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Figura tra le acque – racconto di Alexey Alberti

Da ormai decenni ero ancorato indissolubilmente all’oceano, che pareva illimitato. Conobbi la crudezza della vita più navigando che vivendo sulla terraferma nei miei giovanili e scapestrati anni. Tuttora ricordo la motivazione per la quale mi spinsi oltre le acque conosciute e volli abbandonare la terra definitivamente: osservavo il mare quasi morbosamente e con una certa qual voglia ossessiva di unirmi ad esso, di conoscerlo nel profondo, di non esser più all’oscuro delle sue dinamiche reali e che ci paiono da sempre impossibilmente scopribili. Certi mi canzonavano dicendomi: “Vuoi essere una bella e piacente sirena?”, e io rispondevo con sorprendente sicurezza e, per così dire, audacia: “No, voglio sposare le acque oceaniche, fare nozze indimenticabili che si protrarranno sino al giorno della mia morte”.
Sta di fatto che, terminati gli studi obbligatori con risultati innegabilmente penosi, m’imbarcai su una nave che mi fu lasciata da un nonno il cui nome, adesso, ahimè, mi sfugge. Dissi a mia madre che, al termine del viaggio, sarei tornato a vivere lì, con lei; tuttavia, l’abbandonai e non feci più ritorno a casa, avvegnaché il pensiero di ritornarvici tormentasse moltissime mie notti.
Certo: in tutti gli anni trascorsi in mare, la solitudine divenne la mia unica compagna, la mia unica eterna ascoltatrice. Giammai mi dette consigli, però era seriamente una grande ascoltatrice, una di quelle che pendono dalle tue labbra qualunque cosa tu dica, anche la più futile.
Nel corso della mia vita da esploratore dei mari ebbi modo di vedere molte cose particolarissime e molti fatti curiosissimi; una volta, per esempio, scoprii d’essere seguito da una stranissima ombra le cui forme erano attribuibili a quelle d’un baldo giovane e piuttosto magro.
A bordo d’una barcarola luminosa, e che si mostrava materialmente esistente e nel contempo inconsistente, v’era quest’oscura figura la quale si dilettava a mandarmi segnali sonori per me non ben poco criptici. Io tentavo di richiamarla, invano: non aveva orecchie per udire, oppure non comprendeva le mie parole. Oppure, semplicemente voleva ignorarle.
Scomparve dopo un po’, per poi riapparire, identica a prima, in un’altra posizione della lunga distesa d’acqua che stavo attraversando.
Continuava a dirmi qualcosa, ma io non capivo. Io cercavo di dirle qualcosa, ma fingeva di non capire (conclusione che trassi come più reale e veritiera). Una comunicazione che non poteva esistere.
Si dissolse nel vuoto e non si presentò più al cospetto dei miei occhi di color verde smeraldo per un considerevole numero di giornate.
Dimenticai quella figura perché preso a redarre la mia raccolta poetica che, me misero, mai vide la luce della diffusione, questo dacché cadde nelle acque che traversavo e si perse nella sua spaurente immensità.
Passati dei mesi si ripresentò, sempre identica, sempre desiderosa di dirmi qualcosa e, a quanto pare, di vedermi intrappolato nella prigione dell’incomprensione.
Presto, si dissolse un’altra volta. E non ebbi più modo di rivederla, mai più. Durante certe notti insonne, valicate a guardar la luna, mi sovveniva il pensiero di quella figura, il pensiero di cosa si celasse dietro quella diafana presenza.
Sussurravo: “Farei di tutto per rivederla, così m’avvicinerei e tenterei di scoprire la sua entità”.
Ma con molta probabilità, anche se avessi avuto nuovamente l’opportunità di trovarmi dinnanzi a quella figura, lì, fra le acque, non avrei avuto la facoltà d’interloquir con lei.

Alexey Alberti

 

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