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Gemelli gratinati al pesto – Racconto di Stefania Traversa

Il buio.
Da bambino ne hai quasi sempre timore. Di quei falsi timori che senti che puoi, vuoi sfidare. Il buio lo apprendi quasi sempre la prima volta, in casa tua, nella camera da letto dei tuoi genitori o nella tua cameretta. È un timore non pieno, non vero, perché sai che una voce o una mano pronta a stringere la tua saranno più che sufficienti a farlo passare. Non ti sentirai solo, non ti lasceranno solo nel buio.
-Per muoverti nel buio, calmo, hai bisogno di stare bene.
È una di quelle frasi banali che tra una birra e una sigaretta sul muretto sotto casa io e Andrea, amico di bevute, sparavamo con quel tanto di voce sentenziosa da far sembrare quasi una frase intelligente, profonda. Lo dicevano due quindicenni sfigati.
Da adulto sorridi al pensiero di poterne avere paura. Il buio ti intriga. Il buio ti è amico, quando torni tardi a casa e riesci a sgusciare nel tuo letto senza che i tuoi si sveglino. A volte ti va di culo a volte no, si accende una lucetta tipo interrogatorio. Tuo padre o tua madre di turno, in vestaglia e ciabatte, ti ricorda che hai fatto troppo tardi e che le questioni saranno rimandate all’indomani mattina. Tu pensi, perché se ne dobbiamo riparlare domani non sei rimasto a dormire? Poi una sera torni e non sgusci, non fai troppo silenzio e senti i tuoi dormire nel buio e un po’ realizzi che sei cresciuto troppo per sgusciare e ti rassereni. Non ti aspettano più.
Sei sereno nel buio, ti sembra di vederle anche meglio certe cose, tu che sei miope dalla nascita e senza lenti non riconosci nemmeno te stesso allo specchio.
Il buio è solo buio.
È quello che crei con tapparelle tutte chiuse per dormire bene, perché domani hai una riunione importante e devi necessariamente dormire bene.
Ma succede che qualcosa cambia.
All’improvviso pensi a quella frase di Andrea detta venti anni prima, e non sapevi neppure di ricordarla.
Succede.
Accade che in un locale afoso di agosto, in vacanza, in ferie, va via la luce e tra quelle voci, urla chiassose, giocose, scherzose, beffose, tu vorresti una voce anche solo lontana solo per te o una mano stretta. Sudi di botto, in pochi minuti, tutto quello che due spritz e un mojto non ti hanno fatto sudare in tre ore. La luce ritorna e tu sei quello lucido, bagnato di sudore dalla testa ai piedi letteralmente vicino al bancone. La tipa di turno che stavi abbordando è sparita. Sei una pozza d’acqua in camicia di lino e pantaloni di cotone. Eri vestito bene, si sentiva ancora vagamente un po’ di profumo e dopobarba provenire dalla tua pelle prima del buio. Adesso ti fai schifo da solo per il sudore acido che non hai mai prodotto nemmeno quando eri butterato quindicenne. Cerchi un paio degli amici con cui eri andato a ballare, saluti e vai in hotel.
Riccione è splendida quella notte, come sempre. C’è una Luna che illumina il cielo come se fosse giorno. Pernotti con i tuoi amici milanesi in un hotel sul lungomare, non troppo centrale, non troppo chic, non troppo barbone. Era una serata perfettamente normale fino al buio. Ora sei sul lungomare verso l’hotel e pensi che vorresti sentire tua madre, forse anche tuo padre. Sicuramente tuo fratello Lorenzo. I tuoi, davvero non puoi chiamarli, sono le tre di notte, avrebbero un infarto. Poi per tranquillizzare tua madre faresti l’alba. Non li chiami mai da Milano, figurarsi in vacanza. Tua madre ti chiama un giorno si e uno no per sincerarsi che tu ti stia nutrendo, che tu sia a posto con la biancheria, che ci sia un minimo di pseudo fidanzata. Tu rispondi sempre così svogliatamente che lei ormai ti chiede le cose in default e tu rispondi con mono sillabatici sì, no, forse storpiati. Chiami Lorenzo ma non ti risponde, figurarsi. A Valencia sarà nel pieno della serata a Barrio del Carmen in qualche locale. Magari uno di quelli che gli hai raccomandato. Sei quasi arrivato all’hotel lo vedi da lontano, due isolati scarsi. Un isolato. L’hotel. Le scale no, l’ascensore. La porta della camera, il letto. Vestito, sudato fradicio. Letto. Buio. No, luce. Amen.
