Figlio, figlio, figlio (2002) di Vecchioni: poesia di un padre per il figlio che non c’è più

29 Novembre 2025

Scopri il significato profondo di "Figlio, figlio, figlio" di Roberto Vecchioni, la poesia dedicata al figlio Arrigo. Da qui la nascita della Fondazione.

Figlio, figlio, figlio (2002) di Vecchioni: poesia di un padre per il figlio che non c'è più

Ci sono canzoni che nascono come appelli e, col tempo, si trasformano in pura poesia. Figlio, figlio, figlio di Roberto Vecchioni è l’esempio tangibile di un testo che letto nei suoi versi, anche senza la musica, riesce a donare qualcosa d’importante, di unico.

Quando fu scritta nel 2002, questa canzone-poesia era il tentativo disperato e potente di un padre di scuotere il figlio adolescente dall’apatia. Oggi, dopo la tragica scomparsa di Arrigo Vecchioni nell’aprile del 2023, il brano è diventato un epitaffio straziante, una lettera spedita a un destinatario che non può più rispondere, ma che vive “dentro” chi resta.

Figlio, figlio, figlio è presente nel capitolo Duplice accoppiata del libro La vita che si ama di Roberto Vecchioni, pubblicato da Giulio Einaudi editore nel 2016. Il testo poetico risale al 2002 quando il cantautore scrisse la canzone che diventò la prima traccia dell’album Il lanciatore di coltelli, pubblicato da Emi nello stesso anno.

Leggiamo gli splendido, ma struggenti versi di Roberto Vecchioni per coglierne le emozioni e il profondo significato.

Figlio, figlio, figlio di Roberto Vecchioni

per Arrigo

Figlio, chi t’insegnerà le stelle
Se da questa nave non potrai vederle?
Chi t’indicherà le luci dalla riva?
Figlio, quante volte non si arriva
Chi t’insegnerà a guardare il cielo
Fino a rimanere senza respiro?
A guardare un quadro per ore e ore
Fino a avere i brividi dentro il cuore?
Che al di là del torto e la ragione
Contano soltanto le persone?
Che non basta premere un bottone
Per un’emozione?

Figlio, figlio, figlio
Disperato giglio, giglio, giglio
Luce di purissimo smeriglio
Corro nel tuo cuore e non ti piglio
Dimmi dove ti assomiglio
Figlio, figlio, figlio
Soffocato giglio, giglio, giglio
Figlio della rabbia e dell’imbroglio
Figlio della noia e lo sbadiglio
Disperato figlio, figlio, figlio

Figlio, chi si è preso il tuo domani?
Quelli che hanno il mondo nelle mani
Figlio, chi ha cambiato il tuo sorriso?
Quelli che oggi vanno in paradiso
Chi ti ha messo questo freddo in cuore?
Una madre col suo poco amore
Chi l’ha mantenuto questo freddo in cuore?
Una madre col suo troppo amore
Figlio, chi ti ha tolto il sentimento?
Non so di che parli, non lo sento
Cosa sta passando per la tua mente?
Che non credo a niente

Figlio, figlio, figlio
Disperato giglio, giglio, giglio
Luce di purissimo smeriglio
Corro nel tuo cuore e non ti piglio
Dimmi dove ti assomiglio
Figlio, figlio, figlio
Spaventato giglio, giglio, giglio
Figlio della rabbia e dell’imbroglio
Figlio della noia e lo sbadiglio
Disperato figlio, figlio, figlio

Figlio, qui la notte è molto scura
Non sei mica il primo ad aver paura
Non sei mica il solo a nuotare sotto
Tutt’e due ci abbiamo il culo rotto
Non ci sono regole molto chiare
Tiro quasi sempre ad indovinare
Figlio, questo nodo ci lega al mondo
Devo dirti no e tu andarmi contro
Tu che hai l’infinito nella mano
Io che rendo nobile il primo piano
Figlio, so che devi colpirmi a morte
E colpire forte

Figlio, figlio, figlio
Disperato giglio, giglio, giglio
Luce di purissimo smeriglio
Corro nel tuo cuore e non ti piglio
Dimmi dove ti assomiglio
Figlio, figlio, figlio
Calpestato giglio, giglio, giglio
Figlio della rabbia e dell’imbroglio
Figlio della noia e lo sbadiglio
Adorato figlio, figlio, figlio

Dimmi, dimmi, dimmi
Cosa ne sarà di te?
Dimmi, dimmi, dimmi
Cosa ne sarà di te?
Dimmi cosa, dimmi cosa
Ne sarà di me?

