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Il lato sinistro del corpo – racconto di Elisa Rovelli

Dal diario di Dafne Hoffman ( paziente numero 626, park2)

Dafne è Cresciuta. Eccomi Dafne, ciao. Con Tavor ? Niente.
Sono cresciuta. E niente. Forse non necessariamente migliorata. Ho rischiato di perdere la vita per mano di chi me l’ha data, senza che se ne accorgesse, lei, Parsifal, mia madre. Lei è una parentesi. Non ritorna più. La rispetto, la ascolto, le presto attenzione, ma solo dopo di me. Lontana da me. Lontana dalle mie lotte. Non può capire. Parsifal non può capire. E non piango manco più mentre lo scrivo, ma sono rassegnata in maniera sterile pensando che quando hai tutto, non hai niente. Fotti tutto, fotti niente. Fotti anche la vita dei tuoi figli. Passi settant’anni, SETTANTA, a stare con persone di cui non ti frega niente, a non mangiare cose che gli altri ti dicono che fanno male. E il mese dopo è uguale. Ma potrebbe essere diverso.

Le persone a cui voglio bene e che mi hanno fatto stare bene sono al cimitero. Le persone che approfittano del mio buon cuore sono a spasso. E io sono qui che scrivo tutto questo. Nella mia testa non è né tutto né questo: suona veloce, suona diverso: l’impatto coi tasti lo distrugge. Nella mia testa suona forte, poi mi si tappa un orecchio, sento lo un sfibrillio dei muscoli della parte sinistra del corpo, tiro un sospiro. Si chetano. Penso a questo blog, il mio diario, che è solo un’interfaccia tra me e me, tra il mio spesso-isolamento e il mondo, tra il mio breve viaggio quotidiano nel mondo, voi potreste anche non esserci. Ho trovato un amico e non l’ho mai perso. Mi pesa portarlo in giro perché mi ha cambiato la vita. E’ uno che non se ne frega un cazzo di niente ma che pensa a tutto frammentando ogni nano secondo in ogni cosa, uno che pensa a troppo e non vuole pensare a niente, vorrebbe solo dimenticare i torti del passato che si insidiano in ogni azione futura, gli altri sono solo delle comparse vestiti da nemici. Forse anche io mi sono vestita da nemica, una volta o due, volevo vedere se mi riconosceva. L’ha fatto, e si è sentito tradito. Non l’hai mai detto. Tavor.

Sai parlare sai tacere, io so capire: l’ho capito. Io ho percepito, ho sentito, ho provato: la vita e la morte, l’amore e l’odio, l’amicizia e l’incomprensione, la compensazione, i silenzi , i sileeeeeeenzi, il dubbio che i tuoi amici ridessero di me perché non ero vestita di nero, non avevo tatuaggi brutti e il sospetto che pensavi fossi scema per via delle mie smorfie, ma avevo solo il sole delle sei negli occhi. Due braccia, due gambe, un cuore che batte freddo e nel posto sbagliato, la rassegnazione al fatto che capirsi a volte vuol dire a abbandonarsi o girare il letto dall’altro capo della stanza perché dalla parete che ora guardo posso vederti con una che mi somiglia e che sembra serena a pensarti dormire sul cuore di qualcuno coi popcorn da un lato del letto e un film che gira, che lei se la ride e ti parla e tu fai sì, che non ti fotte un cazzo, che non stai guardando, perché il film non è una scusa per avvicinarsi e scopare, ma una scusa per potersi addormentare a metà del film ricadendo sulle fatiche del giorno o della vita, su fatiche : “sbatte la finestra mentre fuori piove, vorrei stare altrove…”

Poi viene l’amarezza nella consapevolezza della propria bontà, del garantire agli altri un appiglio facile da afferrare in caso ti vogliano inculare. E più scrivo e più penso che che vorrei andare a letto ma l’altra me stessa non me lo consente: sa che non dormirebbe, lei. So che ti scriverebbe, lei. So che non risponderebbe, lui. Mai. Immagazzinerebbe, sempre. Immagazzina, immagina, la sua sofferenza, i suoi dubbi sulle mie gambe, la mia sofferenza, il mio pianto. Passano 5 secondi. Lo schermo è nero. Non so dire esattamente cosa provo. Non provo amore. Non provo niente. Ma questo niente mi devasta e mi fa ritornare bambina, quando giravo in strada da sola con la bici, quando già sapevo a memoria “boys don’t cry” e non frenare in discesa era galvanizzante. da sola a scuola, insieme agli altri, sempre insieme, ma sempre sola. Sola come quando ho aperto un foglio di Carlo C. , il mio amico del cuore della montagna, il bambino più spensierato e simpatico e faccia da culo che avessi mai visto, un po’ come me, ci divertivamo un sacco, mai divertita così tanto fino a che apro il foglio dove c’era scritto ************* TI AMO*************

