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Dungeon – racconto di Noemi Campopiano

“Al limite estremo di un mondo distrutto, vi è una torre d’avorio e fuoco.
Attraversa i corridoi, corri lungo le scale che portano al cuore del mostro.
Il tuo viaggio è appena cominciato”.

«Appena cominciato» mormorò ripetendo le ultime parole di quell’eco lontana. Una benda scura le era stata legata strettamente intorno al capo, coprendole gli occhi che, seppur spalancati ed increduli, non potevano scorgere null’altro che ombre. Il pensiero volò veloce, seguito dai battiti terrorizzati del suo cuore. Era stata rapita? Non ricordava nulla, ma la sensazione di essere tenuta prigioniera era troppo reale. Sembrava quasi che qualcuno le stesse stritolando il cuore. Faceva dannatamente male, ma Vera non riusciva a reagire. Il terrore le aveva congelato le membra, inchiodandola al suolo. Perle di sudore le scorrevano sulla fronte, impregnando la benda e scivolandole poi lungo il collo, ma la ragazza era diventata del tutto insensibile. Nessuna sensazione riusciva a penetrare quella gabbia di folle paura.

Non piangeva. Non urlava. Immobile e cinerea, Vera pareva una grottesca statua abbandonata dal tempo. Sarebbe rimasta in eterno in quella posizione, con gli occhi bendati sgranati, la bocca semiaperta e le braccia abbandonate lungo i fianchi, se una poderosa folata di vento non l’avesse quasi fatta crollare a terra. Nell’attimo in cui il suo corpo tentò di vincere quella spinta, Vera si rese improvvisamente conto di non aver alcuna catena a vincolarle i polsi. Sconcertata, fece scorrere le dita sul viso, sfiorando la stoffa ruvida della benda. Con un gemito strozzato, afferrò il nodo e cercò freneticamente di scioglierlo. Si morse il labbro con il cuore che ora batteva per l’ansia e la speranza, non più per il terrore, e con un gesto secco riuscì finalmente ad eliminare quell’opprimente impedimento.
Senza più alcun ostacolo alla sua vista, Vera dovette sbattere più volte le palpebre prima di riuscire a distinguere l’ambiente intorno a sé e, mentre le ultime ombre residue abbandonavano i suoi occhi, rimuginò su quanto stupida fosse stata. Era sprofondata nel panico più assoluto, quando in realtà non c’era nulla a imprigionarla se non il suo stesso timore. O forse qualcosa c’era davvero, poiché il peso che le gravava sul cuore non era scomparso e il luogo che le sue iridi le mostravano non era affatto rassicurante.

«Dove diavolo sono?» sbottò voltandosi sbalordita. Un impiantito di pietra corrosa la sorreggeva, ma sembrava non esistesse null’altro: volute di fumo denso e scuro si levavano tutto intorno, oscurando il cielo, ma senza sfiorare la ragazza. Sembrava di essere rinchiusi in una bolla, una sorta di barriera che allontanava il fumo, ma non poteva impedire che il vento rovente le soffiasse contro. Vera si avvicinò al limitare del pavimento, privo di qualsiasi protezione, e cautamente si sporse per capire in che razza di luogo si fosse risvegliata.
Il suo cuore perse un battito e una violenta vertigine la costrinse ad arretrare. Incapace di formulare un pensiero di senso compiuto, la ragazza strinse le ginocchia al petto, mentre la sensazione di essere tenuta prigioniera si fece di nuovo viva e asfissiante. Premendo forte la fronte sulle ginocchia, Vera si costrinse a respirare lentamente. Doveva pensare, non poteva permettersi di lasciarsi paralizzare di nuovo dal terrore.
«Sono in cima ad una torre» mormorò a fatica.

“Una torre d’avorio e fuoco” le suggerì la sua memoria ripescando il sospiro che l’aveva svegliata. Vera aggrottò la fronte perplessa: più che una voce esterna, sembrava provenire dalla sua stessa mente. Pensieri. Reminiscenze forse. Scosse la testa e si costrinse ad affrontare un problema per volta.
La struttura era quasi impossibile da guardare: le pareti esterne erano lucide e brillavano di un bianco così candido che feriva lo sguardo. Inoltre, come improbabili rampicanti, fiamme cremisi si avvolgevano intorno alla torre, creando un ulteriore riverbero sulle pareti che, anche con un’attrezzatura adeguata, non avrebbero potuto essere scalate. Cerano delle finestre, lungo le pareti dell’edificio, ma sembrava che le fiamme si avvolgessero intorno alla struttura esterna deviando di proposito quei piccoli scorci. Era un pensiero assurdo, irrazionale, ma d’altronde la situazione stessa in cui si era improvvisamente risvegliata era fuori da qualunque ragionevolezza.

