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Canità – Racconto di Daniela Garofalo

E allora prenditi un cane, no?
-Smettila di dire stupidaggini! Anche Rebecca diceva così, prendiamoci un cane dai prendiamoci un cane, così siamo veramente una famiglia!

Capisci? Una famiglia grazie a un cane e senza cos’eravamo?
-Una coppia?
-Ecco, diceva la stessa cosa! Ma siete impazziti? E allora un figlio?
-Voi non ne volevate.
-Appunto! I cani si prendono per i figli. Prima i figli poi il cane. Così si può parlare di famiglia. Altrimenti si è una coppia lo stesso ma con il cane.
Ricordava quella conversazione con il suo amico storico Gino, compagno di scuola fin dall’asilo, mentre abbaiava con Giova. Quanto tempo era passato, due anni? La sua vita era ormai trasformata.
Rebecca l’aveva lasciato proprio due anni fa, per lui era stato un trauma. Non l’amava più, semplice. Ma perché era così difficile ammetterlo? Lei trovava mille pretesti e lui le credeva ciecamente, poi, non pago ne inventava altri, soprattutto la sera mentre guardava un film alla tv di quelli che piacevano ad entrambi “sì, è proprio così, come ho fatto a non capirlo subito? Solo che lei non vuole ammetterlo!” Che non l’amasse era un pensiero lontano. Ma nemmeno lontano, informulabile.

Alla fine se n’era andata. Di notte come un cane. Come un ladro. Come un traditore. Insomma era fuggita via da lui. Aveva fatto una valigia ed era scappata, di lei era rimasta una lettera che non spiegava niente. Belle parole dal contenuto indecifrabile. E lui non riusciva a crederci. Riteneva fosse impossibile non vederla più girare per casa e che senz’altro il giorno dopo sarebbe tornata. Dove sarebbe andata senza di lui? Che cosa avrebbe fatto senza di lei? Ma ogni giorno successivo non la vedeva tornare, la casa era sempre più vuota e silenziosa. Che si aspettava? Che aprisse la porta come sempre e che posasse la borsa sulla poltroncina nell’ingresso. Invece quella scena quotidiana di cui verificava l’assenza ogni pomeriggio alla stessa ora, non si ripeteva da tempo. Trascorsero settimane e mesi alla fine capì che Rebecca non sarebbe tornata ma non capiva perché avrebbe dovuto smettere di telefonarle. Poi Rebecca cambiò numero di telefono e lui ripiegò su Gino fino a stancare anche lui.
Era cominciato tutto con i cani. Insieme avevano notato il proliferarne nel quartiere, poi nella città, poi tra gli amici. E avevano riso, trovato spiegazioni psico-sociali, inventato soprannomi e barzellette. I cani però continuavano la loro ascesa con distratta celerità.
Ne incontravano ovunque andassero, dietro ogni portone ma anche avanti ad ogni portone, su tutti i percorsi e i corsi, negli anfratti bui e luminosi, ogni volta che svoltavano l’angolo scommettevano sul numero di cani che avrebbero incontrato.

