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Duecento chili invisibili – Racconto di Veronica de Gregorio

Stamattina, prendendo il treno, ho pensato a Teresa. Come un altro paio di barboni, viveva al terminale della ferrovia della Circumvesuviana, vicino porta Nolana. La settimana scorsa, passando alla stazione non l’ho vista. Ho chiesto informazioni a un addetto alla biglietteria. Era mezzo assonnato e cazzeggiava con lo smartphone. Ha sbadigliato e, continuando a scorrere le notifiche sul cellulare, mi ha comunicato che se proprio ci tenevo, l’avrei trovata all’ossuario comunale. Stava lì già da una decina di giorni. L’avevano trovata all’alba, riversa a terra. Aveva gli occhi spalancati e l’espressione fissata in una smorfia di dolore. Non respirava. “Qualcuno ha avvertito il 118 e se la sono portata”, ha concluso, continuando a scorrere i post e a compiacersi dei like accumulati sotto una foto pubblicata su facebook. Ho sentito una morsa allo stomaco e il bisogno di piangere. Mi sono chiesta come abbiano fatto a caricarla sull’ ambulanza e a trovare una bara che la contenesse. Non avrà avuto neanche il funerale, ho pensato, come tutti i diseredati.

Teresa viveva tra quei binari da sempre, pensare di prendere un treno era pensare a lei. Era una donna monumentale. Duecento chili di carne invisibile e gonne dalla taglia incalcolabile, sotto le quali ballonzolavano due glutei giganteschi. Ti entrava nella vita senza chiederlo, imponendosi alla vista con un periplo fetido ed enorme, mostrando il culo e pisciando indifferente davanti agli occhi basiti dei passanti. Passava nello sguardo di un’umanità denigrante e perfetta, senza interesse. A una distanza sufficiente a ignorare la misericordia, aggirare la colpevolezza e a difendere un’idea d’impeccabilità di se stessi e del mondo. Lei non ci faceva caso. La gente scivolava nel castano dei suo occhi senza restarci. Stava al mondo restando altrove. L’osservava senza vederlo, con lo sguardo spento e perso nel vuoto, nascosta in mondi in cui entrava solo lei.

Una volta l’avvicinai. Le porsi un caffè caldo e un cornetto e provai a parlarle. Sgranò lo sguardo fissandomi smarrita. Interpretò il mio gesto come una minaccia. Si ritrasse, schiacciandosi in un angolo rimpicciolita. Mi fissava e affannava. Sembrava che il cuore le scoppiasse dal petto. Restò immoile. Era terrorizzata. Aveva lo sguardo arreso e il respiro corto e affannoso di un coniglio davanti alle fauci spalancate di un lupo affamato. Ritirai caffè e cornetto e mi allontanai. Liberatasi dallo spavento, si trascinò in direzione di un cortiletto attiguo alla stazione, cantilenando “Vai a lavorare, vai a lavorare. Non guardare signorina. Teresa piange da sola”. La gente la scansava. Sprigionava un puzzo insopportabile. Qualcuno arricciava la faccia in moto di disgusto. Lei continuava a strascinarsi in quella mastodontica forma inoffensiva. ” Non mi guardare, non mi guardare” “Piange da sola”. Mi tenni a distanza per non spaventarla e la seguii. M’appostai in modo da osservarla senza che se ne avvedesse.

