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Ammazzare il tempo – Racconto di Leo Ruberto

Di mattina mi alzo e faccio colazione. L’ho sempre fatta. Un tempo la facevo in modo diverso. Quel tempo che è stato ma sembra non esserci mai stato.
In cui non avevo in mano altro che la tazza e il dolce.
Ora al mio fianco c’è l’aggeggio. L’aggeggio che c’è tutto il giorno, quello che hanno chiamato rivoluzionario per fare operazione di marketing. E che rivoluzionario lo è diventato mentre io me la ridevo: ce l’abbiamo tutti. Lo smartphone.
È la prima cosa che accendo, cioè è già acceso perché non si spegne mai e potrebbero anche togliere il pulsante per farlo nei prossimi modelli. Ma siccome sono all’antica io di notte abbasso il volume e lo disconnetto. Poi appena mi alzo, siccome sono sveglio, devo essere connesso.
Tutto normale. Ma comunque mi sono accorto che mi innervosisce, perché è il mezzo con cui il mondo ti può raggiungere sempre e comunque, e quindi basta un messaggio, basta l’articolo sbagliato, e ti rovini la giornata, nel senso che sei già nervoso.
Per questo mi sono riproposto di non accenderlo subito, ho fatto questa prova un po’ strana. È andata bene, sono rimasto tranquillo, non mi si sono arrossati gli occhi ancora prima di lavarmeli.
Quando fai le prove noti altre cose. Ho notato una questione di numeri, di tempo. Non mi ero mai reso conto di questo: senza accendere lo smartphone finisco prima.
Mi ha ricordato quel mio amico ai tempi dell’università quando studiavamo tutti insieme e noi avevamo i cellulari con quelle promozioni del mese di dicembre a messaggi illimitati, e lui che non teneva il cellulare in mano e non fumava ci faceva notare quanto tempo perdevamo tra messaggi scritti inviati ricevuti e letti e pausa sigaretta. Noi ce la ridevamo, ci sembrava una battuta. Ma quello diceva sul serio.
Aveva ragione, la matematica ha ragione. Col mio esperimento ancora non posso crederci: eppure tengo lo smartphone in mano mentre faccio tutto come al solito, mica mi fermo. Eppure anche oggi ci ho impiegato il doppio.
Riprovo un mattina senza smartphone: e in mezz’ora ho già finito, sono tranquillo e guardo l’inequivocabile orologio un po’ sbalordito.
Non mi quadra, a me non sembra di perdere tempo, con una mano sorseggio con l’altra tengo l’aggeggio. Lo tengo mentre cammino e vado verso il bagno, non mi fermo mica, non rallento.
Eppure perdo tempo. Ogni tanto lo uso in senso contrario: quando il tempo voglio ammazzarlo davvero. Ho il vizio di prepararmi troppo in anticipo quando ho un appuntamento o un treno da prendere. E allora basta che do uno sguardo allo schermo e, come per magia, il treno se non mi sbrigo lo perdo.
Anche il dolore al collo mi fa capire che ha un suo peso, un suo sforzo, di cui non mi rendo conto. E bello forte pure. Quando sto davanti al computer lo so di stare davanti al computer e che mi farà male la spalla. Ma uno sguardo allo smartphone che sarà mai? Come fa a farmi così male al collo? come se qualcuno mi premesse la mano forte dietro la nuca.
Penso a quelle poche persone anziane o per altri motivi che non so trovare che non hanno lo smartphone e se ne stanno da sole in un mondo dove tutti hanno lo smartphone in mano e fanno così con le dita sullo schermo e non si accorgono di tutto il tempo che passa e di tutto quel silenzio che crea disagio solo a quella persona all’antica.
Ma il tempo non dovrebbe essere nuovo o vecchio. Il tempo è e basta. Il tempo è importante. Non voglio trovarci niente di poetico, non voglio suggerire nessuna ribellione alle tecnologie alienanti e dire non è più come una volta. Ogni epoca dice che non è più come una volta, ed è pure vero.
Potrei fare ancora quell’esperimento di non accenderlo, anche in altre fasi della giornata. Ma non c’è bisogno, non si deve avere paura delle nuove tecnologie, anzi sfruttiamone l’utilità, e nessuno poi ci toglie quello che già abbiamo di vecchio e buono, posso lo stesso prendere un libro dalla libreria.
Così non lo faccio spesso, anzi ora che ci penso non lo faccio più. Mentre scrivo do uno sguardo allo smartphone, arriva una notifica, mentre apro la notifica qualcos’altro attira la mia attenzione: insomma, sappiamo come funziona, non c’è bisogno che lo racconto e lo drammatizzo.
Però resta il dato di fatto, che con lo smartphone in mano c’è quello squilibrio temporale. Che il tempo passa e non ne trovo traccia.
Sto guidando la macchina, e penso a quei video delle telecamere per strada in cui si vedono persone che inciampano con gli occhi sullo schermo nella mano, e c’è uno che continua, inciampa, cade, colpisce il cestino pubblico dei rifiuti ma non toglie lo sguardo da quello su cui è concentrato.
Il mio smartphone vicino al cambio suona: mi è arrivato un messaggio, tocca scoprire in quale dei contesti definiti dal logo di un’applicazione.
Lo prendo in mano, un attimo, solo per dare uno sguardo. Lo dicevano già ai tempi dello stereo in macchina che solo per cambiare stazione distogli lo sguardo dalla strada per non so quanti metri, facevano quelle pubblicità progresso con il botto dell’incidente.
Ma non sembra vero. È solo uno sguardo. Vediamo chi e cosa è, ecco la notifica, ecco l’applicazione di cui si tratta. Infastidito alzo lo sguardo e nel parabrezza vedo la macchina che mi arriva frontale e non capisco che ci fa lì e come ci è arrivata.

 

Leo Ruberto

 

 

 

 

 

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