All’inizio notarono che su dieci persone incontrate almeno una aveva il cane, poi le persone diventarono una ogni sette, poi ogni cinque, poi ogni due. Una persecuzione. Nacquero locali cani-friendly, cinema cani-friendly, ristoranti cani-friendly, spiagge cani-friendly. E loro avevano cominciato a detestarli, a evitare i posti, i negozi, i vicini.
Iniziarono i conflitti con tutti, Rebecca un giorno aveva detto alla sua amica Vanessa:
-ti fa stare bene perché accetta di tutto e in cambio gli dai solo di una ciotola di crocchette e un tetto sulla testa.
-mi segue ovunque, mi vuole bene, è affettuoso; sarebbe un perfetto fidanzato.
-eh già, non ti muove critiche, non ti costringe a motivare le tue azioni, non ti fa notare le tue mancanze, non ti chiede nemmeno di evitare lo shopping compulsivo. Però non ti fa ridere, non ti racconta nulla, non ti porta a cena, non è in grado di darti un consiglio!
-giusto, esattamente come Giorgio. Non mi faceva ridere, non mi raccontava nulla e non era in grado di darmi un consiglio, uno, che fosse veramente efficace. Lui almeno mi ascolta con attenzione. Giorgio appena cominciavo a parlare alzava il volume al televisore.
Rebecca rise.
-i cani non ci riescono altrimenti ci proverebbe anche lui, conosco i tuoi monologhi- anche Vanessa rise con lei.
-Non lo so, evita di fare commenti ma anche di zittirmi. Credimi è la migliore soluzione alla solitudine. Se ne hai voglia gli fai due coccole, se hai da fare lo ignori.
-però devi portarlo fuori con il freddo, la pioggia o il sole cocente
-così sono costretta a fare un po’ di moto, che non guasta mai.
-sembri davvero convinta. Io non potrei mai abituarmi, mi sembra la pantomima di un rapporto che nella realtà è solo la materializzazione di un’assenza.
Vanessa zittì. Era stata al gioco ma poi l’osservazione di Rebecca le sembrò spietata. Non riuscì a controbattere, cambiò argomento e in breve la liquidò. I loro rapporti diventarono sporadici, l’incomprensione derivata da una diversa percezione del legame affettivo con il suo fido compagno, aveva fatto sì che Vanessa si allontanasse da lei.

