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Al Cèster – Racconto di Bruno Traven

È sabato, e sono le undici. Mi viene voglia di uscire e andare al bar a prendere un caffè. Non c’è molto da fare in un piccolo paese come Concordia sulla Secchia, nella provincia modenese. Credo sia così, un po’ per tutte le province italiane: spesso il sabato mattina, non si ha nient’altro da fare che prendere l’auto e andare al bar.
Serve a staccare e, con questa crisi, la cosa può aiutare.
Di solito prendo il mio caffè, e mi metto a leggere il giornale ad un tavolino, in disparte; ed evito di parlare con qualcuno.
Ma sento che questa volta è diverso.
Appoggio il braccio sul bancone e la signora Morini, che mi conosce e sa che prendo sempre la stessa cosa, mi chiede: “Caffè normale?”, facendo un piccolo semicerchio con la mano destra, a voler dire che non prendevo altro.
È una domanda retorica, infatti: per me il caffè non è altro che una scusa per leggere i quotidiani e per staccare la spina dai problemi a casa.
Insomma, era come l’ora d’aria per i detenuti.
“Al Cèster!, sì al Cèster!, mi ricordo solo una cosa… puzzava che non si riusciva a stargli vicino…”.
Mi volto verso la voce e vedo che si tratta di una donna, seduta al tavolino lì accanto.
Interviene anche il barista:”L’andava sempar in gir… a tirava di quei urli, par strada…”.
Mi ricordavo di “Al Cèster”: era il matto del paese. Come ce n’erano tanti nei piccoli paesi della provincia modenese e reggiana. Oggi sono spariti del tutto, e qualche volta mi viene il sospetto che, in qualche modo, li abbiano eliminati. Mi ricordo di averlo visto, per la prima e unica volta, mentre frequentavo la scuola elementare “Barbato Zanoni”, avevo circa otto anni.
Sono passati quasi quarant’ anni da allora e sembra ieri.
Non ricordo perché gli avessero affibbiato quel curioso soprannome e credo di non averlo mai saputo.
Forse era chiamato così per il modo in cui si vestiva: con certi pantaloni sformati, molto più grandi della sua taglia, che era già notevole. La camicia a righe, sporca e unta, e la cintura dei pantaloni slacciata, lo faceva assomigliare ad una specie di grossa botte sfasciata.
Infatti, l’appellativo “Al Cèster”, in dialetto locale, ha proprio il significato di cesto, di contenitore.
Stavo giocando a biglie nel cortile della scuola, durante la ricreazione, quando sentii una voce cavernosa chiamare. Mi voltai verso il muretto della recinzione e vidi, attraverso i buchi tra mattone e mattone, la grossa sagoma di un uomo.
Tendeva la mano attraverso una delle fessure.
Nel palmo della mano vidi sbucare l’orlo bianco di una figurina.
”Le vuoi le figurine, bambino?”, mi ritrassi appena sentii di nuovo quella strana voce rauca. A scuola ci avevano raccontato di quello strano personaggio, descrivendolo come una specie di mostro mangia-bambini. Eravamo alla fine degli anni 70’ ed ancora non c’era tutto quel parlare di pedofilia, come oggi. Si usavano metafore più o meno mascherate per indicare forse un fenomeno antico, ma sempre attuale. Ero un bambino e non potevo capire nulla di queste cose. Mi ricordo che mi avvicinai, nonostante le storie che circolavano, attratto da qualcosa al fondo di quella voce. Era come una ninna nanna. Erano sempre le stesse parole quelle che ripeteva, ma era il modo con cui le pronunciava, con un ritmo lento e quasi ipnotico. Mi avvicinai di più al muro e, quando vidi meglio i lineamenti dell’uomo, mi accorsi con stupore che, sopra quel corpo massiccio, c’era il viso di un bambino. Gli occhi emanavano una sorta di benevolenza istintiva, e il sorriso era così aperto ed ingenuo. Pensai a tutte le storie che si raccontavano sul suo conto e conclusi che dovessero essere vere e proprie fandonie. Mi pareva così buono che era impossibile potesse fare del male a chicchessia. Al tempo stesso, notavo in quegli occhi così sinceri, una nota di follia. Il sorriso sulla bocca come quello di una maschera, l’espressione statica e quegli occhi come quelli di una bambola.
Come se dietro di essi non ci fosse nulla di umano, ma qualcosa di insondabile e misterioso.
Fu la consapevolezza di un istante: ero così felice, per il trofeo che stringevo in pugno, che non ci feci caso.
Stavo per tornare a giocare, quando sentii di nuovo quella voce inconfondibile:
”Bambino torna qui… ho le caramelle!”, scossi il capo, ero a posto così.
Almeno per quel giorno.
Guardai di nuovo quel faccione e mi accorsi che qualcosa era cambiato nell’espressione.
Gli occhi erano diventati tristi, in netto contrasto con la bocca, dove indugiava lo stesso sorriso di prima.
Ripetei il mio proposito di andarmene.
In quel momento, suonò la campanella che segnalava la fine della ricreazione.
“Bambino…”, proferì e notai, in quella voce rauca, un’inflessione malinconica e disperata.
Fui preso da un senso di compassione e tornai indietro, lui aprì la mano e due caramelle gialle finirono nel mio palmo. Avevo appena chiuso la mano a pugno, quando sentii sul dorso il tocco leggero della sua. Ritrassi la mano spaventato, feci un passo indietro, mi voltai e mi misi a correre. Scappai verso la scuola, senza voltarmi. Intanto, immaginavo con orrore che “Al Cèster”, fosse riuscito a scavalcare la recinzione, ed in quel momento fosse dietro di me. Già il solo pensiero mi atterriva.
Ricordo che corsi a perdifiato, come non avevo mai fatto in tutta la mia breve vita di bambino di otto anni. Arrivai dentro la scuola e finalmente in aula. Solo dopo che mi era passato l’affanno per la corsa, e al sicuro del mio banco in classe, guardai dalla finestra dell’aula, verso la recinzione.
Ma non c’era più nessuno.
Ancora oggi non sono certo che quel gesto, quello sfiorare la mia mano, fosse stato un gesto casuale oppure voluto.
Chiedo alla donna, seduta al tavolino, se sa che “Al Cèster” è ancora vivo.
“No, è morto da un pezzo… dagli anni 80’… mammamia quanto puzzava!”.
Pago il caffè ed esco.

 

Bruno Traven

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