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Hold Still – racconto di Yasmine Samir

“May the wind under your wings bear you
where the sun sails and the moon walks.”

Spesso ho paura di non riuscire più a focalizzarmi sul mio futuro. Mi capita di guardarti e concentrarmi per cosí tanto, troppo, tempo sui tuoi lineamenti … che mi perdo completamente, come se fossi stato teletrasportato in un nuovo e sconosciuto mondo.

Il ventinove giugno mi ero perso, non riuscivo più a decifrare i miei sintomi, le mie emozioni contrastanti che danzavano anch’esse intorno al faló; mi ripetevo solamente di tenere duro e non vomitare nulla.
Dondolavo sui talloni, appoggiato a un tronco rimiravo i bellissimi colori che mi attorniavano. Mai il campo da rugby del campus era apparso cosí attraente ai miei occhi.
Sai perfettamente cosa ne penso degli sport aggressivi, e del sudore e dell’odore nauseante che trasuda dalle nostre maglie umide, delle smorfie strane che compaiono sul nostro viso, dal dolore.
Ero riuscito a scorgerti. Tra centinaia di nuove e sconosciute persone, tu eri riuscita a farti spazio fra tutti e catturare tutta la mia attenzione, interamente.
Un leggero, o turbolento?, senso di amarezza mi brució la gola quando Celestin apparve alle tue spalle, euforico e incontenibile. Quelle mani macchiate di fumo nero che avevano il diritto, e dovere, di farti rilassare, sognare, ogni volta che ne avevi bisogno, distaccarti dalla realtà.
Avevo una voglia, ero diventato cosí incontenibile pure io, di mollargli un pugno. Ma veramente forte, da farlo piangere.
E comunque lo avresti preferito a me anche in quei panni, lo so.

A volte penso che tu abbia il potere di distruggermi. E sei cosí giusta per me.
Osservo i tuoi modi di fare e mi sento come rinato, nuovo. Capace di rominciare anche mille volte questi stessi e noiosi giorni, solo e solamente per te.

Il tredici maggio ero riuscito a classificare numerosi vantaggi e svantaggi del ritrovarsi solo in camera, nessun altro con cui condividere la stessa aria, qualche dubbio. Qualche gioia.
Nel dormitorio maschile penso di essere l’unica persona senza compagno di stanza.
Di soppiatto e silenziosamente, ero riuscito ad uscire fuori. La pace e la tranquillitá che alleggiavano nell’aria verso la tarda notte erano incredibili.
Con la torcia nel cellulare attiva ero arrivato fino alla porta d’emergenza in un batter d’occhio. Nell’aprirla ho stretto fino al dolore le palpebre, come a riaddolcire l’acuto stridulo del portone; la bocca era arricciata e pregavo mentalmente che, comunque, nessuno fosse riuscito a udire tutto quel trambusto.
Salito qualche gradino di corsa, mi ero precipitato fuori come alla ricerca della libertá.
Nessun rumore, nessun ronzio fastidioso si propogava nella terrazza. Solo il pungente odore della beatitudine e del silenzio eterno ondeggiavano nei meandri del buio pesto.
Ero riuscito ad intravederti, osservarti riaggomitolata sulle tue ginocchia, piegata su te stessa a rimirare il cielo spento e cosparso di lievi e leggere bozze luminose.
Piangevi, e non ne capivo il motivo particolare. La causa per la quale ti eri introdotta nei dormitori maschili, qual’era di preciso?
Ma mi sentivo cosí vicino a te, per la prima volta dopo cosí troppo tempo.
Respiravo lentamente, cercavo in ogni modo di non far rumore e destare i tuoi sospetti vacillanti. Non volevo che smettessi di piangere, che rintanassi tutte quelle contrastanti emozioni a causa mia. Dovevi liberarti e lo capivo; lo avevo capito dal momento in cui ti eri rifugiata in qualcuno che non ero più io.
Mi dispiace ancora, forse ancora troppo.

Ho voglia di piangere, o sorridere cosí forte; in modo che chiunque possa riuscire a sentirmi. Che possa contagiarlo con le mie turbolente emozioni fino a ritmare i movimenti di chi mi circonde … I burattini, sai, che possa finalmente manovrare chi ho voglia di manovrare, di muovere i fili a mio piacimento e travolgere la nostra vecchia e risentita storia di “delusioni”. Ma, al contrario, rimango fermo ad osservare inerme. Non posso fare più nulla, eh?

