Vivo in uno dei posti più belli d’Italia, la Campania, precisamente nella Piana del Sele. Da una parte il mare, dall’altra le montagne. Lungo la costa c’è un’ampia fascia pinetaria, che va da Battipaglia ad Agropoli, per quasi trenta chilometri. Come in tutto il mondo, rifacendomi al titolo del tuo libro, si può dire che coesistono due realtà totalmente opposte, in questo caso effettivamente parallele e contigue, dove spiaggia = famiglie, bambini, divertimento; pineta = posto di acchiappo gay. E spesso ci sono intrecci fra di loro.
D’estate univo l’utile al dilettevole. Prima il bagno e un po’ di sole, poi una passeggiata per vedere se riuscivo a combinare qualcosa.
Una mattina, ero in pineta, incontrai un bimbo di cinque, forse sei anni, che si aggirava fra la vegetazione bassa a ridosso della macchia mediterranea che divide la spiaggia dalla pineta. Piangeva impaurito, sicuramente si era perso.
«Ciao piccolo, come ti chiami?»
«Sono Jonas Palmiero, ho cinque anni e abito a via Diaz 69.»
«Che bel nome, e come sei bravo. Ti sei perso, vero?»
«Sì, voglio il nonno.»
Era sudato e accaldato, chissà da quanto tempo camminava sotto al sole. Gli diedi del Gatorade, e gli bagnai un po’ la testa e le spalle.
«Dai, andiamo a cercare il nonno.»
Andammo sulla spiaggia, ma non riusciva a orientarsi. Iniziò a piangere e lo dovetti prendere in braccio, nonostante le scarpine di gomma, la sabbia era troppo bollente.
Dopo mezz’ora, una donna lo riconobbe, e m’indicò la zona dove lo aveva visto. Cavolo, quello scricciolo aveva camminato per quasi un chilometro!
Alla fine trovammo il nonno. Mi accorsi subito che qualcosa non andava, perché, nonostante il bimbo lo chiamasse a gran voce, lui non rispondeva. Misi a sedere al fresco Jonas, e tentai di svegliare il nonno. Respirava, ma sentivo uno strano gorgoglio, come se avesse del liquido nelle vie respiratorie. Non dava segni di ripresa, da seduto lo sdraiai su un fianco nel tentativo di farlo respirare meglio. Ebbe un colpo di tosse e espettorò un po’ di muco con sangue. Chiamai immediatamente il 118 e mi dissero, dai sintomi, che poteva trattarsi di emotorace. Mi assicurarono l’arrivo di un’ambulanza in pochi minuti. Lo rimisi seduto e cominciai a radunare le loro cose, la situazione era decisamente grave. Chiesi al bambino dove fosse la mamma.
«La mamma è volata in cielo. Ah, anche la nonna è andata con lei.»
Benissimo pensai. Mentre cercavo nel borsello del nonno il telefono per avvisare qualche parente, arrivò l’ambulanza.
«Portate con voi il bambino e la loro roba.»
«Se lo scordi! In ambulanza non può salire che il paziente, figuriamoci un bambino così piccolo!»
Non mi rimase che chiedere dove lo avrebbero portato e senza perdermi d’animo mi organizzai. Dovevo raccogliere le loro cose, trovare la macchina, occuparmi di Jonas e andare in ospedale. Chiamai un amico che avevo incontrato poco prima, per farmi aiutare. Radunate le loro cose andammo a cercare la macchina dell’uomo. Il piccolo non sapeva qual era, la trovai con il telecomando. Mercedes ML grigio scuro. Misi in moto per raffreddare l’abitacolo e intanto vestii il bambino.
Lo sciacquai con dell’acqua che trovai nel bagagliaio, la salsedine gli dava fastidio. Una volta pronti, raggiungemmo l’ospedale.
«Scusi, il signor Palmiero. È arrivato in codice arancione da pochi minuti.»
La classica battaglia del… sei parente, non lo sei, non possiamo dare notizie… alla fine m’incazzai. Chiamato un responsabile, mi fece la “concessione” di poter avere notizie. Lo avevano portato a fare l’aspirazione e dopo sarebbe toccato agli altri esami.
Dopo due ore passate in sala d’attesa, portai il piccolo a mangiare un panino.
«Ma nonno dov’è?»
«Lo stanno visitando perché non si è sentito bene.»
«Ma muore anche lui?»
«No, non ti preoccupare, vedrai che domani tornerà arzillo come prima.»
«Cos’è azillo?»
«Arzillo, significa che tornerà… il nonno di prima.»
Meno male che non avevo niente da fare, le infermiere non vollero prendersi cura del piccolo, chiamai tutti i numeri in rubrica, ma non trovai nessun parente.
Nel tardo pomeriggio il dottore venne a tranquillizzarmi, si era ripreso, ma gli esami avevano evidenziato delle macchie ai polmoni, e avevano chiesto una consulenza oncologica. Mi fecero parlare con lui.
