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Fino all’ultimo – racconto di Frank Cappelletti

Le persone infelici cercano, cercano sempre qualcosa altrove. Le sette e le community sono piene di disperati che provano a riempire la loro coscienza vuota attraverso la dottrina di pazzi. Guardano fuori dal loro cuore solo perché, quando il coraggio di vivere svanisce, allora l’anima sanguina e ha bisogno di un guaritore che le dia la vita. Di nuovo.

“Cinquant’anni della minchia.” Bofonchio guardando il pallido salvagente che spruzzato di peli grigi, segna il confine tra il torace e quel pendaglio che dovrebbe essere il cazzo.
“Cinquant’anni e ‘sta cazzo di pancetta che mi fa sembrare un ragioniere.” Strizzo con le dita l’adipe e sbuffo, la giornata non è ancora iniziata e ho già voglia di bestemmiare tutti gli Dei. Butto giù il caffè e arrivo in centrale.
“Buongiorno dottore.”
“Buongiorno Stani, novità?” Soffio la frase più per abitudine che per curiosità. Città di merda, lavoro di merda e pensare che il mio sogno era quello di fare lo scrittore di gialli e invece ho seguito le orme di famiglia, in polizia.
“Dottore ha letto il giornale? Ci saranno delle ripercussioni per i fatti del G8 a Genova.”
“Sai che novità.” Penso e senza rispondere mi chiudo in ufficio.

Uno squallore impressionante mi accoglie. La scrivania è degli anni’60, perde pezzi di formica come fosse un lebbroso, la poltrona di finta pelle dove poggio il culo è così ridotta male che sembra che l’abbiano frustata. I gagliardetti e crest appesi alla parete poi, non sono nemmeno i miei, ma del mio predecessore ora questore a Milano. Un malato raggio di sole colpisce quello con la pantera. “Squadra volante…ma che cazzo vorrà dire poi…” Lascio morire il pensiero sulla pila di scartoffie che ho davanti. Furti, scippi, droga, liti condominiali finite in rissa, ecco la mia vita di merda, la vita da commissario, perché quella vera, quella al di fuori di qua è ancora peggio. Gianna, l’amore di sempre, l’amore che doveva essere eterno, invece è finito a cazzo di cane. Gianna con i suoi capelli ricci e gli occhi d’alabastro. I primi tempi il matrimonio a gonfie vele ma poi la depressione ha giocato le sue carte, facendo breccia tra noi peggio di una bomba. Si, perché Gianna non doveva restare sola e io avevo un lavoro senza orari. Una lettera e un vaffanculo ne sancirono la fine lasciandomi una fede e le foto sul comodino.

“Dottore…è successo ancora, dei passanti hanno rinvenuto un cadavere sull’Annunziata”
“Lavoro di merda, posto di merda, vita di merda.” Come un tibetano snocciolo il mantra e vado a vedere l’ennesimo scempio prima di pranzo, perché alla fine della fiera ti abitui a tutto e benché una donna giaccia straziata a terra, l’unico pensiero che conta è andare a mangiare. Ci si irrigidisce sempre più con gli anni, si diventa stufi di tutto, tranne che del cibo. Un sordo miagolio proviene dallo stomaco.
“Venga dottore, da questa parte.” Seguo Battiston il più anziano degli agenti, un veneto che fa una polenta e osei mostruosamente buona. Mi inerpico per il sentiero dove ci vengo a cogliere gli asparagi e il finocchietto bastardo e mi chiedo, tra un brontolio e un crampo, quando potrò tornarci senza cadaveri tra i piedi.
“Ecco dottore è qui.”
La sventurata è riversa su di un fianco, forse una ventina di anni, i capelli scarmigliati le coprono parte del viso e la chiazza di sangue dietro la nuca mostra dov’è stata colpita mortalmente.
“Non è il maniaco, non ci sono segni di violenza carnale” mi dice il collega come per sottolineare che se fosse stata violentata, avremmo capito subito la causa dell’omicidio.
“See.. perché si ammazzano le donne sempre e solo se non te la danno. Che coglione.” Penso.
“Dottore non ha documenti né cellulare e le manca una scarpa.”
La donna calzava decolletè con un tacco altissimo, impossibile da portare in questi sentieri.
“Cercate se è qui intorno. Non ci sono macchie di sangue a terra e sembra che sia stata trascinata fino a qui.”

A circa duecento metri da dov’è stato rinvenuto il corpo c’è il posto dove andavo a funghi e Gianna ci faceva il risotto. Era una cuoca eccellente capace di cucinare di tutto con una facilità estrema, lasciando spiazzati anche i più grandi gourmet. Mi perdo nei meandri della cucina di casa nostra e ne rammento gli odori e profumi, dando il colpo di grazia alla martoriata pancia che vedo estendersi da sotto la camicia.
“Dottore, non abbiamo trovato la scarpa e il medico dice che deve essere deceduta circa otto ore fa.”
“Ok grazie Ciarrocchi, torno in commissariato…Battiston andiamo, tenetemi aggiornato su qualsiasi novità.”

