltre, non può. Questo modo di fare è uscito da quel “libro” ed è diventato vita. Una vita con tante etichette, piccoli francobolli prestampati che riportano 4 stati d’animo e 5 pensieri oltre ai quali il vuoto.
Su quel quaderno, quello con la copertina di cartone rivestito di seta verde acido spezzato da un tenero andirivieni di fiori di pesco japan style oro e turchesi, iniziarono a raccontare di persone, partendo dal cuore.

 

Claudia Antolini

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