«Signor Palmiero, non è il momento, ma…»
«Come sta Jonas?»
«Sta bene, è tranquillo e ha mangiato. Ora è con le infermiere.»
Gli spiegai dove avevo trovato il bambino e che avevo dovuto frugare fra le sue cose, per avvertire qualche parente.
«Non abbiamo più nessuno qui. Siamo rimasti soli io e lui. Lo posso vedere, tranquillizzare?»
Le infermiere non volevano farlo entrare, lo presi in braccio e lo portai dal nonno.
Jonas sembrava già un ometto. Non s’impaurì nel vedere il nonno attaccato a tutti quei fili, anzi gli fece coraggio. Poi gli raccontò che mi ero preso cura di lui, gli avevo comprato il panino, le patatine e il gelato.
Il bambino, quando vennero le infermiere a portarlo fuori, si ribellò, voleva rimanere col nonno. Si mise a piangere. Dovemmo faticare per convincerlo ad aspettarmi fuori.
Il dottore spiegò la situazione all’uomo, cioè che avrebbero dovuto avvertire i servizi sociali.
«No! Ne morirebbe. Già quando è successa la disgrazia fu affidato a quella gente, e si sentì male. Ora firmo ed esco.»
«Signor Palmiero, ma ha capito cosa potrebbe avere? Non se ne potrebbe occupare il suo amico per qualche giorno?»
«A dire il vero, il signore non lo conosco. Ho trovato il nipote sulla spiaggia e l’ho aiutato a cercarlo.»
«Ed ha salvato la vita sia a nonno che a nipote. Ora si consideri responsabile!»
«No, assolutamente. Me ne occupo io di mio nipote.»
Io sapevo qual era il suo timore. Quando gli avevo spiegato dove avevo trovato Jonas, aveva fatto una faccia che era tutto un programma. Sapeva benissimo l’attività parallela che si svolgeva in quei luoghi, e che quindi ero gay. Avrei dovuto ritenermi offeso. D’altronde, occuparmi di un bambino di cinque anni, sarebbe equivalso a perdere ogni tipo di libertà. Palmiero era fermo nell’intenzione di firmare e prendersi cura del nipote, quando gli venne una forte tachicardia che mise in allarme l’intero reparto.
Una volta rientrata l’emergenza, Jonas, scappato al controllo delle infermiere, venne di corsa nella stanza e si aggrappò alle mie gambe piangendo e urlando che voleva stare solo con me. Entrò subito dopo l’infermiera, che mi salutò calorosamente. Io e Rosa, abitiamo nello stesso palazzo. Le chiesi un consiglio, raccontandole la storia. Saputo della reticenza del nonno, Rosa sa tutto di me, intervenne.
«Dottore, Giuseppe è un bravo ragazzo, vuole bene ai bambini. Lo ha già fatto. Per me è l’ideale babysitter. E poi, se ha bisogno gli do io una mano.»
Il nonno sembrò convincersi, tanto che chiese di nuovo di parlare al nipote. In tutto ciò, sembrava non avessi voce in capitolo, nessuno chiese la mia opinione, se volevo prendermi una simile responsabilità.
Dopo aver parlato a Jonas, volle nuovamente parlare con me. Mi sottopose a un vero e proprio terzo grado, alla fine, saputo che vivevo in un monolocale, mi diede le chiavi di casa sua.
«Mio nipote non dorme se non nel suo lettino. Mi raccomando, quella creatura è l’unica cosa che mi rimane, e l’ultima cosa che voglio, è che soffra ancora.»
«Senta signor Palmiero…»
«Diamoci del tu.»
«Vito, le assicuro che l’ultima cosa che voglio, è vedere soffrire un bambino. Farò tutto il possibile affinché il piccolo non pensi che a stare sereno.»
Quell’impertinente di Rosa, credendo di essere spiritosa, fece una battutaccia.
«Dottò, Giuseppe è bravissimo, non si preoccupi per il monello, si preoccupi piuttosto per lei. Conoscendo i suoi gusti lei è…»
Una gomitata nel fianco la fece tacere.
Portai il piccolo, oramai stremato, a casa. Dopo avermela fatta visitare tutta, mi portò nella sua stanzetta e iniziò a prendere i suoi giochi.
«Ma tu, non hai fame?»
«Sì, tantissima.»
«E allora andiamo. Mi aiuti a cucinare?»
Il nonno rimase ricoverato due settimane a causa di un attacco di bronchite acuto.
Jonas si comportò benissimo, mi stava a sentire e non protestava se gli vietavo qualcosa. La mattina lo portavo a mare, gli insegnai a mangiare cibi sani visto che il nonno spesso lo portava a mangiare schifezze, il pomeriggio riposava e alle cinque lo portavo dal nonno. Quando ci cacciavano, per tenerlo buono lo portavo a giocare in un piccolo parco vicino casa, tornati a casa preparavamo la cena e dopo aver guardato un cartone animato, subito a letto.
