Sei qui: Home » Racconti » Dai, andiamo – Racconto di Francesco Porfiri

Dai, andiamo – Racconto di Francesco Porfiri

La vicina di ombrellone di quell’anno era una una giovane ragazza pallida e magra. Ma, per quanto non sprizzasse energia da tutti i pori, aveva uno sguardo veramente magnetico, profondissimo.
Immagino che mamma avesse ipotizzato che, più che solo timida, avesse invece qualcosa di strano, qualche malattia o giù di lì; infatti, quando a suo giudizio il mio sguardo aveva indugiato abbastanza su quella figura silente e misteriosa, sentii la nuca scompigliata da uno scappellotto inatteso.
Poi mamma mi mosse la rete dei giocattoli di Annalisa davanti agli occhi ed accennò col mento in maniera decisa.
Da bravo fratellone maggiore, tolsi la rete di plastica dalle mani di Annalisa e iniziai a tirarne fuori formine e palette.
La mia sorellina sorrise per quall’aiuto inaspettato e iniziò a disporle secondo uno schema a me ignoto, ma a lei evidentemente chiarissimo.
Provai a guardare ancora verso l’ombrellone accanto e lei, la ragazzina, era ancora immobile, seduta all’ombra e misteriosissima nel suo costume rosa pallido.
Mamma mi incremo’ come un supplì prima del pangrattato ed io mi vergognai parecchio di quel trattamento non più consono alla mia età; ero di certo in grado di farlo da solo anche se, lo confesso, non lo avrei messo in pratica se non sotto la solita minaccia del mancato bagno.
Quanto più mi urtava di quella procedura era la crema che ti restava fra le dita delle mani e che attirava la sabbia per ore.

Poco dopo, procedura conclusa anche sulla sorellina, presi per mano Annalisa e mi diressi verso la battigia a mettere su il solito castello di sabbia, legnetti, alghe e conchiglie.
Se ci fosse stato papà avremmo potuto fare un vulcano fumante, ma le sue ferie erano sarebbero iniziate solo la settimana successiva….

La giovane vicina, a cui la sua mamma aveva riservato il medesimo trattamento dermatologico protettivo, ci aveva regalato solo uno sguardo sfuggente e non sembrava interessata a noi più di tanto.
Mi era parso che anche la mia di mamma sorridesse esplicitamente alla sua corrispondente, come per avviare una qualche conservazione, ma per ora senza esito se non un sorriso dolce ma silenzioso.

Tornando dal castello che era stato regolarmente costruito e poi abbattuto con palle di sabbia, Annalisa e io riempimmo tre secchielli di acqua per impastare proprio sotto l’ombrellone. Questa cosa si poteva fare solo se desiderio di Annalisa, che era considerata ancora piccolina e le si passava pressoché tutto; se la avessi invece voluta fare io, che ero indubbiamente più tecnico, niente da fare. Certe cose si acquisiscono con l’età, altre spariscono all’improvviso dalle tue possibilità. Mah!

Era quasi mezzogiorno e faceva proprio un gran caldo, così avevo la testa china e mi guardavo i piedi mentre tornavo verso le sdraio. Inciampai su un granello traditore e versai i due secchielli pieni d’acqua che trasportavo.
Uno, il destro, sui piedi di mamma, l’altro su quelli della misteriosa vicina.
Aprì la bocca stupita da quell’ondata di fresco ma non ne uscì alcun suono.
Poi la richiuse e tornò nella sua posizione statuaria da faraone egizio, assiso su un immaginario trono. Me la immaginavo quasi con quella specie di due strani scettri che avevo visto sulle figure del libro di storia.

Abbozzai bofonchiando: – Scusa, non volevo. Sono inciampato.
Silenzio.
– Vuoi che ti aiuti ad asciugarti? – magari aveva qualche problema a muoversi.
Silenzio, ancora. Ma mi guardò e poi con lentezza prese l’asciugamano e si strofinò sommariamente le gambe ed i piedi.
Null’altro.
Nemmeno, però, uno sguardo di irritazione o un impercettibile moto di stizza.
La giornata passò pigra con qualche ulteriore e sempre più incerto tentativo di aggancio della vicina. Solo ipotesi comunque, senza esito alcuno.
Il saldo finale fu due o tre occhiate e un quarto di sorriso, così almeno avevo interpretato quel lieve muoversi di labbra esangui.

Il giorno successivo, per tutta la mattina, più o meno stessa sequenza di non avvenimenti.
Ma verso mezzogiorno la sua mamma invitò la mia per un caffè e si allontanarono verso il chiosco del bar, ciocciando come solo le mamme sanno fare.
A quel punto, mentre Annalisa era completamente presa nel pettinare un cavallo dalla criniera impossibilmente lunga e bionda, mi tirai in piedi e mi piantai a gambe larghe davanti alla vicina.

– Ti va di andare a riva a raccogliere le conchiglie? Ce ne sono di bellissime, se sai come cercarle.
Silenzio, ma mi guardava.
A undici anni non ero esperto di standard estetici, ma a me pareva bella.
– Oppure potremmo fare due salti sui tappeti elastici.
Ancora nessuna risposta.
– Dài, allora ti porto vedere la medusa che hanno trovato stamattina sulla riva. – e feci il gesto di allungare una mano come per invitarla.
Allora lei sbuffo’ alzandosi e, dopo aver frugato un po’ nella borsa della mamma appesa sotto l’ombrellone, ne trasse un libretto e una matita.
Aveva una calligrafia perfetta, sembrava una stampa.

– Non posso parlare con te, sono muta.
Dentro di me esplose come una bomba di felicità. Non che gioissi della sua menomazione, certo! Ma se era solo quello il blocco…… si poteva superare.

Allora, mentre stava per riporre il libretto convinta di aver chiuso definitivamente la questione, glielo presi dalle mani e scrissi.
– E che problema c’è?
Mantenendo il libretto e la matita nella mano sinistra e mentre lei fissava stupita il mio gesto e la mia faccia riempita da un sorriso (che immagino) ebete, allungai la destra e mi tolsi prima l’uno e poi l’altro apparecchio acustico da dietro alle orecchie; li spensi appoggiandoli sul ripianetto dell’ombrellone, senza troppa cura. Avevo fretta e senza parole si comunica prima, talvolta anche meglio!

Scrissi, quasi in geroglifico, tanto ero emozionato: – Adesso io sono sordo. Dài, andiamo!

Se fosse stato un film ora saremmo sposati, invece io e Federica quell’anno siamo diventati solo grandi amici; abbiamo passato l’estate (e le successive) a fare un vero baccano silenzioso per tutta la spiaggia, poi fatto gli esercizi di fonazione che lei tanto detestava e abbiamo pure scritto insieme sul suo libretto un piccolo racconto, questo.

 

Francesco Porfiri

 

 

 

 

 

 

© Riproduzione Riservata