Sapevo che si rifugiava in quel cortile fino all’orario di chiusura della stazione. Poi s’arrangiava sotto le sue pensiline esterne dove, stesa su un fianco e in compagnia di un paio di bottiglie di vino, osservava il mondo tagliato a metà del convulso andirivieni di gambe, scarpe, tacchi e ruote di trolley. Il personale della stazione la lasciava stare. Teresa, al di là di imprecazioni e bestemmie all’indirizzo di chissà quale immisericordioso Dio, non aveva fatto mai male a nessuno e quel cortile era soltanto il deposito dei rifiuti della stazione. Era la prima volta che lo sbirciavo. Sembrava una discarica. Vi era accumulato di tutto, bottiglie vuote, stracci, cenci lerci e appesantiti di vino e di piscio, rifiuti e incarti di cibi, vaschette per alimenti vuote e bisunte, buste di plastica contenenti le offerte della mensa dei poveri, una coperta malconcia e dal colore indefenibile per la sporcizia, un cuscino sottile e con le stessa incertezza cromatica. C’erano anche tre mele. Campeggiavano rosse e stridule su quel caos di sudiciume e di follia. Erano lucide, perfette, un tocco tondeggiante di bislacca normalità al centro della merda, dell’indifferenza e della pazzia. Stavano allineate su un muretto, come un dissonante richiamo decorativo alla perfezione su un mondo in rovina. Teresa le osservò. Lo fece a una certa distanza, quella sufficiente a stabilire alla sua logica imperscrutabile che avessero la posizione giusta. Soddisfatta della disamina, bofonchiò qualcosa lasciandosele alle spalle, insieme a quei calcoli improbabili.

Fece tre passi e s’arrestò. Muoveva la testa e lo sguardo in cerca di qualcosa. Si avvicinò al corrimano di una scala antincendio e, con entrambe le mani, vi si aggrappò. Il volto affaticato, l’affanno e il vistoso sollevamento del torace furono la sproporzionata misura dello sforzo immane che le impose un gesto così semplice. Restò un paio di minuti ferma in quella posizione, con l’espressione concentrata di chi, dovendo compiere un’impresa impossibile, chiami a raccolta tutte le sue forze. Riprese fiato e , valutando di essere ben salda al corrimano, si abbassò piano. Lo fece a più riprese, con la faccia rubizza per lo sforzo, scomponendo quell’azione in una lentissima successione di atti minuscoli. Sembravano pesanti fotogrammi di una pellicola. Dopo circa tre minuti, tutta quella carne in equilibrio trovò la posizione giusta per accovacciarsi. Un’ulteriore interminabile sequenza di movimenti concesse a Teresa di raggiungere il traguardo successivo. Con l’altra mano si alzò la gonna. Era enorme, a fiori e impiastricciata di avanzi grasso e di vino . Non indossava le mutande. Cosce colossali e violacee le nascondevano il sesso. Lanciò un rutto animalesco e divaricò le gambe. Liberò una pisciata memorabile. Sembrava il diluvio universale. Le scrosciò interminabile tra le cosce mastodontiche, rimbalzandole sul lercio delle ciabatte e dei piedi. Il risultato di tanta generosità vescicale fu una pozza paglierina e schiumosa accompagnata da un’esclamazione di soddisfazione. Incurante del piscio, pian piano allungò ogni singolo centimetro di tutto quel volume di grasso e di vita , prima della gamba destra poi di quella sinistra. Dopo una faticosa serie di manovre e uno sforzo che poteva calcolare soltanto lei, rilasciò i glutei ciclopici e si sedette. Indifferenti al fetore e al lerciume, un paio di passeri saltellavano festosi tra molliche e pezzetti di pane sparpagliati ai suoi piedi. Teresa seguiva il movimento di quelle creature minuscole, incuriosita e attenta. Dentro di sé successe qualcosa. Riverberò sul suo viso, animando quel faccione muto e inespressivo. Incanto e innocenza. Erano questo. Restituivano Teresa bambina. Ed era bellissima. Nuda, senza difese, sbocciata da una stratificata coltre di grasso. Così indifesa che la più innoffensiva delle cose, foss’anche la piuma incauta di un uccellino, avrebbe potuto ferirla. Se le avessi piantato un fucile sulla faccia, mi avrebbe guardata serena, sorridendomi, come se fossi un passero, accettando una sentenza di morte senza intenderla. Osservava quegli esserini affaccendati saltellarle tra i piedi, con occhi larghi e benevoli. Ipnotizzata, ne seguiva i movimenti con curiosità e stupore infantili. Sembrava felice. Una bambina di duecento chili, sola ed esposta alla vita e all’indifferenza del mondo, intenerita dalla vista di due passeri saltellanti intorno a una pozza d’urina.