Anche con Giulia c’erano state difficoltà di comunicazione e il tema era sempre lo stesso.
-comodo avere una specie di figlio che non ti crea problemi, se devi uscire non hai bisogno di chiamare la baby-sitter.
-io un figlio l’avrei voluto lo sai, ma poi gli incontri sbagliati, il tempo che avanza, ti ritrovi single e adulta e senza un affetto, vero tesoro di mammina?
-mammina? ma non eri tu quella che riteneva preoccupante umanizzare gli animali?
-si dicono tante cose, poi quando ti trovi a viverle ti accorgi che è tutto diverso da come lo immaginavi, lasciamela coccolare, questa piccolina è un amore.
-non ti riconosco, ma ti vedi, ti ascolti? Avresti potuto prendere un bambino in adozione o almeno in affido.
-un bambino? Tu non sai quanto sia difficile comprenderli ed essere compresa. Ti ricordi i figli di Luca? Io con loro non riuscivo a parlare, troppe domande, troppe esigenze, rapporti conflittuali con i compagni, fidanzati che sfuggono, innamoramenti sofferti, devono fare le vacanze, essere aiutati a studiare, indirizzati nella vita. È stato anche per loro che tra me e Luca è andata come è andata. O forse solo per loro. Luca non aveva mai tempo per me.
– è comprensibile, tre matrimoni e sei figli!
-Invece stellina mia sta qui, vicino a me e mi lecca.
-che schifo!
-mi ascolta, mi guarda adorante e io devo solo darle da mangiare e da bere!
-e portarla fuori qualunque sia la condizione del clima, dal gelo profondo al caldo soffocante. –Rebecca era esasperata, per lei dover fare qualcosa per forza, avere un obbligo, era un attentato alla sua libertà di scelta. Non poteva sopportarlo.
-che importa? È un ottimo rimedio alla pigrizia, mi costringe a fare un po’ di moto. Lo sai che grazie a lei ho perso un chilo?
-che donna fortunata- esclamò sarcastica Rebecca.
-però ho deciso di farle un piccolo bagno così quando proprio il clima è sfavorevole anche lei può avere il suo spazio. È giusto, se lo merita. Non bisogna essere egoisti solo perché loro non sono capaci di esprimere i propri bisogni.
-ho capito bene: vuoi costruire una stanza da bagno per il cane? – Rebecca era inorridita e Giulia s’innervosì.
-ha un nome, si chiama stellina! Tu sei proprio fredda e anaffettiva.
-io? Io condivido il mio spazio con una persona; sono attenta ai suoi bisogni e Marco ai miei, ho scambi intellettuali e a volte dei litigi sì, ma è un confronto che mi consente di mettere in discussione me stessa e non a sentirmi il deus ex machina e io sarei quella anaffettiva? Io devo ogni volta contrattare le mie scelte e questo scambio mi arricchisce e mi riempie. Facile amare chi non ti contraddice mai, chi sta lì in attesa della sua brava ciotolina e non ti obbliga a guardarti dentro.
Da allora anche con Giulia i contatti diradarono. Marco e Rebecca persero molti altri amici ma non demorsero. La vita in un mondo a prevalenza canina però diventava difficile. I cani erano ammessi ovunque e perfino andare a un concerto di musica classica -ma anche a teatro o a cinema- diventava una seccatura, i cani abbaiavano ma nessuno osava zittirli. Guai però se ti scappava un colpo di tosse o uno starnuto; occhiate feroci sembravano volerti incenerire.
Poi Rebecca aveva ceduto. Voleva essere come gli altri. Voleva stare con gli altri e comunicare con gli altri, condividere pensieri, esigenze e preoccupazioni. Le procurava una crescente sofferenza la solitudine cui si erano involontariamente costretti. Non era stata una scelta felice né razionale, si erano improvvisamente scoperti isolati e ciò le provocava dolore. Perfino le rispettive famiglie sembravano averli allontanati.
Lui invece no. Era fiero di sentirsi diverso e voleva continuare ad esserlo. Ed era felice di quella complicità che sembrava legarlo in maniera più forte alla sua donna. Marco non voleva prendere un cane, nel silenzio del proprio animo li aveva sempre guardati con sospetto, aveva scelto Rebecca anche perché lei mostrava un’indifferenza confortante. Gli sembrava che insieme fossero l’ultimo baluardo a protezione di una sana umanità, attribuiva a loro stessi un ruolo sociale, rappresentavano l’approdo indispensabile per una società rinsavita. Finché avessero tenuto duro prima o poi anche gli altri sarebbero tornati alla vita di sempre, una vita normale dove senza cani si poteva vivere bene come senza figli. Invece Rebecca prima distrattamente poi con incisività sempre maggiore disse che avrebbe voluto prendere un cane, che ormai erano soli da troppo tempo, che un cane sarebbe stata una compagnia per entrambi e che forse, dopo aver provato ad avere un cane avrebbero potuto avere dei figli. Insomma sarebbe stata una sorta di “prova di famiglia” per capire se erano capaci di progredire nel loro rapporto o se era giunto il momento di fare scelte diverse.

