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Il giardino dei sogni – racconto di Roberta Bramante

Il cielo,  scuro e imbronciato, aveva aperto le sue plumbee vesti e gettato giù abbondanti quantità d’acqua, in quei primi giorni di primavera. La pavimentazione di catrame delle strade aveva ceduto e si erano aperte numerose buche che parevano crateri. Viola viveva in campagna e lì, fuori dall’agglomerato urbano, le strade erano asfaltate in modo alquanto approssimato, tanto da mettere a dura prova non solo gli ammortizzatori della macchina, ma anche la sua schiena, costretta a subire numerosi traumi. Senza ricordare quali rischi correva, pigiava il pedale dell’acceleratore proprio in prossimità della sua abitazione: la smania e l’impazienza crescevano quando si avvicinava alla meta e scorgeva, tra gli alberi, le mura dolci, pigmentate di familiarità.

 

Era una donna attiva, vivace, come la sua guida sportiva; trasmetteva una coinvolgente energia che zampillava dagli occhi neri, profondi, e scivolava via dai capelli ricci, ribelli e rossi d’henné. Lavorava in un Grand Hotel a Quattro Stelle, si occupava della pulizia delle camere. Si impegnava sempre molto, nonostante gli acciacchi, per questo era apprezzata da tutto il personale.

Da un po’ di tempo, le avevano affidato un ruolo di responsabilità come coordinatrice  e  addetta all’avviamento delle lavoratrici novizie.

Anche se tornava sempre stanca da lavoro, Viola s’era dedicando con tutta se stessa ai preparativi del matrimonio. Sembrava tutto ultimato oramai, ma provava dentro di sé una certa ansia, come se mancasse ancora qualcosa da fare.

 

Ad attenderla, appena varcato il cancello di casa, c’era Punto, il suo gatto nero, insieme alla sua felina compagna di giochi, una bella e altezzosa randagia maculata. La loro presenza l’alleggeriva e le scrollava   di dosso tutto lo stress e la fatica accumulata durante il giorno. Le due buffe creature  gironzolavano e giocavano, azzuffandosi, tra i fiori selvatici che erano cresciuti spontaneamente nel prato.

Vedere quel tripudio di colori e profumi di primavera al tramonto, che coloravano il suo giardino, le fecero tornare alla mente alcuni versi che aveva scritto da giovane.

Una frase in particolare le turbinava nella testa; l’aveva ritrovata annotata su un piccolo pezzetto di carta, pochi giorni prima, in un cassetto, tra le scartoffie ingiallite dal tempo, mentre rassettava la stanza in vista del matrimonio.

 

“Eccolo ritrovato, il mio giardino!

Diverso eppure sempre identico…

 

Quelle parole, la fecero sobbalzare; le sovvennero in un attimo lampi del suo passato. Fu come una improvvisa epifania, un ritorno alla giovinezza. Si trovò catapultata a quando era una studentessa, piena di ambizioni. Aveva sempre amato studiare, anche se non era riuscita a diplomarsi. Le piacevano le materie letterarie, gli autori classici. Ricordava, addirittura, ancora un po’ di latino. Adorava scrivere, aveva un diario segreto dove ogni tanto appuntava un pensiero come quello che le ritornava insiste nella mente.

«Un giardino diverso eppure identico…»si ripeteva.

Sembrava una frase sgangherata, un aforisma enigmatico, ma ricordò presto il senso di quelle parole. Non si riferivano ad un luogo reale ma ad un sogno ricorrente, che aveva iniziato a fare proprio negli anni della scuola.

Sognava di un luogo caro, accogliente, conosciuto. Le sembrava il giardino frequentato da bambina. Solo che, quando i particolari le tornavano alla mente una volta sveglia, più nulla le evocava qualcosa di conosciuto.

Le capitava di notte, nel suo sognare, che venisse accolta in una dimensione silente, statica e  tranquilla come il mare d’agosto. Oppure che fosse immersa nell’erba di prati verdi e scuri, tra fontane zampillanti, labirinti di siepi, chioschi d’edera.

Ogni volta, tutto le appariva diverso, pur suscitando in lei sensazioni identiche di familiarità, antiche rimembranze, che l’avvolgevano in densi e morbidi abbracci di consolazione. Aveva la sensazione d’essere legata dall’infinito passato a quei luoghi onirici, mai realmente visti o vissuti.