“Non posso aggirare la torre, ma ci sono delle finestre” ragionò alzandosi in piedi “ci dev’essere un passaggio da qualche parte”.
Sferzata dal vento caldo, la ragazza iniziò a scandagliare la copertura in cerca di una via di fuga e la trovò: una botola mimetizzata con i blocchi di pietra era a qualche passo da lei. Avrebbe potuto trovare l’uscita della torre e finalmente essere davvero libera… oppure sarebbe rimasta lì, ferma, in attesa che qualcuno la salvasse. D’altronde la barriera la proteggeva dal fumo e, per quanto l’aria fosse calda e pesante, non sarebbe morta soffocata. L’unica pecca era quel vento maledetto che senza preavviso l’aggrediva, quasi cercasse volontariamente di farla crollare in ginocchio.
Poteva urlare, chiedere aiuto. Qualcuno forse l’avrebbe sentita, o forse no, perché Vera era isolata, ai confini del mondo, in una bolla che, si rese conto in quel momento, impediva anche ai suoni di raggiungerla. Non avvertiva infatti il crepitare delle fiamme, né il ruggito del vento, e se lei non riusciva a sentire l’esterno, come poteva sperare che qualcuno udisse le sue grida?
Strinse i pugni, conficcandosi le unghie nella pelle e serrando gli occhi. Quali erano le sue scelte? Poteva restare lì, senza acqua né cibo, lasciandosi morire lentamente, ma inesorabilmente. Oppure poteva spalancare quella botola e iniziare un viaggio verso l’ignoto.
Si avvicinò a quell’unico passaggio e l’aprì. Sembrava un abisso senza fondo. Oltre alle tenebre più scure, Vera non riuscì a scorgere nulla e il suo cuore ricominciò a battere furiosamente. Cosa sarebbe successo se si fosse calata tra quelle ombre? Non voleva provare dolore, non l’avrebbe sopportato.
Non di nuovo.

Sollevò lo sguardo in cerca di un’altra alternativa. Vera s’immaginò alzarsi in piedi e dirigersi calma e composta verso il bordo. A quel punto le sarebbe bastato solo un altro passo o magari una spinta da parte di quel vento che tanto la odiava e poi sarebbe caduta.
No, si sarebbe lasciata cadere.
Probabilmente sarebbe morta sul colpo, forse neanche avrebbe provato dolore. Sarebbe scappata da tutto quell’odio, dalla paura e da quel dolore che laceravano il suo povero cuore.
Vera si alzò in piedi e guardò verso il cielo. Chiuse gli occhi e, in quell’istante, la voce maschile che l’aveva svegliata la raggiunse di nuovo.
“Dammi la mano”.
Un albero. Il cielo terso oltre le fronde. Una mano che si protende verso di lei. Un sorriso sincero.
Una lacrima, la prima, le sfuggì cogliendola di sorpresa. Scuotendo la testa scacciò il ricordo che aveva prepotentemente scavato attraverso la sua solitudine e finalmente decise. Trattenne il respiro e saltò.
Le ombre della botola l’avvolsero in un abbraccio.

Vera evitò per un soffio il fendente, ma nello spostarsi si avvicinò troppo alle scale: il piede mancò il gradino e il successivo impatto con la pietra le mozzò il respiro per un interminabile istante. Imprecò a denti stretti. Il Destino la odiava.
Dopo essersi calata nella botola si era ritrovata davanti ad una porta completamente ricoperta da scarabocchi colorati. Riconoscendo le mani che avevano dipinto quei ghirigori, Vera avrebbe voluto scomparire. Le era occorsa tutta la sua forza di volontà per avvolgere le dita intorno al pomello e fiondarsi all’esterno, dove era iniziato il vero inferno.
La torre era in realtà un dungeon su più livelli e, man mano che si avvicinava verso le fondamenta, le prove da superare diventavano sempre più ardue. Non c’era piano che non le lasciasse lividi o graffi, ma più che la sofferenza fisica era il suo cuore ad essere puntualmente massacrato. Ogni ostacolo era un esplicito riferimento a Lui. Persino la struttura stessa era un evidente rimando ai videogiochi che Lui amava tanto.
Dal quel giorno non riusciva neppure più a pronunciare il suo nome, ma da quando era iniziato il suo viaggio attraverso il dungeon tutti i ricordi e gli oggetti significativi del loro rapporto erano tornati a tormentarla: ad ogni singolo piano era stata sul punto di spezzarsi, ma a volte con la propria volontà e altre spronata da quella voce che, ne era certa, apparteneva a Lui, era sempre riuscita a superare quelle maledette prove.
Ciò per cui avevano litigato.
I segreti condivisi.
Il male volontario ed involontario.
I giochi inventati nei pomeriggi di noia.
Le fiabe che lui le raccontava prima di abbandonarsi ai sogni.