Lui era felice, io arrivato a metà della prima settimana, distrutto.
Una volta dimesso, debilitato dai forti antibiotici, di certo non poteva badare da solo al piccolo.
«Senti Giuseppe…»
«Vito, so già cosa vuole dirmi, e non ho problemi. L’unico problema è che dopodomani passano, diretti in Calabria, alcuni amici che non vedo da anni. Ce la fa mezza giornata da solo?»
«Certo, chiedo alla signora che fa le pulizie di rimanere un po’ di più.»
La prima cosa che non gli piacque, fu come mi ero sistemato, sul divano. Mi fece sistemare nella stanza degli ospiti.
La convivenza non filò liscia, capitarono due episodi, anzi tre, spiacevoli.
Un paio di volte vedendolo in difficoltà, mi offrii di aiutarlo.
Il secondo giorno, nel tentativo di vestirsi da solo perse l’equilibrio e cadde, lo aiutai mentre era mezzo nudo; la seconda quando volle fare per forza la doccia, e fu costretto a chiamarmi. In entrambi i casi, una volta sicuro sulle gambe, mi scansò alquanto sgarbatamente, in segno di fastidio perché lo avevo toccato.
Il terzo episodio, molto più grave, quando si accorse che era sparita una cornice in oro, antica e lavorata a mano, e chiese a me dove fosse. Inutile cercare di spiegargli che non ne sapevo nulla, mi intimò di farla ricomparire.
«Non so che gente frequenta, ma non si azzardi neanche a pensare una cosa del genere. Sa che le dico? Me ne vado! Vada a denunciarmi.»
Raccolsi le mie cose e, mentre andavo via, il piccolino mi fece:
«Quella vecchia, tocca sempre tutto. Anche nella stanza di nonno.»
La vecchia in questione era la donna delle pulizie, una boliviana attempata, che andava a pulire un paio di volte a settimana.
Lì per lì, non diedi peso alle parole di Jonas, poi riflettendoci, anch’io avevo notato qualcosa di strano in quella donna. La sera, Rosa, saputo che ero tornato, m’invitò a cena. Vedendomi nervoso, mi convinse a raccontarle ciò che era successo.
«Aspetta, chiamo mio nipote, è poliziotto.»
Grazie al numero della donna, che avevo memorizzato nel cellulare, il nipote risalì alle generalità della donna scoprendo che aveva precedenti specifici. Nel frattempo Vito mi aveva davvero denunciato, e questo facilitò il compito alla polizia. Con la denuncia, anche se indicava me come ladro, poterono perquisire casa della donna. Trovarono oltre alla cornice, anche altri oggetti appartenenti a Vito. Quando glieli riportarono:
«Ecco, avevo ragione. Spero lo abbiate arrestato.»
«Sì dottore. La donna aveva numerosi precedenti specifici, e grazie ai sospetti di Giuseppe, siamo riusciti a recuperare le sue cose. Controlli bene, perché può darsi abbia già venduto parte della refurtiva.»
«Aspetti, di quale donna sta parlando?»
«La sua donna delle pulizie, Ines Taibo.»
«Scusi, ma io avevo denunciato il ragazzo.»
«E ha commesso un grande errore. È stato grazie a lui che siamo riusciti a ritrovare le sue cose. Solo i suoi sospetti ci hanno permesso di identificare la donna e recuperare la refurtiva. Fossi in lei, mi scuserei con lui.»
La mattina dopo mi chiamò, ma non risposi. Dopo aver tentato invano, rintracciò Rosa in ospedale, la quale gliene contò quattro.
«E lei si ritiene una persona perbene? Solo perché avete i soldi, non potete permettervi di pensare che noi poveri cristi siamo tutti ladri. Io al posto suo vi avrei denunciato. Ma è troppo un bravo ragazzo. E poi, mi ha raccontato sa, che l’ha anche trattato da arrapato, solo perché l’ha toccata per aiutarla. A terra l’avrei lasciata… io. Ma chi frequenta? Ma si pare tanto bello? Ringrazi che Sandrino oltre a essere un bravo ragazzo, evidentemente le vuole bene, a lei e a suo nipote. Certo, che bell’esempio per quella povera creatura.»
soddisfatta gli chiuse il telefono in faccia. Appena finito il turno, corse immediatamente a raccontarmi tutto, per filo e per segno.
«Rosa, lo so che queste cose ti fanno incazzare, ma poveretto, mettiti nei suoi panni.»
«E lo difendi pure? Allora è vero quello che gli ho detto, ti sei preso una sbandata per lui. Stammi a sentì, scordatelo, non ti merita!»