Nottataccia.
L’indomani tutto è normale. Pensi che il barista ti aveva caricato troppo i cocktails. Ci sorridi, del buio, della paura a restarci, del sudore. Vai in spiaggia. Così due giorni a seguire. Lisci come una vodka pura e limpida come acqua. Semplici. Mattinate in spiaggia, caldissimo, radio a palla nelle orecchie. Drinks freschi, belle ragazze, tutto perfetto come sempre in quei giorni. Mentre pensi sono ancora al quarto giorno di ferie, una tipa sdraiata al tuo fianco ti allunga degli occhialetti per prendere il sole. Sono quegli orribili tondini di plastica piena colorata tenuti insieme da una asticella centrale. Sono rigidi ma leggeri. Un gesto semplice, te li passa perché va a farsi una doccia. Li provi. Buio. Intorno luce, molta. La percepisci, la intravedi, la senti addosso. Caldo e buio.
Again.
Ti riduci fradicio di sudore in pochi secondi. Ti dici di stare calmo che adesso ti passa. Non passa, peggiora. Il cuore in gola. Nelle orecchie. Ti dici, cazzo guardati da fuori. Sei steso al sole tra belle ragazze, amici e drinks. Sei al mare, in ferie. Stanno passando Bruno Mars in radio. È proprio la tua canzone preferita. Stai calmo. Più te lo dici, più sudi e inizi a soffocare. Cazzo soffochi, soffochi, soffochi!
È un secondo e sei in piedi di scatto, di corsa verso il mare. Gli occhialetti scaraventati a terra. Alzi valanghe di sabbia nella pazza corsa tra cento ombrelloni. Senti che la gente ti insulta. Tu corri come se il diavolo ti stia inseguendo. Corri e guadagni l’acqua, il mare, il fresco. Ti butti. Vai sotto. Male molto male. L’impatto ti stordisce, quasi senti che stai per svenire in acqua.
Ti riprendi mentre un tizio ti sta dando schiaffetti sulle guance. Intorno un capannello di gente.
– Sto bene, ho solo avuto un forte colpo di calore.
– come ti chiami?
– Filippo Corteni.
– io sono Vincenzo Lezzi sono un medico, Filippo hai preso medicine, sostanze?
– no, dottore, è stato un colpo di calore. Sono uno a posto, sano, lavoro in banca a Milano. Sono in ferie con amici.
– lo so, me l’hanno detto. Senti io ti ho visto arrivare come una furia, un’idea di cosa ti sia successo ce l’ho, anche ascoltando i tuoi amici. Se vuoi andiamo in ambulatorio e ti faccio una visita. Ok?
– ok

Mentre aspettavo nella sala d’attesa dell’ambulatorio riprovai a chiamare mio fratello Lorenzo. Niente non rispondeva. Gli mandai un vocale di tre minuti, io che gli ho sempre detestati oltre i 30 secondi. Gli spiegavo, solo a lui, tutto. Quello che avevo sentito, provato, vissuto. Con il gran finale del tuffo in acqua.
Feci una visita accurata e l’indomani mattina anche un prelievo di sangue.
Il giorno dopo Vincenzo, con cui ormai ero diventato amico, anche lui milanese di adozione, romano di origine, e a cui avevo consigliato alcuni movimenti per il mutuo di casa mi disse che le analisi erano buone, buonissime. Per lui era evidente che il problema era qualcos’altro. Stress, attacchi di panico.

La settimana dopo ero a Milano.
A lavoro.
A casa.
Solito tutto, tranquillo, tranquillizzante e mediamente luminoso.
