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Gino – Racconto di Nadia Fagiolo

Gino asciugò il vetro con la manica per ripulirlo dalla patina sottile di condensa causata dal vecchio termosifone in ghisa che esalava di continuo e sbuffando continue folate calde. Come ogni pomeriggio si era accostato a quella finestra con l’intento di osservare il grande giardino.
Lo splendido vialetto in porfido rosa collegava il cancellone in ferro dipinto di verde e che veniva lasciato sempre aperto, con l’entrata dello stabile col suo largo portone in vetro e acciaio e serpeggiava zigzagando tra betulle ormai del tutto spoglie e cespugli di azalee che si erano ritirati nel loro consueto letargo invernale.

Esattamente al centro di quello spiazzo verde, si ergeva fiero un grande pino che resistendo per natura al gelo, riusciva a conservare sebbene intirizziti tutti i suoi aghi ancora verdi e che con la sua pungente chioma, quasi accudiva una panchina di cemento posta proprio dinanzi al suo largo e stabile tronco.

Ogni giorno e sempre alla stessa ora, un’arzilla signora (e a dire il vero anche un poco anziana) con passo piuttosto spedito si inoltrava in quella viuzza.
I suoi modi erano fini e delicati, la sua andatura pareva una danza leggera, i suoi occhi azzurri e chiarissimi spiccavano ancora più vispi dietro a un paio di occhiali neri, spessi e tondi, che più per un’abitudine o quasi un ticchio, era solita accomodarsi con l’indice e di continuo bene bene in cima al piccolo naso “alla francese”.
A contraddistinguere quella donnina e a renderla davvero speciale era la gioia che le si poteva leggere sul volto; le apparteneva una rara espressività luminosa che le regalava senza dubbio un aspetto giovanile e piuttosto simpatico.
Sorrideva sempre. Sorrideva ai raggi del sole che filtravano fino a terra spezzati dai rami, al volo libero di una farfalla, al ghiaccio birichino che penzolava dai cornicioni e persino alle pozzanghere con i loro giochi di riflessi o al passaggio furtivo di un gatto.
Sorrideva a tutto.
In primavera, più volte, capitava anche di poterla osservare mentre immobile contemplava un qualsiasi fiore appena sbocciato. Si chinava lentamente, forse rigida a causa di un po’ di mal di schiena e allorché non le fosse possibile annusarne il profumo, ne sfiorava i petali con l’indice ben affusolato, delicata e desiderosa di carpirne quella vellutata e misteriosa consistenza.
Se poi incontrava qualcuno lungo il suo percorso, salutava felice, sventolando la sua manina sottile e rugosa e socchiudendo i suoi meravigliosi occhi che diventavano piccoli e lucenti tanto da apparire come due fessure profondamente illuminate.
Quando le capitava di incrociare qualche malizioso ragazzino o un piccolo bambino tenuto per mano dalla mamma o dalla nonna, allora si arrestava all’improvviso, ben dritta e frugandosi in tasca ne ricavava sempre qualche caramella colorata che vi era stata appositamente infilata per quella eventuale occasione. Distendendo del tutto il braccio e inclinando la testa in una maniera realmente amichevole, la porgeva così ai discoletti, accompagnandola sempre ad una infallibile e calda risata e ottenendo di scambiare due chiacchiere anche con le personalità più difficili, timide o riservate.
Una volta raggiunto il grande pino soleva sedersi sulla sua bella panchina, osservandosi attorno sempre appagata e soddisfatta. Dopo essersi accomodata e aver sistemato bene sulle sue gambe magre la borsa di pelle marrone che portava a tracolla, ne estraeva un gonfio sacchettino di plastica. Con una straordinaria calma scioglieva il nodo apposto alla sua estremità e affondandovi dentro tutta la mano vi pescava un pezzo di pane raffermo. Allora lo spezzettava con cura e una volta ridotto a piccoli cubetti, cominciava a lanciarli, disseminandoli lì intorno. Attendeva quindi sicura, con sapiente pazienza e soprattutto con un grande sorriso, l’arrivo e le planate di diverse specie di uccelli che dapprima scrutavano diffidenti l’ambiente, poi golosi e voraci afferravano avidi nel loro becco un piccolo bocconcino. Ecco che dispiegavano di nuovo le loro ampie ali per volare via ma per poi ritornare presto, ancora più avidi. Potevano essere pettirossi, merli o, nelle giornate più fortunate, persino delle magnifiche gazze, grigie e bianche con la coda squadrata, lunga e vibrante.