Tutto era tornato vivido e presente per costringerla a versare quelle lacrime che dal giorno della sua morte non aveva più liberato. Eppure era andata avanti, perché più si avvicinava all’uscita più riusciva chiaramente a sentire il suono della voce di suo fratello, scacciando così la paura di non riuscire più a rammentarne il tono. Quasi ebbra di quella effimera gioia, si era spinta oltre: oltre il dolore, la gioia e i ricordi.
Poi, era arrivata alle fondamenta.
Si era aspettata di dover affrontare l’ennesimo crudele indovinello o uno dei mostri che da bambini lei e suo fratello disegnavano quando avevano paura, ma non aveva trovato nulla di ciò.

Ancora sdraiata a terra con un dolore lancinante che dalla schiena si irradiava in tutto il corpo, Vera sollevò un poco il viso e posò lo sguardo sulla figura che, lentamente, si dirigeva verso di lei.
Era un ragazzo, con il viso coperto da una stoffa bianca a nascondergli i lineamenti. Le dita cineree erano serrate intorno ad una lancia dalle estremità acuminate, ricoperte di parole che apparivano e scomparivano in un battito di ciglia.
Ciò che non è mai stato detto.
Suo fratello la sovrastò e le puntò l’arma alla gola, quasi sfiorandole il viso con quel bendaggio funereo.
Vera aveva paura, non tanto della sua sorte, ma di quel volto nascosto come il giorno in cui era andata a dare l’ultimo saluto a suo fratello nella camera mortuaria. In quel momento Vera aveva incatenato le proprie emozioni, smettendo di piangere e di gridare, ma anche di pronunciare quel nome.
Inerme, tutto ciò che avrebbe dovuto dirgli le lacerò il cuore. Erano troppe le parole che ormai non l’avrebbero mai raggiunto e quel viso oscurato n’era la prova.
“I mostri fanno paura solo quando non li conosci. Se li vedi, puoi affrontarli”.
La voce di suo fratello le riempì l’anima e d’un tratto seppe cosa fare. Prima che il ragazzo le tagliasse la gola, Vera gli strappò il panno bianco dal viso urlando con quanto fiato le era rimasto: «Ti voglio bene Raffaele!»
Oltre il velo delle sue paure, il sorriso sincero e gli occhi verdi di suo fratello furono l’ultima cosa che vide.

Vera si svegliò in macchina. Seduta sul sedile posteriore dell’auto dei suoi genitori, le occorse qualche istante prima di riconnettere il puzzle della realtà. Stavano andando a vedere la casa nuova, ma la macchina si trovava ancora imbottigliata nel traffico.
La ragazza si sporse in avanti, richiamando l’attenzione dei genitori. Stava piangendo, ma il suo viso mostrava anche un timido sorriso.
Sapeva che, cercando di trasferirsi in una nuova abitazione lontano dalla sua città natale, sua madre e suo padre volevano soltanto evitare altro dolore, a lei e a loro stessi, ma andarsene non sarebbe stata la scelta giusta. Quella era soltanto una fuga.
Raffaele era coraggioso, lui non avrebbe voluto.
Tornando verso la sua vecchia casa piena di ricordi, Vera ripercorse mentalmente il sogno del dungeon e, con un sospiro divertito, pensò che quella poteva essere la trama di uno dei racconti di Raf.
La paura non era svanita, non del tutto, ma si sarebbe fatta coraggio. Finché il respiro non l’avesse abbandonata, avrebbe proseguito la sua vita a testa alta, continuando il suo viaggio anche per Raffaele.

 

Noemi Campopiano

 

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