Vittorio Alfieri è stato uno dei più importanti scrittori del Settecento italiano. I sentimenti di libertà e d’indipendenza, l’esaltazione della personalità, la certezza della risurrezione della nazione italiana espressi nella sua opera, fecero di lui uno dei più efficaci educatori delle generazioni del Risorgimento.
Le poesie più belle di Vittorio Alfieri
Nato il 16 gennaio 1749 a Asti e scomparso l’8 ottobre del 1803 a Firenze, Vittorio Alfieri è considerato senza dubbio il maggiore poeta tragico del Settecento italiano. Ricordiamo la sua vena artistica e letteraria attraverso le sue poesie più celebri.
Tacito orror di solitaria selva
Tacito orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea
tra’ figli suoi nessuna orrida belva.E quanto addentro più il mio piè s’inselva,
tanto più calma e gioja in me si crea;
onde membrando com’io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso
mende non vegga, e più che in altri assai;
né ch’io mi creda al buon sentier più appresso:ma, non mi piacque il vil mio secol mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.
Pregno di neve gelida il deforme
Pregno di neve gelida il deforme
Vorticoso äer bigio forte stride;
Ma il tristo fiato, ch’ogni fiore uccide,
Frenar non può de’ carmi miei le torme.Spini ingrati son forse ed irte forme
Tai carmi, a cui crudo Aquilone arride?
O a me fiamma cotanto il cor conquide,
Che avvampo io sol, mentr’altri agghiaccia e dorme?D’ostinato rimar la fonte ignoro;
So, ch’io tacer non posso: altri poi sveli
Se ferro eran mie’ versi, orpello, od oro.Febo, a te parlo intanto; e invan mi celi
Degli almi raggi il bel vital tesoro,
Poichè il mio canto in tenebre non veli.
Il mio ritratto
Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, or rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labbro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
Sonetto XX
S’io t’amo? Oh donna! Io nol dirìa volendo.
Voce esprimer può mai, quanta m’inspiri
dolcezza al cor, quando pietosa giri
vèr me tue luci ove alti sensi apprendo?S’io t’amo? E il chiedi? E nol dich’io tacendo?
E non tel dicon miei lunghi sospiri,
e l’alma afflitta mia, ché par che spiri
mentre dal tuo bel ciglio immobil pendo?E non tel dice ad ogni istante il pianto
cui di speranza e di temenza misto,
versare a un tempo e raffrenare io bramo?Tutto tel dice in me: mia lingua intanto
sola tel tace; perché il cor s’è avvisto
ch’a quel ch’ei sente, è un nulla il dirti: Io t’amo..
Sonetto LXXXVII
Mentr’io più mi allontano ognor da quella,
ch’ora i suoi dì strascina al Tebro in riva,
sol mio diletto è il far sempre più viva
mia doglia, e il viver tutto immerso in ella.Spesso, mia lingua in flebil suon l’appella;
e l’alma voce, che già il cor mi apriva,
par mi risponda, così addentro arriva
la rimembranza pur di sua favella.Pietade e pianto nel mortal mio esiglio
sono i miei soli duo fidi compagni;
l’una il cor mi governa, e l’altro il ciglio.Né v’ha infelice che con me si lagni,
ch’io di soccorso, lagrime, o consiglio,
pietosamente lui non accompagni.
.Sonetto LXXXIX
Là dove muta solitaria dura
piacque al gran Bruno instituir la vita,
a passo lento, per irta salita,
mesto vo; la mestizia è in me natura.Ma vi si aggiunge un’amorosa cura,
che mi tien l’alma in pianto seppellita,
sì che non trovo io mai spiaggia romita
quanto il vorrebbe la mia mente oscura.Pur questi orridi massi, e queste nere
selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti
acque or mi fan con più sapor dolere.Non d’intender tai gioie ogni uom si vanti:
le mie angosce sol creder potran vere
gli ardenti vati, e gl’infelici amanti.
Sonetto CVIII
Le pene mie lunghissime son tante,
ch’io non potria giammai dirtele appieno.
D’atri pensieri irrequïeti pieno,
neppure io ‘l so, dove fermar mie piante.Misera vita strascìno ed errante;
dov’io non son, quello il miglior terreno
parmi; e quel ch’io non spiro, aere sereno
sol chiamo; e il bene ognor mi caccio innante.S’anco incontro un piacer semplice e puro,
un lieto colle, un praticello, un fonte,
dolor ne traggo e pensamento oscuro.Meco non sei: tutte mie angosce conte
son da quest’una; ed a narrarti il duro
mio stato, sol mie lagrime son pronte.
Sonetto CXXXV
Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il Tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l’onde irate in suon feroce.Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d’alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:quella, ch’io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso…
Nullo error mai felice al par mi fea.