Fonte: Musixmatch
Compositori: Roberto Vecchioni
Testo di Figlio, figlio, figlio © Emi Music Publishing Italia Srl, Ippo Edizioni Musicali

La confessione di un padre che ammette i propri limiti

Figlio, figlio, figlio (2002) è un brano di Roberto Vecchioni che ha al centro il tema dell’incomunicabilità generazionale, affrontata però con uno sguardo inedito. Non c’è il rimprovero autoritario di un padre padrone, ma la confessione vulnerabile di un genitore che ammette i propri limiti (“tiro quasi sempre ad indovinare”). Leggendo il testo emerge con forza il mal di vivere, che viene descritto come disagio profondo, una “noia” esistenziale che non è pigrizia, ma un muro di gomma contro cui l’amore dei genitori rimbalza senza penetrare.

Ma il conflitto tra padre e figlio è descritto come necessario. Vecchioni teorizza che un figlio per crescere debba necessariamente scontrarsi con il genitore, “colpirlo a morte” metaforicamente, per affermare la propria indipendenza. Eppure, ciò che il padre teme davvero è che il figlio, assorbito da una realtà superficiale (“premere un bottone per un’emozione”), perda la capacità di stupirsi davanti all’arte e alla natura, davanti all’enorme bellezza che la vita può offrire.

La morte di Arrigo e la rilettura del testo

Per oltre vent’anni, questa canzone è stata letta come un dialogo pedagogico. Tutto è cambiato nell’aprile del 2023, con la morte di Arrigo Vecchioni, secondogenito del cantautore, a soli 36 anni. Questo evento tragico ha svelato il retroscena doloroso di quei versi. La “noia e lo sbadiglio” cantati nel 2002 non erano capricci adolescenziali, ma i primi segnali di un disturbo bipolare con cui Arrigo ha combattuto per tutta la vita.

Vecchioni, in recenti interviste, ha descritto la perdita con una metafora straziante: “La morte ci ha preso come un autovelox. Correvamo convinti di avercela fatta, e invece ci ha preso la targa.” Oggi il testo non è più un padre che insegna al figlio a vivere, ma un padre che chiede al figlio scomparso la forza per sopravvivere. Come ha dichiarato al Corriere della Sera nel 2025, rievocando il mito di Orfeo: il padre non scende nell’Ade per riportare il figlio indietro (sa che è impossibile), ma per chiedergli: “Fammi rivivere, fammi tornare ancora a vivere”.

Viaggio dentro i versi di “Figlio, figlio, figlio”

L’intera struttura del brano si regge su un paradosso drammatico. Ha la forma di un dialogo, ma la sostanza di un monologo. È un padre che parla, domanda, urla e sussurra, scontrandosi però contro il silenzio di un figlio che sembra non avere le parole, o la voglia, per rispondere. Analizzando il testo strofa per strofa, scopriamo una mappa emotiva complessa che va ben oltre la semplice canzone d’autore.

1. L’impotenza del padre di fronte al vuoto interiore
La prima parte del brano non è una semplice polemica contro la modernità, ma la presa di coscienza drammatica di un padre che si sente disarmato. Quando Vecchioni chiede “Chi t’insegnerà a guardare il cielo fino a rimanere senza respiro?”, non sta parlando di distrazione, ma di anedonia, ovvero l’incapacità patologica di provare piacere o stupore. Il figlio descritto non è un ragazzo pigro, è un’anima bloccata dietro un vetro invisibile.

Il verso “Non basta premere un bottone per un’emozione” assume qui un significato clinico e straziante. Il padre si rende conto che i sentimenti non sono meccanici, non si possono “attivare” a comando. Per un ragazzo che soffre di un disagio profondo, la bellezza del mondo (le stelle, i quadri) è muta, non arriva al cuore. Vecchioni tenta di trasmettergli la passione, il “brivido”, ma si scontra con l’impossibilità chimica ed esistenziale del figlio di recepire quella luce.

2. Il ritratto del “Male di Vivere”

Il ritornello ci consegna un’immagine di struggente bellezza: il “giglio” (“Disperato giglio… soffocato giglio”). Non è solo un simbolo di purezza, ma la rappresentazione di un’anima priva di difese, esposta senza filtri alla brutalità del reale. In quest’ottica, la “noia e lo sbadiglio” assumono un peso specifico devastante: sono la manifestazione fisica della depressione, l’inerzia di chi sente la vita come un carico insopportabile.