Uno starnuto spaventò i volatili . Si dispersero cinguettando chiassosi. Teresa sobbalzò come se si fosse destata all’improvviso. Imbronciò le labbra. Intristita e delusa, seguì la loro traiettoria fino a che scomparvero nella lontananza. Blaterando qualcosa, dalla sua destra, si trascinò una delle innumerevoli buste di rifiuti che le facevano da margine. Vi infilò il faccione e le mani e ne disaminò il contenuto. Seguendo un criterio imperscrutabile, scartò e gettò all’aria un paio di panini dall’aspetto gommoso. Trattenne la testina di plastica gialla di una di quelle anatre che si usano per il bagnetto ai neonati e un tappo di sughero. Studiò quei trofei con attenzione, ne valutò chissà quale improbabile utilità e li dispose alla sua sinistra, poi rilasciò le braccia sulle gambe e inchiodò lo sguardo su un punto davanti a sè. Prese a a piovigginare. Teresa mugugnò qualcosa con un tono seccato. Dopo una decina di minuti e un’altra successione di fotogrammi in movimento, prelevò quelle idee di cuscino e di coperta alla sua destra. Si sistemò il cuscino sotto il capo. Con un ulteriore sforzo si avvoltolò nella coperta. Distese la sua enormità, schiacciandosi sull’asfalto bagnato, con gli occhi e i pensieri rivolti al vuoto.

Aveva una testa enorme, i capelli grigi e cortissimi. Tracce sparse di alopecia gliela denudavano in più punti, come la rogna sulla pelle di un cane. Dietro a sinistra, affiorava una grossa cicatrice. Teresa allungò un indice grasso e annerito e se la grattò. Qualcosa le catturò l’indice e l’attenzione. Erano formiche. Una fila lunghissima si liberò da una crepa nel muro. In pochi secondi circondarono le briciole che i passeri non avevano fatto in tempo a becchettare. Teresa si era seduta di nuovo, la coperta sulla testa. Le formiche, intanto, avevano invase le vaschette d’alluminio contenenti i rifiuti di cibo ricevute alla mensa dei poveri. Con un gesto rapido e timoroso, bucò l’ordine e la perfezione di quella operosa linea nera in movimento, penetrandola con il dito. Aspettava che uno di quei minuscoli insetti, che accettava malvolentieri la deviazione di un percorso codificato dalla natura, le finisse sul palmo della mano. Lo studiava scorrazzare disorientato, con il rigore di un entomologo. Seguiva l’insetto nell’atto di cercare vie di fuga in tutte le direzioni. Dopo un po’, come se fosse giunta al culmine di un ragionamento, faceva no con la testa e finiva la fromica schiacciandosela tra le unghie, come un pidocchio. Si diede a quel gioco per un paio di minuti. La pioggia cessò. Teresa si rialzò. Affrontò di nuovo la fatica incalcolabile che le costava muoversi. Trascinò tutto il suo peso e la sua vita verso l’interno della stazione. Pima di lasciare il cortile fece una pausa. Biascicò un lessico incomprensibile e si guardò in giro. Si appoggiò a un muro, e si abbassò. Marcò il suo territorio, come un cane, liberando un’altra epica pisciata che s’incanalò in un rivolo di pioggia. La lentezza con la quale si allontanò e la distanza alla quale ero rimasta mi offrirono l’opportunità di studiarle la cicatrice. Era un cordone violaceo, irrobustito da un bel po’ di punti di sutura. “Piange da sola. Piange da sola” cincischiava.

Mi domandai se quella testa fosse mai stata attraversata da una carezza, di che colore avesse i capelli, e se fossero ricci o lisci. Che volto e quanti sogni avesse la bambina affiorata alla vista di un passero, se avesse conosciuto il sorriso di sua madre. Teresa bambina. A guardarla così , ridotta come una bestia inselvatichita, sembrava che non lo fosse mai stata. Forse non era mai stata riconosciuta. Le era cresciuta dentro e si era nascosta sotto duecento chili per proteggersi. Fu l’ultima volta che la vidi. A quei duecento chili mancanti alla stazione nessuno farà caso.

Veronica de Gregorio

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