Il sette marzo aveva ricominciato a far seriamente freddo. Mi aveva veramente fatto incazzare che ti fossi messa, nonostante l’aria gelida, le saloppettes corte.
Ed era chiaro che lo avevi fatto apposta, in modo che Celestin, casualmente attratto da te da sempre, si avvicinasse per coprirti con la sua felpa. Che ti macchiasse la pelle vellutata, una fragranza cosí dolce da far impazzire chiunque, con la sua pelle scarlatta e sbagliata. Su di te.
Non sono invidioso, né tantomeno me ne importa qualcosa ma é strano quello che mi fai provare ora. Forse é … Comunque preferisco rimanere da solo.
Era tutto cosí troppo da trattenere dentro di me, e comunque cosí … Dovevo pretendere che non fosse nulla di importante, era cosí e per primo dovevo crederci io.
Era tutto finito, no? Quel tutto che a fatica reggevamo in piedi, sbagliando ogni due passi buoni, lo avevi fatto crollare facendolo diventare un bel niente, eh?
Avevo passato la giornata tra la solitudine e la mia compagnia che stava diventando stranamente pesante, oppressiva nei miei confronti. O perlomeno avevo fatto il possibile.
Non era facile sfogliare vecchi e altissimi scaffali senza sfiorare con il pensiero le tue dita, scavare con irritazione ogni libro dalla copertina interessante pensando euforicamente alle tue labbra.

Ho la sensazione che tu stia annegando in qualcun’altro, di nuovo. Che forse per noia, so di essere noioso a volte, mi hai abbandonato durante una qualunque lezione per studiare un’altra mente, un altro corpo, in un altro modo.

Il quindici febbraio é stato catastrofico, il peggior giorno al mondo.
Ricordo che faceva seriamente freddo al campus, gli alberi spogli erano ripiegati sotto enormi quantitá di tormente e piogge di grandine notturne.
Il pasto veloce e insoddisfacente avuto in mensa era l’ennesimo insignificante dettaglio che provava il mio odio verso il freddo, verso tutto. Ero stretto tra una manciata di compagni scadenti e monotoni, per nulla divertenti e stimolanti.
Rimiravo la pioggia fitta scroccare contro la vetrata, accasciarsi al suolo fangoso inerme, movimentare le danze dei rami affusolati dati i sbuffi cappricciosi del vento.
Il brusio appena udibile dei ragazzi squarciava il silenzio all’esterno, infastidiva me e il mio carattere puntiglioso.
Ci sono delle volte dove penso troppo, altre in cui non lo faccio. Forse un po’ mi stavo annoiando anche io.
Ti avevo chiesto di uscire con me, di abbandonare il tuo gruppo di amiche gentili e simpatiche per spendere i pochi minuti rimasti insieme, racimolati a fatica, ma preziosamente.
Sotto ad un albero gobbo e deforme ero riuscito a rubarti qualche carezza superficiale e degli sguardi un po’ più profondi, quasi disperati.
Pochi minuti prima che la campanella suonasse, che fossi riuscito ad abituarmi al freddo e al silenzio strano che ci avvolgeva, ai tuoi sbalzi d’umore, amore?, frenetici e irrequieti, mi ero avvicinato con cautela, poco e sopratutto lentamente. Quel che bastava per soffiarti un condenso che sapeva delle mie illusioni infrante sulla bocca, chiudere gli occhi e sentirmi addosso, automaticamente, i tuoi di rancori contro di me.
Non ti eri esposta a studiarmi il naso rosso e la paura che cresceva dentro di me, ti eri piegata indietro mentre io volevo … Volevo solo baciarti le labbra come sempre, dovunque.
Ti eri annoiata perfino dei miei tocchi, di chi ti aveva plasmato in un certo modo, un po’ goffo, un po’ inesperto. Un po’ perso per te, un po’ troppo forse.
“Ci sto pensando da parecchio tempo …”
Da quanto? Ma quando, di preciso?
“Mi dispiace”
Bugiarda.
“Dovremmo finirla”
Tu vuoi farlo. Tu vuoi finirla, tu vuoi lasciarci. Tu, tu e basta.
“Abbiamo rotto”
Tu.
“Ci vediamo”
In che modo ci vediamo? Come dovrei vederti da adesso in poi? Posso rivederti? Posso vederti, potró sempre vederti ma non so più in che modo, come. Come parlarti, sfiorarti, pensarti. Come? Ti prego.
Ah.

Le cose degenarono da sempre, si muovono comunque e mai restano immobili e ferme, sopratutto come lo vogliamo noi. Come lo voglio io.
Vorrei che restassimo vicini cosí per l’eternitá, che io non mi stanchi mai di te, che io non ti annoia mai più. Che queste emozioni che sento bruciare dentro non si consumino, che questa energia che ho dentro rimanga indissolubile e potente fin quando viviamo.

