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Il Matto – Racconto breve di Massimo Castellani

C’era una volta un uomo che aveva vissuto per tutta la sua vita sotto un albero e non si era mai spostato da lì sotto, sia con la pioggia sia con il sole lui rimaneva seduto lì; immobile.

La gente del paese lo chiamava il matto o l’esaurito oppure sfaticato ed incosciente e per questo, nessuno gli rivolgeva la parola se non per prenderlo in giro.

Era il bersaglio preferito dei dispetti dei bambini e parafulmine per ogni cosa accadesse nel paese.

Se, ad esempio la grandine rovinava i raccolti, tutti incolpavano il matto; se un carro rompeva un asse la colpa era del matto. Lui sembrava non curarsi di tutto questo e continuava a restare lì, sotto il suo albero, mangiando dell’elemosina di qualche ignaro viandante in arrivo nel paese.

Qui probabilmente vi chiederete: perché solo quelli in arrivo? E quelli in uscita?

Quelli oramai erano stati informati di tutto circa il matto e alcuni di loro, lasciando il paese per riprendere il viaggio, andavano presso l’albero e, addirittura pretendevano che gli fosse restituito quanto donato.

Lui, il matto, quando poteva restituiva tutto ringraziando lo stesso, e la gente diceva: “Quello è proprio matto”.

Avvenne un giorno che, durante la mungitura, una vacca, infastidita da una mosca diede un calcio al secchio del latte e questo, rotolando con fragore in mezzo alla stalla, fece spaventare tutte le altre vacche le quali si misero a correre e a muggire come impazzite per tutto il paese.

La gente terrorizzata da tanto frastuono si chiuse in casa per due giorni fino a quando le vacche tornarono tranquille nella loro stalla.

Il sindaco del paese riunì subito una commissione d’esperti per indagare sull’ accaduto e questi, dopo approfondite indagini, stabilirono che la colpa, neanche a dirlo, era del matto.

Il popolo a quella notizia subito montò in ribellione e, come in processione, andarono verso l’albero del matto.

Chi voleva impiccarlo, chi squartarlo, chi darlo in pasto ai lupi della montagna.

Fu il sindaco che, anche se a fatica riuscì a placare la folla frapponendosi con il suo corpo tra la massa umana urlante e l’uomo seduto sotto l’albero.

Questi, in tutto ciò, sembrava quasi non accorgersi di quanto gli stava accadendo intorno e fissava la folla con la solita aria incurante.

Riuscito a placare la folla il sindaco assunse un aria solenne e, salito su di un sasso, arringò ad essa facendo sfoggio di eloquenza e cultura illuminata.

– Concittadini – cominciò – lo sforzo per fermarvi è stato ben poca cosa rispetto allo sforzo interiore da me sostenuto per non cedere alla tentazione di lasciarvi andare. Credetemi, anche io come voi ho sete di giustizia, ma tale arsura non mi offusca la mente al punto da non distinguere la fonte dove dissetarmi. E’ vero, abbiamo subito un danno e la commissione da me prontamente istituita ha trovato un colpevole, ma ciò non significa che si faccia giustizia sommaria.
– Pertanto, affinché non si sostenga che il nostro paese sia un luogo abitato da gente rozza e incivile, delibero, come vostro sindaco, che quest’uomo subisca un regolare processo dove potrà darci ragione del suo comportamento così avverso nei confronti di tutta la comunità.

A tali parole la folla si divise nei commenti.

Chi era contrario ed insisteva per una punizione severa ed immediata e chi, era a favore ed applaudiva con calore e desiderio di assistere ad un processo al quale mai aveva assistito.

Si convenne che portare il matto in paese poteva recare sventure ben più gravi della rivolta delle vacche, pertanto, fu deciso di allestire presso l’albero, la sede del giudizio.

Tutta la popolazione si sedette sull’ erba in semicerchio, mentre i giudici si accomodarono sulle sedie della sala comunale portate fin lì dalle guardie del paese.

La parola fu data all’accusa.

Il segretario comunale, in veste d’accusatore, cominciò, nel silenzio più totale dell’assemblea ad elencare i capi d’accusa.

– Il giorno 22 del mese del raccolto nell’anno del Signore ecc. ecc. L’imputato, il qui presente…-
E qui si fermò. Poi , rivolto ad un compaesano nei pressi, chiese:
– Com’è che si chiama il matto?
– Matto! – rispose il compaesano, sorprendendosi della domanda.

– Va bene- replicò il segretario, schiarendosi la voce – Il qui presente matto, con chiari intenti di sovvertire lo stato delle cose nel nostro paese, si metteva alla testa di una mandria di vacche capeggiando la loro rivolta, portando così nel paese, danni e terrore. L’accusa chiede pertanto, che l’imputato sia condannato con la pena più dura prevista dalla legge.

Un fragoroso applauso scoppiò dall’assemblea.

Lo spirito di giustizia aveva spinto il sindaco a nominare perfino un difensore d’ufficio nella persona dell’oste del villaggio. Questo, senza neanche alzarsi, rivestì il suo ruolo con aria non solo annoiata, ma anche intimorita per l’incarico ricevuto e i possibili effetti che questo poteva riflettere sulla sua attività.
L’unica cosa che si limitò a dire, per onor di firma, fu un laconico:
– Mancano le prove.

La popolazione, udendo tali parole subito vociò contro l’oste dandogli del traditore e giurando di andare all’osteria del paese vicino piuttosto che rimettere piede nel suo locale.
Un giudice alla richiesta della “difesa” fece convocare il presidente della commissione incaricata delle indagini.
Il presidente, postosi al centro della scena, con aria professionale elencò i fatti senza tradire la benché minima emozione.

– Signori della corte, signori paesani, la commissione da me presieduta dopo lunghe ed approfondite indagini è riuscita a stabilire che il giorno 22 del mese del raccolto il qui presente imputato fu visto confabulare con una mosca e questa, eseguendo gli ordini impartitegli dall’accusato, è andata a portare il messaggio di rivolta alla prima vacca la quale, a sua volta, ha dato il segnale di sommossa alle altre portando scompiglio e paura al paese tutto.
– L’avvocato della difesa chiede le prove: ebbene signori, la mosca ha confessato!.

A tale affermazione un mormorio serpeggiò tra il popolo.
Qualcuno giurò di aver assistito all’interrogatorio della mosca, altri invece, di aver raccolto lui, con le proprie orecchie, la confessione della prima vacca la quale, successivamente, per il dolore ed il rimorso si ammazzò.

Il giudice fece zittire l’assemblea, poi, nel silenzio più totale e con la solennità che richiedeva il caso, pronunciò la sentenza.

– Visti i capi d accusa, sentiti i testimoni, questa corte dichiara l’imputato colpevole e lo condanna alla pena capitale mediante impiccagione finche morte non sopraggiunga. Così e deciso, così si faccia.

Udire la sentenza e metterla in pratica fu un tutt’uno.

Il matto per tutto il processo e, fino al momento di farlo penzolare dal ramo più alto dell’albero che gli aveva funto sempre da casa, non disse e fece nulla. Si lasciò prendere senza opporre la minima resistenza.

Solo pochi istanti prima di levargli la sedia da sotto i piedi, a qualcuno sembrò che stesse per parlare ma fu solo una sensazione colta da pochi.

Sono passati molti anni da quel giorno, l’albero è sempre li, adesso è chiamato l’albero del matto e ancora oggi, quando accade una qualsiasi cosa, la gente crede che sia colpa dello spirito del matto.
Molti però sono convinti che sia colpa dell’albero e meditano di abbatterlo non prima però, di un regolare processo.

 

Massimo Castellani

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