Gino riusciva persino ad intuire se, dopo aver sfamato tutti i volatili della zona, la donna si fosse anche potuta dedicare alla lettura.
Spesso sostava sulla panca più di un’ora, reggendo tra le mani tremolanti un volume preferibilmente non rilegato e dal quale penzolava la stessa treccina di lana, blu e gialla.
In caso di vento questa oscillava in perfetta sincronia a qualche sottile capello ormai bianco che si agitava libero nell’aria, sfuggito per sbaglio dall’aristocratico chignon.
Leggeva anche in quella stagione fredda, avvolta da un elegante e pesante cappotto beige che aveva tutta l’aria di essere davvero morbido, caldo e parecchio confortevole.

E quel pomeriggio andò esattamente così.

Gino si perdeva ad osservare quel grazioso viso che assorto nella lettura mutava continuamente espressione e avrebbe certo saputo indovinare se il capitolo fosse stato allegro, triste o piuttosto soltanto avvincente. In cuor suo nutriva forte la speranza che, prima o poi, quella donna si potesse accorgere di lui, di quel volto anziano e forse un po’inquietante nascosto dietro a quella finestra.
Forse, prima o poi, avrebbe trovato il coraggio di scendere in cortile e l’avrebbe salutata con emozione e cortesia: “buongiorno bella signora, sono Gino. La osservo da un po’ passeggiare nel parco. Mai nella mia vita mi sono innamorato di una donna dunque non so se ciò che provo per lei possa esser considerato amore ma… desideravo davvero conoscerla… e di persona e… con tutto me stesso. Ho il gentil permesso di poter restare e tenerle compagnia? Le prometto di non disturbare troppo la sua lettura! La guarderò soltanto da più vicino.”

Lei gli avrebbe certamente sorriso.
Seduti vicini, entrambi avrebbero sorriso al sole, agli alberi, ai fiori, alle farfalle, ai ragazzi e ai bambini… forse alla vita intera.

Tuttavia, altre volte, il cielo regalava una pioggerellina noiosa oppure persino fitta. Allora il giardino si tingeva di grigio e risuonava vuoto e spento, come se ogni cosa risultasse assopita o addirittura crollata in un pesante sonno, avvolta stretta da una coperta di plastica lucida che solo l’allegra signora sarebbe stata in grado di poter scoprire, durante il suo successivo passaggio.

Gino l’aveva chiamata così: signora Gioia.

Sussultò.

“Gino, è l’ora della terapia!”
Un’infermiera si avvicinò alla sedia a rotelle e afferrandola la ruotò su se stessa per direzionarla verso l’uscio che dava sul lucido corridoio bianco.
“Guardavi ancora dalla finestra Gino?”
Gino non rispose, si limitò ad abbassare la testa.
“Osservavi la bella signora?”
Nessuna risposta: l’ometto continuò a fissarsi le cosce avvolte da un pigiama a costine.
“Cosa stava facendo oggi di bello?”
Con un filo di voce Gino si decise a parlare, quasi balbettando.
“Oggi rileggeva Anna Karenina.”
“Che donna interessante, capisco perché ti piace così tanto! Scusa Gino, abbasso la tapparella, tanto ormai in inverno vien buio presto. Tranquillo che ormai la tua signora è già tornata a casa sua. Va bene? Posso?”
Il vecchietto si limitò a fare un cenno lento e affermativo con la testa.
L’infermiera si avvicinò alla finestra che dava su un piccolo e quasi inesistente cortile interno del tutto ricoperto di cemento e a sua volta circondato da altri edifici appartenenti alla casa di riposo. La donna afferrò rapida la corda, calò la tapparella e ritornò ad impugnare la carrozzina di Gino.
“Mi hai promesso che un pomeriggio di questi mi accompagnerai in giardino!” Sibilò nostalgico lui, con la frase più lunga che ebbe mai pronunciato da quando, circa tre anni prima, fu ricoverato nella struttura.
La donna si immobilizzò per qualche secondo poi si limitò a rispondere dolcemente: “Ci penseremo! Dai, ora andiamo giù in ambulatorio, forza, da bravo, premi tu il bottone e chiama l’ascensore…”

Dedicato con un “grazie” a tutti coloro che si occupano ogni giorno delle persone anziane, con amore, con riguardo e tanta attenzione preservandone speranze, sogni e illusioni ma soprattutto quell’angolino di felicità, qualunque o dovunque esso sia.

 

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