Quello sbadiglio è l’urlo silenzioso di chi è esausto ancora prima di iniziare a vivere. Di fronte a questo muro invisibile, il verso “Corro nel tuo cuore e non ti piglio” fotografa la tragedia di due mondi che non riescono a toccarsi. Il padre si lancia in una rincorsa affannosa per portare salvezza, ma il figlio scivola via, prigioniero di una dimensione interiore inaccessibile dove l’amore bussa, ma non trova la maniglia per entrare.

3. Il processo ai colpevoli: società e famiglia

Nella seconda strofa, il padre cerca i responsabili di questo “freddo”. Prima accusa la società dei vincenti, “Quelli che hanno il mondo nelle mani”, che hanno rubato il futuro e il sorriso ai ragazzi sensibili. Poi, però, lo sguardo si volge in casa, con un’autocritica feroce.

Vecchioni non si assolve e non assolve la famiglia. I versi “Una madre col suo poco amore / Una madre col suo troppo amore” sono terribili e onesti: ammettono che i genitori possono sbagliare sia per difetto che per eccesso di protezione. Il risultato è un figlio che, alla domanda su chi gli abbia tolto il sentimento, risponde con un muro di gomma: “Non so di che parli, non lo sento”. È la resa totale: “Che non credo a niente”.

4. La confessione di fragilità e il “Parricidio” necessario

La terza parte segna il momento più alto della poetica di Roberto Vecchioni. Il padre scende dal piedistallo. Non è più il “Professore” che sa tutto, ma un uomo che ammette: “Non ci sono regole molto chiare, tiro quasi sempre ad indovinare”. C’è un riconoscimento di parità nella sofferenza: “Tutt’e due ci abbiamo il culo rotto”, siamo entrambi feriti dalla vita.

Da qui nasce la richiesta finale, potente e psicoanalitica: “Figlio, so che devi colpirmi a morte / E colpire forte”. Vecchioni capisce che per permettere al figlio di esistere, di trovare la sua identità, il padre deve farsi da parte, deve accettare il conflitto. Il figlio deve “uccidere” simbolicamente l’autorità paterna per smettere di essere un “giglio calpestato” e diventare quercia.

5. L’epilogo rovesciato

La canzone si chiude con una domanda che oggi, riletta dopo la morte di Arrigo, fa tremare i polsi: “Dimmi, dimmi, dimmi cosa ne sarà di te?”. Nel 2002 era l’ansia per il futuro di un giovane. Oggi, quel finale si ribalta nell’ultima riga: “Dimmi cosa… ne sarà di me?”.

Non è più il figlio ad aver bisogno del padre per orientarsi, ma è il padre, rimasto solo sulla “riva”, a chiedere al figlio scomparso come si fa a sopravvivere, come si fa a restare al mondo quando la persona che volevi proteggere non c’è più.

La risposta al dolore: la Fondazione Vecchioni

Se la canzone del 2002 lasciava domande sospese e un senso di impotenza, la vita ha imposto a Roberto Vecchioni e alla moglie Daria Colombo di trovare una risposta concreta. In memoria di Arrigo è nata la Fondazione Vecchioni, un progetto che trasforma il lutto privato in una missione civile.

La Fondazione nasce per tendere una mano proprio a quei “gigli” fragili di cui parlava la poesia, ovvero a bambini e ragazzi affetti da disagio psichico che spesso non trovano ascolto. L’obiettivo primario è abbattere lo stigma della malattia mentale, combattendo quell’idea di vergogna o di “imbroglio” che spesso isola le famiglie. Attraverso il supporto psicologico e l’educazione emotiva, la Fondazione Vecchioni cerca di sciogliere quel “freddo nel cuore” prima che diventi irreversibile, trasformando l’assenza di Arrigo in una presenza che cura e protegge le nuove generazioni.

Figlio, figlio, figlio non è solo un grande brano della canzone d’autore italiana. È una preghiera laica, una richiesta di senso, una dichiarazione d’amore che attraversa le epoche della vita di un uomo.

È la poesia che un padre scrive sapendo che l’amore non basta sempre a salvare, ma può almeno continuare a custodire. La nascita della Fondazione Vecchioni è un altro grande capolavoro del grande autore che, in Italia, ha saputo trasformare la biografia in mito, e il dolore in conoscenza, Roberto Vecchioni.

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