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“Prigioniera” di Forugh Farrokhzad: il canto di una donna in cerca della libertà

Ci sono poesie che rivoluzionano. "Prigioniera" dell'iraniana Forugh Farrokhzad è l'inno alla libertà femminile nei confronti della sua società.

Prigioniera di Forugh Farrokhzad è una poesia che esplora con gli occhi di una donna i temi della libertà femminile, dell’indipendenza sessuale nei confronti di una società che opprime l’identità e la donna e le donne.

È il canto di una donna che non vuole più accettare un matrimonio “imposto” e vuole vivere un amore vero, libero, scelto, felice. 

Forugh Farrokhzad è una poetessa, scrittrice e regista femminista iraniana, nata a Teheran nel 1935. Inizia a comporre versi e a interessarsi d’arte a soli sedici anni.

Proprio a quell’età dovette sposare il cugino Parviz Shapour, molto più grande di lei, dal quale nasce il figlio Kamyar, che deve poi abbandonare quando sceglie di seguire la vocazione poetica e di divorziare dal marito nel 1955.

Per le leggi dominanti in Iran non era più ritenuta adatta al ruolo di madre e per il resto dell’esistenza le venne proibito di avvicinare il figlio.

Con queste premesse nel 1955 fu pubblicata Prigioniera (Asia), poesia che diede il nome anche alla sua prima raccolta di poemi che mettevano in evidenza la voglia di ribellione di una donna che chiede libertà.

Ma, leggiamo subito questa splendida poesia per comprenderne la forza del messaggio.   

Prigioniera di Forugh Farrokhzad

Ti voglio e so che non ti stringerò mai
Per saziare il mio cuore in un abbraccio.
Tu sei il cielo chiaro e luminoso, io la prigioniera
Uccello in una gabbia che mi tiene al mio posto.

Il mio volto dietro queste sbarre fredde e scure guarda fuori
Il tuo, con occhi pieni di stupore e di rimpianto.
Sogno una mano protesa verso di me,
Che mi faccia sollevare istantaneamente le ali verso di te.

Penso a un momento di abbandono
Quando da questa piccola e soffocante prigione io scivolerei,
Ridendo in faccia al mio carceriere, lasciando per sempre
Questa vita per cercarne una nuova al tuo fianco.

Penso a questi pensieri, ma so che non potrò mai
Fuggire da questa gabbia prima di morire.
Nemmeno se il mio guardiano volesse che me ne andassi.
Non mi resta abbastanza forza per volare.

Attraverso le sbarre vedo ogni mattina illuminata dal sole
Gli occhi del mio bambino sorridono ai miei in una dolce allegria,
E quando la mia voce alza un canto gioioso
Le sue labbra mi offrono un bacio.

Dolce cielo, anche se un giorno mi destassi
E da questa soffocante cella di prigione mi liberassi,
Cosa direi agli occhi bagnati di lacrime del mio ragazzo?
“Ero un uccello tenuto prigioniero. Lasciami stare”.

Sono una candela che illumina
Rovine fredde che bruciano nel mio petto
E se scegliessi di andare verso il buio e il silenzio
Sarei una desolazione per il mio nido.

Il grido di libertà di una donna chiusa in gabbia della società

Prigioniera di Forugh Farrokhzad è una poesia che esprime sensazioni multiple, esperienze diverse, sentimenti opposti.

Alla base di questo romanticissimo canto c’è il grido di una donna che reclama la propria libertà dalla prigione familiare e sociale in cui si trova rinchiusa. 

Prigioniera è una poesia rivoluzionaria di una donna che è riuscita a rimanere fedele a sé stessa nonostante tutti i tentativi della società che la circondava e di molti individui che conosceva, di trasformarla in qualcosa di diverso, più signorile, meno appariscente, meno dichiaratamente aperta sessualmente.

Pur non essendo la prima donna a scrivere poesie in persiano, si è distinta per non aver avuto paura di scrivere poesie come donna iraniana. L’esperienza femminile non aveva quasi precedenti nella poesia del suo Paese.

Quelle poche donne della tradizione medievale, come Mahasti e Jahan Khatun che scrissero poesie e tentarono di incorporare l’esperienza femminile nelle loro opere, rimasero inquadrate al concetto di femminile imposto dalla cultura iraniana. Non ebbero il coraggio di osare rompendo gli schemi.