Il quindici novembre avevo capito perfettamente quanto ero fortunato. Tutto era nato a caso, un po’inaspettato forse, ma comunque visto e rivisto. Niente di speciale, mai tanto bello come te.
“Sto davvero bene con te”
Io di più.
“Non mi annoio mai, mi piaci e sei cosí divertente. Inoltre penso che abbia avuto un’estate indimenticabile solo grazie a te”
E a te, sopratutto.
“Io sento …”
La piscina del campus era ridotta a un disastro totale, l’alba chiara e soffice brillava sulle mattonelle facendole risplendere di un bel bianco pulito. Pozzanghere di acqua, o alcool, chiazzavano il pavimento. Bicchierini in plastica contenenti gelatine alla vodka ancora intatte, fluttuavano sull’acqua tranquilla dell’enorme taglia della vasca.
Piccoli flashback aspri e sostanziosamente dolorosi colpivano la mia testa, un retrogusto amaro era incollato al palato della mia bocca secca ed un bruciore fastidioso mi formicolava lo stomaco. Aprii a stento un occhio, cercai di ricordare dove fossi, cosa fosse sopratutto successo.
Festoni, metri di carta igenica, bicchieri rossi e blu, un disastro incredibile avvolgeva la sala dove ero solito allenarmi. Era cosí diversa, forse meno accogliente agli occhi di un nuotatore ossessionato. Ma comunque mi piaceva anche sotto quelle vesti, forse un po’ troppo spoglie e colorate.
Ero uno delle pochisime persone che si erano appisolate lí, riuscivo a scorgere un ragazzo russare su un materasso gonfiabile sull’acqua dolciastra e un gruppo di ragazze appiccicate tra di loro e addormentate sotto alla fontanella di cioccolata che ancora pompava quel gustoso contorno.
Lentamente richiusi gli occhi, troppo debole e troppo stanco.
“Mh”
Delle goccioline di acqua mi avevano colpito il viso più volte. Mi grattai gli occhi e cercai di svegliarmi il più in fretta possibile.
Eri inginocchiata davanti a me, il sorriso flebile e gli occhi gonfi. Le labbra carnose e secche, con la tua lingua che continuamente vi ci passava sopra cercando di inumidirle.
I capelli spettinati ti donavano un’aria più selvaggia, forse migliore.
Avevi spostato lo sguardo da me alla pistolina d’acqua, avevi alzato il viso in aria, stretto le palpebre assonnate ed aperto la bocca tirando fuori la lingua.
Mi avevi sparato addosso delle goccioline di vodka, o semplice birra. Disgustosa, davvero disgustosa dato che avevi contratto il tuo viso in una smorfia capricciosa.
“Louis?”
“Mh?”
Mi guardavi pesantemente, in un modo che mi piaceva da morire. Brillavi, mi trasportavi in un … Qualcosa come una favola, un sogno avvolto di aromi dolciastri e color pastello.
Avevi tirato fuori i piedi nudi, li avevi allungati verso di me e ti eri piegata lentamente indietro, sfiorando con le spalle il bordo della vasca. In un secondo avevi buttato giù la testa, terrorizzandomi. Il respiro si mozzó in gola, la paura angosciante, la confusione.
Ma semplicemente il livello d’acqua era sceso di parecchio, quindi l’unica cosa che poteva affogare erano i tuoi capelli.
“Mi piaci davvero”
Quanto?
I primi raggi solari risplendevano dolcemente, l’atmosfera si era addolcita cospargendomi il corpo di una fragranza piena solo di brividi ed eccitazione.
“Troppo” avevi continuato.
Sicuro e intraprendente mi ero sollevato, issandomi sui palmi scheletrici.
“Cosí tanto da farmi impazzire” avevi mormorato.
A gattoni ti avevo raggiunto, un nodo stretto al cuore, un bruciore fastidioso che si propagava dallo stomaco ai polmoni, al cervello.
“Mo?”
“Sí?”
Sopra il tuo corpo, senza nemmeno sfiorarlo se non col pensiero irrefrenabile di toccarti ovunque e dovunque, per sempre. Avevo allungato il collo, ammorbidito i muscoli, coperto le tue curve e combaciato la mia bocca con le tue labbra inumidite dal tuo stesso atroce sapore doloroso.
“Mi piaci cosí tanto da farmi impazzire, anche tu.”
Sopratutto, solo e solamente tu.

 

Yasmine Samir

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