Lavoro di merda, gente di merda che ammazza altri esseri umani senza pietà. Vivere è sempre stato un battito d’ali ma quando è un coglione a decidere che è la tua ora, questo mi fa incazzare.
“Battiston lasciami qui.”
“Non torna in commissariato?”.
“Non ora, mangio un boccone in questa trattoria poi torno a piedi.”
Il borbottio è diventato imbarazzante, il frastuono dei visceri vuoti mi fa muovere sul sedile come se fossi stato pizzicato dalla taranta.
“Buongiorno, cosa posso servirle?”
Il ristorante è fuori mano ma la piccola sala è piena, mi accomodo a un tavolo defilato dove posso guardare gli altri. Dalle facce immerse nei piatti capisco che il cibo è buono e la conferma mi arriva dal quasi totale silenzio, si sente solo il rumore di ganasce che masticano.
“Abbiamo…”

Il mio stomaco sembra imbizzarrirsi alle parole della donna che con sguardo stanco fissa l’entrata, mi stringo compulsivamente la panzetta ma non riesco a placarne il borbottio. Ordino e mi torturo guardando gli altri ingozzarsi come lanzichenecchi.
“Morta con la testa sfondata, che destino malato.” Penso.
La ragazza dell’Annunziata, così l’abbiamo chiamata, non ha ancora un nome, nessuno ne ha denunciato la scomparsa e la stampa per ora è stata messa a tacere. Una donna come tante, mora, jeans e Monclear nero, le unghie cortissime segno di chi se le mangia per il nervoso.
“Pezzo di merda chiunque tu sia, devi crepare.” Sputo la sentenza mentre quello davanti a me si infila in bocca una forchettata di pappardelle col sugo ungendosi il mento e riportandomi all’ eterno tribolare con la fame.

L’antipasto sparisce in un attimo. I salumi e formaggi tamponano il delirio che ho all’interno quel tanto che basta per tirare un respiro di sollievo. Guardo la donna correre tra i tavoli e la cucina senza sosta, ha un qualcosa di familiare a cui non so dare un accostamento, la guardo dribblare tra i tavoli, mentre tiene lo sguardo puntato all’ingresso. Gianna quando non era prostrata dai suoi fantasmi, era capace di composizioni culinarie immorali, capaci di farmi inginocchiare e chiedere perdono a Cristo, tanto erano buone, manicaretti da re che poi sparirono per sempre, quando le lacrime e il dolore per la morte del bambino si mescolarono al sangue dei suoi polsi tagliati.
Il profumo degli spaghetti mi fa risorgere, mi tuffo del turbine del cacio e pepe come uno squalo sulla preda. Mastico con avidità lasciando che il gusto della spezia mi riempia l’anima di gioia, e senza attendere la deglutizione faccio partire un’altra forchettata appagando tutti i sensi con il cacio. Gianna si incazzava a causa della mia voracità, non capiva la brama di vivere, il bisogno di apprendere, possedere tutto ciò che mi circondava, sia a tavola che nella vita.

“Deliziosi.” Penso, mentre preparo le fauci da leone al secondo, sciacquandole col rosso della casa.
“Mi perdoni ma dovrà attendere un po’ per la sua frittura…” La donna mi si para davanti mentre a occhi chiusi degusto il vino.
“Non si preoccupi, non è un problema.” Mento, mentre lo stomaco emette un latrato che sembra un coyote.
“Vede, oggi sono sola e mi devo occupare sia della cucina che della sala, la ragazza che mi da una mano è a casa con l’influenza e mia figlia è uscita ieri pomeriggio con gli amici e non è ancora tornata, l’aspetto da un momento all’altro, non è nuova a queste “fuitine”. Ha ventuno anni, è giovane, basta che mette quei diavoli di tacchi e fugge da qui.” La donna prende una pausa per sbirciare la porta che si è spalancata, ma nessuna delle donne entrate è la figlia,si morde le unghie con ansia.

“Ciò che stavolta mi ha fatto imbestialire è che ha lasciato il telefonino a casa.” Si scusa e va ad accogliere i nuovi arrivati. La continuo a fissare e il mio occhio da sbirro mi fa contrarre lo stomaco. Gli stessi zigomi e la stessa attaccatura di capelli mi fanno capire che la figlia non tornerà più perché è stesa sul tavolo del coroner. Non aspetto il secondo, non ho più appetito, l’addome è teso come se fosse stato picchiato da un boxeur, pago e vado via, lasciando la signora a fissare la porta. Avrei dovuto qualificarmi e dirle l’accaduto, ma non l’ho fatto, non me la sono sentita. Cammino sul bordo della strada verso la città cercando di schiarirmi le idee e far andar via quel sapore di bile che ho in bocca. Una telefonata mi avverte che la ragazza è stata riconosciuta da un’amica e che Battiston e Ciarrocchi stanno venendo a prendermi per dare alla madre la brutta notizia. Mi fermo e respiro, sbottono la giacca e guardo il rotolo di ciccia, la tasto con la punta delle dita e mi sento un perfetto idiota. Le persone sfuggono alla vita perché troppo impegnate alla ricerca di piaceri effimeri, e non se ne rendono conto fin quando l’ultimo respiro non li abbandona, facendo posto a chi, malgrado il dolore, va avanti senza paura. L’auto è sotto la collina, la vedo arrancare tra folate di polvere e penso che alla fine della giornata andrò al cimitero da Gianna, prenderò un po’ di tempo per starle accanto, forse aveva ragione, stare da soli rende cinici.

 

Frank Cappelletti

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