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“Patria” (1897) di Giovanni Pascoli, vibrante poesia sulla solitudine di chi abbandona le proprie origini

Vivi la grandezza di "Patria", la poesia di Giovanni Pascoli che dà voce a tutti coloro che hanno lasciato il proprio paese e vivono nella nuova realtà la solitudine del forestiero.

Patria di Giovanni Pascoli è una poesia di grande emozione che mette in scena il sogno di tornare a rivivere i giorni della giovinezza nel proprio paese d’origine. Un tema molto attuale, in un momento in cui, in occasione delle prossime vacanze agostane, in tanti torneranno a fare visita alla propria città natale. 

Non c’è patriottismo nel testo della poesia, ma pura nostalgia. I ricordi della giovinezza, gli odori della casa di famiglia, le esperienze vissute con le amicizie giovanili, le emozioni dei primi amori, molte volte sono legate al luogo dove si è nati e cresciuti. 

E Giovanni Pascoli nella sua Patria cerca di condividere tutto questo. Non lo fa tornando effettivamente a “casa”, ma attraverso il sogno, il ricordo. Cosa comune a tanti che la propria origine purtroppo non la vivranno più così spesso, e l’unico modo per non spezzare il legame rimane la memoria e l’immaginazione. 

Il titolo originale della poesia era Estate e solo nell’edizione del 1897 di Miricae (la prima edizione è del 1891), ovvero la raccolta di cui fa parte la lirica, prende il titolo di Patria. Il riferimento è a San Mauro di Romagna, il paese natale sempre rimpianto da Giovanni Pascoli.

Leggiamo la poesia per apprezzarne il contenuto e il significato.

Patria di Giovanni Pascoli

Sogno d’un dì d’estate.

Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.

Scendea tra gli olmi il sole
In fascie polverose;
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose;
due bianche spennellate

in tutto il ciel turchino.

Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbiatrice
l’angelus argentino…

dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.

Il significato della poesia di Giovanni Pascoli

Patria di Giovanni Pascoli è una poesia che evidenzia l’estraneità, lo sdradicamento, l’isolamento dell’individuo che non riesce ad integrarsi nella realtà in cui vive e sviluppa un rapporto conflittuale con il mondo che è costretto a vivere e a subire. È il sintomo del disagio esistenziale di una generazione che non riesce a trovare “radici” nel proprio contesto di vita. 

L’unica arma per poter vivere qualcosa di magico è il sogno. Pascoli lo evidenzia già nel primo verso della poesia

“Sogno d’un dì d’estate.”

Il poeta romagnolo in modo orinico sale a bordo della “macchina del tempo” e inizia il suo viaggio nei ricordi delle atmosfere, delle sensazioni, sei sentimenti di quando da giovane si trovava nella sua San Mauro di Romagna.

Attraverso Patria il sogno inizia a prendere vita come in un film di Giuseppe Tornatore. Tutto diventa vivo e prende forma. Il lettore/spettatore inizia a condividere le scene del “sogno” di Giovanni Pascoli. 

Tutto inizia ad apparire come se fosse reale, il canto delle cicale, le foglie spinte dal vento, la luce del sole tra gli alberi, le nuvole sparse e il colore tipico del cielo estivo (turchino).

E ancora iniziano a scorrere le scene delle “siepi di melograno”, i cespugli di tamerice, la trebbiatrice che da lontano svolge il suo lavoro nei campi e il suono delle campane che annuncia la preghiera dell’Angelo del Signore, tipica del mattino e della sera.

Tutto è armonia, è benessere, è positività. Il poeta è come se si fosse immerso nel paradiso che gli diede i natali e che purtroppo dovette abbandonare per la morte del padre prima (leggi la poesia 10 agosto) e della madre dopo.

Il sogno purtroppo diventa realtà

Pensiamo che le campane che annunciano la preghiera siano il segno della fine del giorno e quindi del viaggio onirico di Pascoli. 

Tutta l’armonia sembra spezzarsi con l’ultima strofa e con la domanda “dov’ero?” Il sogno svanisce e il film si interrompe. Il poeta ritorna nella sua realtà. 

Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.

Il poeta scosso dal suono delle campane e come catapultato fuori dalla “macchina del tempo” prende coscienza che stava sognando e la realtà purtroppo gli propone un luogo diverso e meno armonico rispetto a quello vissuto attraverso il sogno.

Emerge con forza il senso di estraneità rispetto al reale che lo circonda. Non c’è serenità e gioia nel suo contesto reale. C’è la solitudine dell’uomo contemporaneo costretto a vivere in una società che sembra ignorarlo. 

Giovanni Pascoli si avverte forestiero, straniero. Non può far parte di quella realtà. Si sente estraneo alla sua realtà, al luogo in cui si trova. Non può esserci pace in un contesto simile.

Tutto questo non può che scatenare il disagio esistenziale simbolo della condizione che si viveva e che condizionava molta della letteratura e dell’arte di fine ‘800 e inizio ‘900 e che se ci pensiamo assale anche la nostra società, sempre più virtuale e priva di qualsiasi radice territoriale. 

La fluidità tipica del nostro tempo non può che rendere tangibile la solitudine dell’umanità contemporanea, priva di luoghi natii e costretta a fluttuare sempre più in “non luoghi”. 

Il senso della poesia di Pascoli sembra capovolgersi nella nostra era digitale, in cui tutto è finzione e la realtà sembra diventare l’unica che può farci toccare con mano la bellezza, la felicità, la positività della nostra origine. 

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