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Attenti al cappone – di Marcella Nardi

Lampi, tuoni e pioggia non davano tregua all’antico e ricco borgo, un tempo chiamato Vicus Mercati.
Una carrozza attraversò il Ponte di San Rocco e si diresse verso palazzo Borella. Quando si fermò dinanzi all’ingresso, Galdino uscì da sotto l’androne per aiutare una giovane donna, pronta a scendere. Le porse la mano e, per qualche istante, non riuscì a proferir parola. Era stupefatto: vesti sporche e sgualcite, volto rigato di lacrime. Non era colei che s’aspettava. «Siete Lucilla, la figlia di Rufino il bracciante, vero?» le chiese.
«Sì, sono io, signore». Che strano, meditò Galdino. Rufino aveva la fama di essere il bracciante più ricco del contado e di non passarsela male. Quella donna pareva, invece, un’accattona che, subito dopo aggiunse: «Sono stata strappata da casa con la forza, ma farò quanto mi è stato ordinato. Devo proteggere la mia famiglia». Speriamo in bene, pensò il maggiordomo Galdino. «Vi accompagno dalla governante. Vi darà vesti asciutte e un grembiule mondato».
Le fece strada entrando da un ingresso secondario. Raggiunta la stanza della governante, l’uomo salutò e scomparve. La donna squadrò la giovane come se fosse un’appestata. «Buon Dio, ragazza! Non puoi presentarti al nostro capocuoco in queste condizioni».
La giovane si lavò e, dopo aver indossato l’uniforme e un’immacolata cuffia da cuoca, non riuscì a credere che l’immagine riflessa sul vetro della finestra fosse la sua. Poi, attraversando un breve camminamento sotterraneo, giunsero alle cucine. Una porta di ferro cigolante spalancò gli odori speziati dello stanzone.
Lucilla rimase a bocca aperta. Un grande camino centrale regalava una fluttuante luce arancione che riempiva, a ogni fiammata, le fessure tra i laterizi rosati. Alcuni scalini di cocciopesto facevano da base al focolare. Dopo aver spinto la ragazza dentro la cucina, la governante si rivolse al cuoco: «Mastro Goffredo, ecco Lucilla, la vostra nuova aiutante. Se non si comporterà a dovere, riferitemelo» e, con passo deciso, si girò e scomparve.
Rimasti soli, timidamente Lucilla chiese: «Perdonate, signore, ma come potrò ben servirvi se ho sempre cucinato solo pasti modesti per la mia famiglia?» e abbassò il volto.
«Dovrete semplicemente eseguire i miei ordini» e le mostrò gli arnesi del suo nobile mestiere: vasellami, padelle ramate, leccarde, bacinelle, calderoni, mortai, mestoli e coltellacci.
«Vedrete come s’incalliranno le vostre tenere manine a tritar carni e sminuzzar spezie. Qui non siete più nei campi, ricordatevelo. Domani il Conte avrà venti ospiti della ricca nobiltà lombarda. Dovremo preparare anche tre capponi farciti. Eccoli lì in fondo» e Lucilla vide una gabbia arrugginita da dove crocchiavano i tre volatili in attesa di incontrare il calderone ormai ripulito.
«Bene, vediamo che sapete fare. Prendetene uno».
«Devo ucciderlo?»
«E cosa volete farci? Giocare a mosca cieca? Prendetelo. Basterà uno strappo secco per staccargli l’osso del collo». Poi aggiunse: «Dai recipienti di pietra della neviera recupererete delle carni essiccate di vitella, di capretto e infine del pollame. Il cappone invece lo cucineremo oggi. Lo preparerete con del miele, aceto, vino e agrumi, ottenendo una salsa magra agrodolce. Poi, partirete con le spezie: noce moscata, cannella e pepe. Macinerete le erbe che vi indicherò. Penserò al dolce tra un po’».
Sognando già gli avanzi di quelle leccornie, Lucilla si azzardò a chiedere: «Noi mangeremo gli avanzi, vero?»
«Scordatevelo! Continuerete a mangiare i vostri intrugli di legumi e cereali». Mesta per il sogno svanito, con in mano la pietra affilata per sminuzzare la carne, Lucilla si avvicinò alla gabbia, tirò fuori un cappone e lo afferrò per il collo.
Fra lo stupore di Goffredo e lo starnazzare del volatile, la giovane mise il pennuto fra le gambe, stringendolo saldamente. C’erano piume dappertutto. S’inginocchiò sul pavimento. La mano sinistra, a guisa di staffa, bloccò al suolo la testa del primo sventurato e con la destra assestò un colpo; il capo rotolò verso il focolare.
«Fatto!» e sorrise. Dopo un sussulto, il corpo del cappone si afflosciò. Allentata la presa, il pennuto decapitato ebbe un altro e più forte spasmo. Si rizzò in piedi e iniziò a correre per tutta la cucina sbattendo contro tegami, griglie, pentole e forconi.
Goffredo, con le mani al cielo, era terrorizzato: «Il cappone ha il malocchio!»
«Ma che dite! È normale, lo fanno anche i polli».
«Ma cosa dite voi! Non ho mai visto nulla di simile» gemette il capocuoco. «Voi siete il Demonio, infesterete la mia cucina. Misericordia!» e si nascose dietro un’enorme giara d’olio.
Le urla gracchianti di mastro Goffredo rimbombarono tra le arcate, infilandosi nella cappa cilindrica che sovrastava il grande focolare, inerpicandosi attraversando architravi, feritoie e scale, fino a raggiungere le stanze del Conte.
Sua eccellenza in persona scese nelle cucine, mentre il cappone saltellava ancora. Il Conte sfoderò il suo pugnale, prese la mira e centrò il pennuto, spaccandolo a metà.
«Chi è l’artefice di questa diavoleria?» urlò il nobiluomo.
«La strega è questa giovane villana, la mia nuova aiutante» inveì Goffredo trascinandola per i capelli al cospetto del Conte e gettandola ai suoi piedi.
«Eccellenza, pietà, succede sempre anche a mio padre con i polli».
«Allora operate la magia nera!» controbatté inorridito.
«Non vi rispondo più signore, neppure se mi torturate. Mi avete portato in questo posto lugubre e sporco» osò la disperata Lucilla.
«Ingrata, ma come osate?» e le sferrò uno schiaffo in pieno volto.
Nel frattempo era accorso Galdino che, messo al corrente dal cuoco, chiese al suo signore cosa farne della strega. Il Conte si voltò verso un affresco raffigurante una donna vestita di bianco, sospesa su una nube tra angeli festanti. Tornò a cercare gli occhi di Lucilla e puntandoli vi scorse una vaga somiglianza con le iridi docili e fiere della Vergine. Poi, rivolgendosi a Galdino e indicando il quadro, ordinò: «Sia messa al rogo! Col cappone».

Marcella Nardi

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