Marco fu ostile alle sue proposte, avevano deciso di comune accordo di non avere figli e non capiva questo cambiamento radicale in Rebecca. Lei però non aveva dubbi, esprimeva la sua nuova volontà con una semplicità sconcertante, come se fosse stata sempre quella la sua scelta prioritaria. Così una mattina come tante Marco si svegliò e trovò sul cuscino di Rebecca la già citata lettera, ambigua e incomprensibile.
L’abbandono di Rebecca aveva significato la fine delle speranze. L’umanità si “canizzava” e da solo non era certo di riuscire a farla guarire perciò avrebbe dovuto accrescere il suo impegno nella lotta per salvare l’umanità dalla trappola dell’amor canino, dal rischio di perdere quanto ottenuto nel processo di civilizzazione.
Il progresso scientifico e tecnologico, il pensiero filosofico, l’evoluzione raggiunta nei secoli con enormi sacrifici e attraverso percorsi di sofferenze indicibili per tanti individui -il cui martirio fu spontaneo talvolta, ma altre invece costretto- avevano contribuito al raggiungimento di un livello di benessere elevato, una qualità della vita gratificante. Eppure tutto ciò che era stato conquistato, gli agi, le comodità, la libertà di scelta, rischiava di vanificarsi. Sembrava che la civiltà, giunta all’apice del suo massimo potenziale potesse soltanto ripiegare su se stessa e implodere, per ridursi ad una civiltà canina. Immaginava scenari apocalittici dove i cani regnavano. Dove gli esseri umani dipendevano da quegli stessi animali che un tempo avevano addestrato. Vedeva uomini costretti -forse anche con gioia ma ciò non rendeva meno grave tale eventualità- a riportare l’osso ai propri cani agitando una coda che sicuramente sarebbe apparsa ad ognuno a seguito dell’in-evitabile in-voluzione della specie, sperando di ricevere come compenso un pezzetto di pane, cibo che si figurava sempre più prezioso perché nessun essere umano sarebbe stato ancora in grado di cucinare, ne avrebbero perso le capacità in una regressione animale ma non sarebbero stati i cani, in compenso, a raggiungere le stesse abilità. L’evoluzione della specie aveva già mostrato che i cani non hanno le potenzialità dell’essere umano per realizzare una civiltà progredita. Il mondo, perciò, sarebbe tornato ad una preistoria irreversibile e chissà se da quella un’altra civiltà sarebbe mai potuta sorgere.

E mentre le sue giornate si riempivano di timori che gli venivano costantemente confermati da chi lo circondava, colleghi di lavoro, vicini, negozianti, persone con le quali si relazionava brevemente e che sembravano avere interesse esclusivamente per i loro animali, prese ad uscire solo per motivi improcrastinabili, il lavoro o le provviste di spesa alimentare.
S’impose di dedicarsi esclusivamente alla lettura di libri, quella dei classici naturalmente o alla visione di vecchi film perchè solo nell’arte del passato poteva ritrovare una civiltà pre-canina quella che, si augurava, sarebbe riuscita a conservare il predominio del mondo conosciuto; così avrebbe potuto mantenerne intatta la cognizione.
Durante una di quelle rare uscite accadde.
Camminava da solo come sempre, finché Giova non gli si mise dietro e prese a seguirlo. Non se ne accorse subito. Intanto vide un amico al marciapiede di fronte, “Ehi Giova” ma quello non rispose, sicuramente aveva parlato sottovoce pensò, sapendo invece che anche con lui i rapporti non erano quelli di una volta. Giova(nni) aveva tre cani al seguito senza guinzaglio e rideva con loro come se potessero capire le sue battute. Sembrava allegro e a suo agio, finalmente qualcuno che ridesse a quelle facezie scontate e insulse che si ostinava a raccontare e alle quali chi rideva lo faceva solo per gentilezza. Giova era un bravissimo magistrato, serio e competente ma soprattutto incorruttibile. Amava divertire ed era convinto di riuscire a farlo, nessuno aveva mai osato tentare di dissuaderlo. I suoi cani saltellanti lo convincevano ancor di più della forza della sua vis comica.