Beh, non ero proprio d’accordo, ma su una cosa aveva ragione. Dovevo andare avanti. Infatti, già dal pomeriggio ripresi a frequentare la pineta.
Dopo un paio di giorni conobbi un bel milanese in vacanza, proprio il mio tipo. Non ci volle molto a conoscerlo e appartarci. Mentre consumavamo sentimmo dei rumori, probabilmente qualche spione che, appena c’interrompemmo si dileguò. Dopo andammo sulla spiaggia. Visto che ci trovavamo bene e lui rimaneva quindici giorni, mi propose di passarli insieme.
Passavamo praticamente tutto la giornata insieme.
Gli feci visitare la costiera amalfitana, la costa cilentana e i siti archeologici della provincia: Pompei, Paestum e Velia.
Dormendo quasi sempre da me, fu inevitabile fargli conoscere Rosa, che trovò “folcloristica” ma simpaticissima.
La settimana dopo, lo portai a Felitto, un Paese nel cuore del Parco del Cilento e Vallo di Diano. Paesaggi meravigliosi, che non hanno nulla da invidiare a tante rinomate località estere. Anche Corrado, che aveva girato il mondo, rimase meravigliato. Passammo la giornata lungo i sentieri che si inerpicavano fra le montagne, per il ritorno scoperto che potevamo tornare a valle in canoa, non ci facemmo scappare l’occasione per ammirare l’incontaminata e stupenda natura che rende le Gole del Calore un’esperienza indimenticabile!
I quindici giorni volarono e Corrado tornò alla sua vita. Stavo bene con lui, sapevo che doveva finire, ma fu dura salutarlo.
Rientrato a casa sovrappensiero, trovandomi Vito e il piccolo Jonas, seduti sui gradini, mi venne un colpo.
«Sandrino, bello rivederti.»
Il piccoletto, si lanciò dall’ultimo gradino e riuscii a prenderlo a stento.
Rivederlo, fece passare l’amarezza del distacco con Corrado. Meno felice, fui di rivedere il nonno.
«Devo parlarti.»
«Certo, e per farlo ha bisogno di usare suo nipote.»
«No, lo lasciamo da Rosa.»
Rosa si prese cura di Jonas, lui iniziò un monologo. Mi resi conto che non stavo neanche ad ascoltarlo. Le sue parole mi rimbombavano, come suoni incomprensibili, quasi fastidiosi. Lo capì anche lui che lo facevo parlare senza ascoltarlo, mi strattonò e disse:
«Certo, se al posto di scusarmi ti avessi fatto ciucciare il cazzo, come hai fatto con quello, magari mi staresti ad ascoltare!»
Mi venne in mente immediatamente la mattina che conobbi Corrado in pineta, e la perdurante sensazione di essere seguito che avevo avuto nei giorni seguenti.
«Siamo anche guardoni, complimenti.»
Tentò di darmi uno schiaffone, lo spinsi contro il muro e lo baciai… due minuti e i nostri vestiti volavano per la stanza. Alla fine:
«Che stronzo!»
«Io? Forse tu…»
«Sì, intendevo di me. Ma hai capito che il comportamento di merda che ho avuto nei tuoi confronti, era solo paura di ammettere una voglia repressa?»
Suonò il campanello. Era Rosa che, già in ritardo, non poteva aspettare oltre. Mi vestii velocemente e andai ad aprire.
«Scusa se vi ho interrotti, devo prendere servizio. Ma dopo mi racconti, eh!»
L’occhiolino le confermò ciò che aveva intuito.
«Piccolo uomo, come stai?»
«Bene. Quanto mi sei mancato. Fatto pace con nonno?»
«Sì piccolino. Abbiamo fatto pace.»
Rispose Vito che nel frattempo era riuscito a rivestirsi.
«Da domani, io tu e Giuseppe ci vedremo tutti i giorni.»
Anche se ogni giorno uscivamo insieme al piccolo uomo, i nostri incontri vis a vis erano radi, tre, quattro volte al mese. Mi piaceva stare con loro, ma avevo bisogno di altro che qualche incontro fugace. Vito capì e anche a lui iniziava a non bastare, quindi mi propose di trasferirmi da loro. Vito però, non era ancora pronto per un simile passo e quindi per amici e vicini sono diventato babysitter e tuttofare.
Anche con Jonas, temendo un contraccolpo psicologico, mi aveva chiesto di mantenere la forma, quindi mi sistemai nella stanza degli ospiti, salvo, sempre più frequentemente, appena sicuro che il piccolo dormisse, venire a infilarsi nel mio letto. Sorridevo quando, per non far capire nulla al piccolino, Vito si alzava alle sei per tornare nel suo letto.
Tutto sonno sprecato! Neanche due mesi, e una mattina ci svegliammo con Jonas fra di noi nel lettone.
Il Pierpo