Io ho avuto piacere e gli ho detto solo, aspetta. Ok, ho sei anni, sono ancora troppo giovane per impegnarmi, non sono Mafalda, non sono nemmeno Lucy Van Pelt e non sono nemmeno Courtney Love [due anni dopo, mia zia Sheila a mio fratello Frank : “ma tua sorella legge il libro nero del comunismo? ma tua mamma lo sa? – nella mia famiglia i nomi non van di moda, nemmeno parlare con il diretto interessato, seppur presente e cosciente.- mio fratello “no, la biografia di Courtney Love” to be continued (n’altra volta). Quindi? vado da mio padre, l’ossuto Rogoredo, che sicuro sta lavorando, infatti. Pa’, eh, vah. Toh. “Chi te l’ha dato?” Carlo. “El furmagiatt?” eh. Mio padre si mette a ridere. Alla fine andiamo da Carlo e io gli porgo lo stesso disegno. Mio padre tutto contento ci fa due foto separate coi rispettivi biglietti Lì ho capito che mio padre era buono e geniale. Che aveva sposato una donna che poteva essere diversa e felice e produttiva se messa con uno meno sognatore, più imprenditore nel senso di demagogo col cravattino, con i figli Jacopo ingegnere e Alessandro tecnico sportivo. Poi passa un anno e ti dimentichi di tutto. Rivedi Carlo , sua mamma quest’anno ha il cancro, ma quando mi vede mi sorride perché sa che anche io ho bisogno del suo sorriso e del suo abbraccio, sa che ha quattro figli e che deve vivere, sa che anche mia madre ha quattro figli, e anche se non è malata non sa sorridere se non perché qualcuno dice qualcosa di divertente per parito preso, e sa anche che sono io che a 7 anni le devo fare da mamma. S. sa anche che tutte le bambine che somigliano a me per parrucco e scarpe da tennis a strappo glitter girano altrove, si fanno rincorrere dagli amici dei fratelli più grandi, tipo Georgie.

Ma la mamma di Carlo è una donna di montagna, conosce le necessità primarie, e sa che io ho ben altro a cui pensare e per adesso ho solo voglia e bisogno di urlare “CARLOOOOOOOOOOOOO e andare a giocare a pallone facendo le catapulte, raccogliendo i lamponi e ascoltando la musica dopo pranzo, quando i veci dormono sopra per cui noi altri si va dall’Andrea, l’uomo solitario della valle, con un cane lupo femmina come moglie, una compagna abbronzata che noi troviamo divertente, mentre le sciure trovano squallida. Ma era il contrario e noi lo sapevamo. Andrea è morto di cancro. Mio padre non sta molto bene. Io nemmeno. Ma non sono cambiata. Sono cresciuta. Mi sono evoluta ma il mio spirito guida è la liana. Per questo ancora Carlo mi viene a cercare. La sera. D’estate e questi sono gli ultimi giorni utili. Carlo sale le scale di ferro dello chalet, nota che sono sporche, il legno è malmesso e scricchiola. “Buonasera, c’è Dafne?” “Non c’è nessuna Dafne La casa è stata venduta.”Carlo annuisce col capo, ringrazia con una mano e se ne va. Dietrofront. Fronte – retro. Fronte:dalla montagna al mare. Altro luogo altro tipo di fame.. Però è mezzanotte. Ma fa niente. Dafne e Melhina si imbucano in una creperia colorita dalla musica “sei già dentro Leppi Auar vi vere cadavere Kosta la mia età” e Melhina parla e parla dei suoi amori e dei suoi dolori e consola i miei dolori facendomi dimenticare gli orrori di malattia, tenendomi lontana dalla botola di Greg Country, l’unico uomo che io abbia mai amato, al quale ho rinunciato, per amore, resto sola, per dignità. E Mel anche. Siamo sole, orfane, ma lei mi dice che io ho un Carlo qualche metro più in là. Tavor. Raggelo. Lei mi guarda e fa “Sicuramente, è pazzo, ma lo sei anche tu” “E chi è normale?”. Oggi Melhina è felicemente sposata. Dafne resta drammaticamente posata, e scrive.

 

Elisa Rovelli

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