Perciò Giova non aveva risposto al suo saluto. Ma lui, che seguiva Marco da un po’ l’aveva sentito e subito aveva abbaiato. Finalmente si era sentito considerato. Marco però non si era accorto di questa presenza accanto a lui, solo un passo indietro. Entrò dal barbiere e quello fu insolitamente gentile, lo accolse con un caloroso sorriso:
-Finalmente ti sei deciso?
-eh sì, sono cresciuti un po’ troppo. – rispose Marco e non capì che il barbiere non si riferiva ai capelli.
-adesso facciamo un bel taglio e una maschera rigenerante, i tuoi capelli sono sciupati.
-grazie – rispose perplesso. Tanta gentilezza lo stupiva. E poi lo sentì. Il cane che l’aveva seguito fino ad allora abbaiò di nuovo.
-è proprio delizioso– Stava per rispondere:
-non è con me, non è mio- ma il barbiere con un sorriso ebete lo fece entrare in un vano accanto dove c’erano tanti cani, quelli dei clienti e dei suoi collaboratori. Molti esercizi commerciali aveva creato uno spazio dedicato a loro perché si facessero compagnia mentre i padroni erano impegnati.
L’accoglienza insolitamente calorosa lo indusse a tacere, il barbiere, che da un po’ di tempo aveva smesso di essere cordiale gli offrì addirittura il caffè. Quel pomeriggio rivisse la piacevole sensazione della convivialità e provò un insolito piacere dal quale si lasciò travolgere, si trattenne tutto il pomeriggio pur avendo finito i trattamenti.
Fu solo l’imbrunire a scuoterlo, si accingeva ad andare via dimentico del cane ma il barbiere subito lo chiamò e lui finse di sorridere.
Camminare con quel cane sconosciuto lo faceva sentire a disagio “e adesso mica vorrà venire a casa mia? Che faccio, lo lascio giù al portone?”
Inaspettatamente i vicini incontrati per strada presero a salutarlo, chi con un sorriso chi addirittura con parole gentili. Marco era stranito e sempre più indeciso. Si chiedeva da dove fosse arrivato questo cane solitario in un mondo dove i randagi non esistevano più da tempo perchè venivano accolti prontamente nelle case dei nuovi padroni.

Gli sembrò di sentire la storia di Giova, la percepì o forse lui gliela stava raccontando.
Giova viveva in una famiglia con tre bambini, un fratello una sorella e un cugino che stava sempre con loro. I bambini erano affettuosi amavano portarlo al mare e vederlo nuotare ma lui non gradiva immergersi e annaspare. Era una natura pigra, invece loro, per quanto simpatici, avevano sempre un gioco troppo dinamico da imporgli. Scappò di notte e trascorse molti giorni evitando di farsi notare, sapeva di non poter godere a lungo della libertà se qualcuno l’avesse adocchiato. Osservava il mondo di nascosto aspettando l’occasione migliore. Non comunicava con i suoi simili perchè avrebbero tentato di convincerlo a trovare un padrone, erano tutti molto soddisfatti e gratificati dall’accoglienza degli esseri umani.
Dopo alcuni giorni vide Marco. Era solo anche lui, libero. Lo studiò, non sembrava una persona invadente e se fosse riuscito a farsi accogliere era certo che l’avrebbe lasciato in pace.
Dal canto suo Marco si era accorto di non desiderare essere ancora bersaglio dell’indifferenza delle persone, capì che si era immalinconito, che aveva smesso di essere allegro, si accorse di non ridere da un tempo che gli sembrò infinito. Com’era bello essere di nuovo parte della comunità umana!
Pensò che avrebbe dovuto accettarlo nella sua vita malgrado una piccola resistenza ancora lo costringesse ad esitare. Rinunciare alla sua lotta era difficile e mentre pensava di non dover cedere alle lusinghe di una ritrovata comunione con l’umanità, avvertiva una spinta interiore a non ricadere nel buio della solitudine e dei silenzi.
Aprì il portone di casa e ancora si poneva queste domande, intanto il cane s’insinuò mentre la sua affascinante vicina uscendo gli regalò un sorriso inaspettato, ovviamente aveva un cane e i due animali legarono subito. Era bellissima e Marco aveva fantasticato molto su di lei che, invece, non lo salutava mai.
-come sono carini insieme! Sembrano già in confidenza come se si conoscessero da sempre, dobbiamo farli incontrare ancora e chissà, magari ci daranno dei nipotini.
-Giusto! Dobbiamo uscire in quattro- disse lui -intendiamo invitarvi a cena anche stasera, vero Giova?- risero entrambi.