La prima volta che fece quel bizzarro sogno, era quando frequentava l’ultimo anno dell’Istituto Magistrale.  Si presentò a lei come il suono sottile di un campanello, un discreto ma attento avvertimento, il primo.

Aveva da poco conosciuto un ragazzo, bello e carismatico, che la riempiva d’attenzioni e l’adulava. Il modo di fare del giovane, aitante e pieno di premure, la fece innamorare. Il sentimento che Viola iniziò a nutrire nel suo cuore, viscerale e forte, come solo a quell’età si può provare, la spinse a mettere tutto in secondo piano. Fu completamente abbagliata dall’amore, dalla sua luce calda e avvolgente, tanto che i suoi occhi neri ne rimasero accecati. La scuola, le amicizie, i suoi progetti, nel giro di poco, non avevano più tanto senso.

Un giorno di primavera, lasciò tutto e fuggì con il ragazzo che amava; fuggì dal paese, dalle leggi di famiglia, dalle restrizioni di regole antiche. Un atto di ribellione, ma anche d’incoscienza.

Avrebbe voluto finire l’anno, diplomarsi, diventare maestra. Lo desiderava, ma in quel momento c’era solo spazio per quel fuoco vivo e scoppiettante, c’era spazio solo per quelle emozioni dolci, tinte di porpora.

Dopo la fuga, fu costretta a un matrimonio riparatore. L’alternativa le appariva troppo difficile da sopportare. Avrebbe pagato il prezzo dell’alienazione, dell’isolamento sociale. Sarebbe stata emarginata, etichettata dalle malelingue e marchiata dal disonore.

Qualche mese più tardi, seppe d’essere rimasta incita e la sua vita cambiò così repentinamente da non poter più pensare a se stessa, a quello che voleva fare davvero della sua vita.

In quella condizione di confusione, sognava il suo giardino. Lì, solo lì, nel giardino dei suoi sogni, lei si ritrovava. Quel luogo diventava  il punto di raccolta del suo inconscio.

Si trasferì in una casa bellissima, come l’aveva sempre desiderata. Mobili antichi, oggetti e suppellettili ricercati, tende e drappi di buona fattura. Una piccola reggia piena di comodità. I suoi generi erano ricchi e molto importanti in paese. Suo marito lavorava con il padre, titolare di una avviata impresa edile. Gli affari andavano bene, per questo la convinse a lasciare la scuola e a badare a suo figlio e alla casa. A tutto il resto, ci avrebbe pensato lui.

La vita matrimoniale che sembrava promettere la felicità, però, divenne ben presto un inferno per Viola. Incominciarono furiosi litigi. L’uomo che le aveva riempito il cuore di colorate emozioni, che l’adulava e la venerava, si trasformò in un demone. Ogni volta che erano in disaccordo per qualcosa, anche una minima sciocchezza, lui la ricopriva di insulti e spesso arrivava a picchiarla. A volte capitava che la costringesse a chiudersi a chiave in bagno o in un angusto sgabuzzino del sottoscala per ore, mentre l’uomo continuava a minacciarla e a farle paura. Solo l’intervento dei vicini aveva, più volte, scongiurato il peggio. Dalla finestrella del suo rifugio, guardava fuori, con gli occhi silenti e bagnati di lacrime, cercando di distaccarsi dalla realtà e volare via dal suo tormento. Desiderava richiamare a sé la vita, affinché si impietosisse e iniziasse ad aiutarla, a darle la forza per reagire.

Proprio durante quei giorni concitati, il suo richiamo onirico si trasformò in un gemito disperato, in un desiderio di fuga da quella prigione. Quel grido di libertà si trasformò nella forza che stava cercando; il coraggio si manifestò all’orizzonte del suo essere.

Quando finalmente decise di mettere fine alla violenza logorante che subiva trovò però chi si opponeva.

Le ricordava ancora le parole di sua madre! Amare come il fiele. Non le avrebbe dimenticate, né perdonate:«Vuoi davvero lasciare tuo marito? Pensa a tuo figlio, è così piccolo! Senza un uomo accanto, come farai?» le disse.

Aveva spinto anche Don Michele, il parroco del paese, a parlarle. Cercò di suggerirle come doveva comportarsi, lo fece in nome della Santa Chiesa:«Una brava mamma sopporta, come la Vergine Maria. Devi essere accondiscendente e ubbidiente con tuo marito! E poi… Se lasci la tua casa, cosa dirà la gente?».