In Prigioniera Forugh Farrokhzad ha stupito, scioccato, scandalizzato e affascinato facendo scoprire un mondo diverso da quello proposto dalla letteratura precedente.

La voglia di fuggire da una matrimonio infelice

Prigioniera è stata scritta durante un matrimonio infelice che l’ha portata al divorzio e alla rinuncia della propria maternità e del poter godere del proprio figlio Kamyar. 

Leggendo la poesia si avverte  perfettamente la sua voglia di fuggire via da quella prigione, il desiderio di poter vivere il proprio amore con un uomo diverso.

Ciò emerge nelle prime due strofe della poesia dove la poetessa iraniana reclama un amore libero, vero, romantico, carnale. Quell’amore desiderato molte volte e purtroppo represso, così come è capitato e capita a molte donne.

Molte volte, dimentichiamo che ci sono culture in cui essere donna significa essere prigioniera per tutta la vita. Moltissime donne vivranno come l’uccello della poesia di Forugh Farrokhzad, chiuse in gabbia senza nessuna speranza di poter fuggire dalla loro prigione.

La metafora dell’uccello in gabbia (presente in molte opere nella letteratura iraniana) rappresenta per la poetessa di Teheran quel legame con un uomo che non ha mai amato e che ha sposato per volere di altri, della propria famiglia. 

Il timore di dover abbandonare il figlio

Ma, dalla terza strofa in poi entra in gioco l’amore per il figlio, l’unico motivo che la tiene ancora chiusa in quella gabbia.

Il figlio tanto amato, come si fa ad abbandonarlo?

Attraverso le sbarre vedo ogni mattina illuminata dal sole
Gli occhi del mio bambino sorridono ai miei in una dolce allegria,
E quando la mia voce alza un canto gioioso
Le sue labbra mi offrono un bacio.

Strofa meravigliosa che ci riporta ad una donna la cui unico motivo di felicità è il figlio piccolo. Intorno, solo il buio assoluto che viene dissolto dagli occhi della sua creatura e dal rapporto corporeo che ogni mamma ha con il figlio. 

Penso che solo una donna, una madre può capire queste emozioni. La fuga dalla prigione coniugale prevede un prezzo troppo alto da pagare: la rinuncia alla propria maternità, alla perdita del rapporto con figlio.

Questo timore emerge nella strofa successiva:

Dolce cielo, anche se un giorno mi alzassi
E da questa soffocante cella di prigione mi liberassi,
Cosa direi agli occhi bagnati di lacrime del mio ragazzo?
“Ero un uccello tenuto prigioniero. Lasciami andare”.

In questi versi c’è la disperazione di una mamma che rivolgendosi al suo amore più grande, sembra chiedergli il permesso di lasciarla andare via.

Ma, la sofferenza finisce per generare solo infelicità

Il matrimonio con il padre è una sofferenza, è una prigione che porta alla pazzia, all’infelicità, al buio assoluto.

Sono una candela che illumina
Rovine fredde che bruciano nel mio petto
E se scegliessi di andare verso il buio e il silenzio
Sarei una desolazione per il mio nido.

Nell’ultima strofa c’è la voglia di dover giustificare la necessità di andare, la volontà già presa che non si può fare più diversamente.

Rimanere in quella prigione familiare sarebbe offrire la più grande desolazione al figlio e al nido che lo accoglie.

L’infelicità crea il buio assoluto e quando lo si trasferisce alle persone che si amano tutto sembra spegnersi nella tristezza assoluta. 

Non si può continuare a vivere “nel buio e nel silenzio” bisogna avere ill coraggio di amarsi per potere amare gli altri. Quindi, meglio forzare quella gabbia e volare via per sempre.

Questa poesia è bellissima anche perché anticipa ciò che Forugh Farrokhzad farà. Divorzia appunto dal marito nell’anno stesso in cui uscì al pubblico il libro omonimo che contiene questa poesia.

Purtroppo, questa grandissima donna morì giovane, a soli 32 anni, in un incidente stradale avvenuto il 13 febbraio 1967.

Ci avrebbe sicuramente lasciato altri doni, altri capolavori da leggere o da vedere. Per noi, in ogni caso, Forugh Farrokhzad  è sempre viva e presente.

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