Pensavo spesso a quello che era successo come una giustificazione di quel fenomeno per cui se sei un po’ stressato, in vacanza appena ti rilassi, il tuo cervello ti fa sballare. Era stato effettivamente un anno di lavoro, molto intenso. Lo dimostrava che avevo preso solo una settimana di ferie da fare a Riccione. Volevo quanto prima ritornare a presidiare la scrivania. In effetti a pensarla a freddo e con calma non mi sembrava totalmente da buttare e da escludere la diagnosi di Vincenzo: attacchi di panico. Da controllare tutto: lavoro, casa, riunioni, spesa, avevo dato troppa vacuità al cervello. Troppa e tutta insieme e lui era andato in tilt. Io ero andato in tilt. Io, il perfetto promettente quasi vice direttore di banca, allettante, giovane Filippo Corteni ero andato in tilt. Sorridevo di questa teoria, possibilità, fragilità. Non mia, almeno non a me familiare. Pensavo di giocarmela con qualche tipa con sindrome da crocerossina.
In tutto quel passare di giorni, un’eternità nella mia realtà ma effettivamente solo due settimane, mio fratello Lorenzo dalla Spagna non aveva né risposto alla mia chiamata né commentato il vocale. In realtà il cellulare era fermo a due settimane, così diceva la dicitura in alto su WhatsApp. Non si connetteva da due settimane. Era strano, ma tipico di Lorenzo. Non me ne preoccupai da lì a tre giorni era previsto il suo rientro a Roma.
Invidiai bonariamente le sue ferie, le mie erano state orribili.
Ero felice per lui e volevo ridere di me con lui.
Il giorno prima del rientro previsto di Lorenzo a Milano erano le 16.00 in punto.
Una giornata afosa tipica di fine agosto.
“I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente, di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio”.
Era giovedì pomeriggio, ma fa lo stesso.
Loredana la segretaria del direttore bussò alla porta di vetro della sala riunioni. Aveva un completo camicia pantalone sui toni pastello, capelli raccolti. Entrò nella stanza con dei passi silenziosissimi e con voce pacata mi disse che sulla linea due c’era una chiamata urgente per me.
Risposi.
La voce dall’ altra parte del telefono mi diceva che c’era stato un incidente, che quello era il consolato italiano in Spagna. Due settimane prima una macchina su cui viaggiava mio fratello e il suo amico con cui era partito per Valencia aveva avuto un incidente. La macchina aveva preso fuoco. Lui non era morto sul colpo. Il suo amico, si. Dopo quattro giorni, Lorenzo era morto per arresto cardiaco dovuto ad una infezione causata dalle ustioni. Dall’incidente era stato sempre in stato comatoso. A causa dell’incendio non avevano trovato documenti. Era stato difficile identificarli. Finché l’albergatore dove alloggiavano, notando che non rientravano nonostante avessero lasciato i bagagli in camera, aveva contattato la polizia e di conseguenza il consolato. I nostri genitori erano fuori Roma, in villa in campagna, si trasferivano lì tutta l’estate. L’unico recapito degli elenchi che polizia e consolato avevano trovato era quello di casa in città a Roma dove non c’era nessuno. Poi da LinkedIn e Facebook erano risaliti a me come fratello di Lorenzo.
Tutta questa storia mi attraversò il cervello con la stessa rapidità con cui te la scrivo ed espongo.
Andai in campagna dai miei.
Ciao Vincenzo,
ti invio questa mail per dirti che ciò che mi è accaduto a Riccione non ha nulla a che vedere con la tua diagnosi. Non era stress né erano attacchi di panico. Mentre io soffrivo, mi sentivo soffocare quasi da morire, nel frattempo, mio fratello gemello, Lorenzo, bruciava, soffocava, moriva davvero a causa di un incidente avvenuto in Spagna. Il fenomeno si chiama “coincidenze sensoriali tra gemelli”. Io in quei giorni ho vissuto la sua morte, l’ho sentita addosso come l’ha sentita lui. L’ho sentita mia. Adesso capisco anche perché l’ho cercato così tanto ma non ho insistito, tutto ha un senso.
In allegato trovi una mia ricostruzione di quei giorni, sei citato anche tu. L’ho scritto più per me, per cercare di provare a metabolizzare ciò che per me è assurdamente doloroso. Ho piacere a condividerlo con te. Adesso, credimi conosco il buio che nemmeno la Luna può rischiarare e lo temo perché so che quella mano che tenevo stretto da bambino quella voce che sentivo e mi rassicurava sono persi in esso.
Buio pesto.

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