Mentre pronunciava quelle parole, il parroco, si faceva il segno della croce e si rivolgeva con il volto verso il cielo, come per ricevere conferma dall’Onnipotente.

Il giardino dei sogni notturni invece le parlava con un linguaggio diverso, segreto, guidandola nel percorso dell’emancipazione; con un turbine di mute parole, la sollecitava a lottare e a credere in ciò che anelava.

La giovane donna non poteva più tradire se stessa, la sua dignità, voleva estirpare le erbacce parassite, rassodare il terreno della sua vita, ossigenarlo, annaffiarlo. Non si lasciò convincere da chi voleva s’arrendesse al destino, non ascoltò le parole di sua madre, pungenti come spine, né quelle del prete che le intimavano la sottomissione.

Fuggì lontano dalle minacce del marito, verso una nuova vita.

Non aveva nulla, né un lavoro, né un titolo di studio, né tanto meno dei soldi, dipendeva completamente  dall’uomo che aveva sposato. Era sola. Neanche i suoi amici l’aiutarono a salvarsi, troppo presi a giudicarla. Ma Viola non si diede per vinta. Iniziò a lavorare come poteva. Lavapiatti, cameriera, commessa, donna delle pulizie: fece lavori umili, ma che le permisero di mantenere  suo figlio. Lo crebbe da sola, con forza e orgoglio.

Voleva educarlo in maniera diversa da come erano stati educati gli uomini delle generazione passate. Capiva  qual era la sua funzione e il senso della sua sofferenza. Lei, una donna, una madre, poteva fare la differenza.

Poteva contribuire a cambiare la società e la visione che questa aveva della donna. Insegnò a suo figlio l’importanza del rispetto. Aveva cercato di trasmettergli il significato dell’amore.

«Amare qualcuno, contrasta con il desiderio di possesso, con la violenza, la sopraffazione. Amare significa prima di tutto rispettare se stessi…» questo gli ripeteva e questo il ragazzo imparò dal suo esempio.

Negli ultimi anni, le cose cominciarono ad andare meglio. Riuscì a migliorare anche le sue  condizioni economiche. Con i suoi risparmi, poté comprare una casa modesta con un piccolo fazzoletto di terra che curava con dedizione.

L’indomani, proprio lì, nel suo giardino ci sarebbe stata una grande festa. Il suo cuore era colmo di gratitudine per la vita. Suo figlio si sarebbe sposato e aveva scelto quel luogo per festeggiare le nozze.

Tirò fuori dalla borsa un piccolo specchietto portatile e guardò la sua immagine riflessa.

«Devi dedicarti maggiormente a te, alla cura del suo aspetto…»si disse tra sé e sé

«Altrimenti farai una pessima figura al matrimonio di tuo figlio!»

Per questo, nei giorni passati, i suoi capelli grigi erano stati coperti d’henné, valorizzando i suoi ricci stanchi ma ancora ribelli. Aveva comprato anche un bellissimo abito color cipria e degli orecchini di perla. Avrebbe indossato delle scarpe con il tacco, se i dolori di schiena glielo avrebbero permesso.

Si sentiva fiorire allo stesso modo dei narcisi, dell’iris, della forsizia, che aveva davanti agli occhi e che, come coccarde in festa, avevano deciso di sbocciare per l’occasione.

Di colpo  le venne in mente cosa le rimaneva da fare per ultimare i preparativi del matrimonio! Avrebbe colto un po’ di quei fiori per riporli in uno splendido vaso, come ulteriore abbellimento.

 

Punto, il suo gatto, e la compagna maculata, la guardavano miagolanti.

«È l’ora della pappa!»disse la donna, distogliendosi dai suoi pensieri.

Andò in cucina, prese i croccantini nella credenza, poi tornò fuori.

«Ecco qua! Ce n’é per tutt’e due! Non litigate!»

 

Era tanto che non sognava il suo giardino, si diceva.

Chiuse gli occhi e dopo aver inalato il profumo dei fiori appena sbocciati, emise un sospiro  appagato. Non aveva più bisogno di sognarne uno.

Si sentiva completamente in contatto con le viscere più profonde del suo essere! Ciò che si palesava davanti, tutt’intorno, la vita che la circondava e permeava in quel momento, era la manifestazione reale del suo giardino dei sogni e lei… Lei, era il fiore più bello.

 

Roberta Bramante

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