I dubbi si spensero all’istante e Marco decise di accettarlo nella sua vita. Pose fine alla battaglia e fu reintegrato nel suo mondo, gli amici tornarono a sorridergli e ad invitarlo alle feste. Sempre insieme a Giova, naturalmente. Era lui il lasciapassare per la convivenza pacifica con gli altri esseri umani.
L’aveva chiamato Giova perché lui aveva voluto così, a quel nome si girava sempre e abbaiava felice e scodinzolante. Era lo stesso nome del suo amico magistrato, il primo che aveva pronunciato il giorno che si erano incontrati e questo gli sembrò molto romantico. Ormai non pensava più a Rebecca né si aspettava un suo ritorno, non aveva bisogno di lei, non aveva bisogno di nessuno. Il sesso? Non era un problema, aveva incontri occasionali con donne conosciute grazie a Giova, al parco, per strada o agli eventi cui partecipava. Spesso lo portava ai locali per cani, ristoranti dove mangiavano tutti insieme serviti da affettuosi camerieri. I proprietari rimanevano fuori ad aspettare o ne approfittavano per curare adempimenti impellenti e poi tornavano a prenderli. Erano sempre i cani i primi a familiarizzare e di conseguenza gli umani si trovavano a comunicare. Poi si accoppiavano mentre anche i loro cuccioli soddisfacevano i propri istinti.
Le coppie non convivevano più, i matrimoni erano rari; il mito della coppia e della famiglia impallidiva. Solo sporadicamente s’incontravano nuclei familiari grazie ai quali la continuità della specie umana era garantita.
Ognuno conviveva con il proprio cane ed era appagato.
-Eh, Giova? È stato davvero un incontro propizio il nostro, come hai fatto a capire che stavo così male se nemmeno io lo sapevo? Tu sei proprio fantastico, Giova. Che farei senza di te! Adesso però vieni qua e proviamoci ancora. Ecco metti la mano qui. Qui sul collo, ecco, senti? Senti cosa succede quando parlo? Dai provaci, ci puoi riuscire! Io ho imparato ad abbaiare, no? E allora anche tu puoi imparare a parlare, sei così intelligente! Ok lo dico nella tua lingua, arf, arf, bau, bau, arfbau bauarf, arfsgrbau, sgrbau, bababau

La traduzione più o meno letterale, si sa il linguaggio dei cani è molto più asciutto e conciso di quello umano, è la seguente:
-devi imparare a parlare come noi, il cane di Gino ci riesce perché tu no? Non posso abbaiare sempre! Ok, d’accordo forse Gino esagera, forse non era il cane che ha parlato al telefono ma lui, lo conosco bene deve sempre lasciar credere di avere il meglio. Ok con te abbaio visto che è l’unico modo per comunicare in maniera soddisfacente. In fondo anche i miei amici hanno imparato la vostra lingua, non c’è nulla di male visto che noi siamo più duttili, non ti offendere ma questo dipende dal fatto che siamo più evoluti. Però ogni tanto devi consentirmi di utilizzare il mio linguaggio altrimenti rischio di dimenticarlo, a volte parlo in “canese” anche con gli amici. Si è vero loro mi capiscono ma sai per tante cose è ancora necessario parlare piuttosto che abbaiare, devi essere comprensivo figlio mio!
-Arf grrr bababau agrfss arfaub grgrgrgr arfarfarbau – rispose Giova
-Bababau arfarf grrrrgrgr bauarf – disse Marco
Il contenuto del dialogo era più o meno questo:
-grazie per i complimenti ma preferisco il mio linguaggio, siete voi quelli progrediti a noi basta poco. Vorrei solo stare tranquillo e riposare. Non posso stressarmi (non usò proprio questo termine poiché il concetto non appartiene all’esperienza canina) vorrei solo fare un pisolino ogni tanto. Non ti basta che faccio la guardia alla casa?
-Ti capisco Giova, hai ragione tu. Dimmi di cosa hai bisogno, il mio piacere è renderti felice come tu hai reso felice me. Stai tranquillo e riposa, penso a tutto io. Vuoi che ti riporti l’osso che hai nascosto nel parco?

 

Daniela Garofalo

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