Che cos’è la gioia? Come la descriveresti? Quali strumenti utilizzeresti per raccontarla? Franco Arminio, per farlo, si serve della poesia e di una serie di metafore che parlano con linguaggio commovente e, soprattutto, potente. I versi che stiamo per leggere si intitolano “Non pensarla la gioia, sentila”, e sono tratti dalla raccolta del 2018 Resteranno i canti (p. 10), edita da Bompiani.
“Non pensarla la gioia, sentila” di Franco Arminio
Non pensarla la gioia, sentila
è una fioritura nella carne,
è il maggio delle ossa,
è l’aprile degli occhi.La gioia non è un fatto,
una cosa, un luogo.
La gioia crea spazio,scioglie, fa il vuoto.
Il significato di questa poesia
Lasciare entrare la gioia
“Non pensarla la gioia, sentila” di Franco Arminio si offre in tutta la sua trasparenza e insieme nella sua insondabilità. Appartiene alla raccolta Resteranno i canti, edita da Bompiani, un libro che ha il tono e la sostanza di un testamento lirico, un lascito che vibra tra gli estremi della vita e della morte, tra lo smarrimento e la gratitudine.
In questo componimento, Franco Arminio — poeta, paesologo, cantore dell’entroterra italiano — porta in scena uno dei temi più sfuggenti della letteratura: la gioia. Ma lo fa, come sempre, a modo suo. Non con la distanza dello studioso o l’ambizione del teorico, bensì con la voce chiara e disarmante di chi cammina tra le cose del mondo e ne osserva il mistero.
Lontano dalle grandi celebrazioni, la poesia arminiana si accende nei piccoli fuochi della quotidianità. Ed è proprio qui, nella commistione tra il corpo e il paesaggio, tra la primavera e l’anima, che la gioia prende forma.
La gioia come esperienza
“Non pensarla la gioia, sentila / è una fioritura nella carne, / è il maggio delle ossa, / è l’aprile degli occhi.”
In apertura, l’autore formula un imperativo gentile: non pensarla, sentila. È un invito a scardinare il meccanismo mentale che ci porta a razionalizzare ogni emozione, a cercarne la definizione, la causa, l’utilità. Arminio ci suggerisce che la gioia non nasce dal pensiero, ma dal sentire. Non è un prodotto della mente, ma un’accensione improvvisa del corpo.
Le immagini che seguono – “fioritura nella carne”, “maggio delle ossa”, “aprile degli occhi” – sono metafore che intrecciano il linguaggio della natura con quello della fisicità. La gioia è descritta come un rigoglio interno, una primavera che sboccia dentro le membra, trasformando le ossa in radici fiorenti, gli occhi in fiori aperti alla luce.
C’è un’esplosione sensoriale, ma non spettacolare: Arminio non descrive un’esaltazione euforica, bensì un’espansione silenziosa. È la carne che rifiorisce, le ossa che si fanno stagione.
È interessante notare come la poesia scelga mesi precisi – aprile e maggio – per indicare il tempo della gioia. Mesi che nella tradizione contadina e poetica italiana segnano il passaggio dall’inverno alla piena vitalità, dall’attesa alla fioritura. Ancora una volta, Arminio affida alla natura il compito di dire ciò che sfugge alle parole.
Non un luogo, ma uno spazio aperto
“La gioia non è un fatto, / una cosa, un luogo. / La gioia crea spazio, / scioglie, fa il vuoto.”
Nel cuore del testo, il poeta prende le distanze da ogni definizione oggettiva. La gioia, dice, non è un “fatto”, non è una “cosa”, non ha una collocazione fisica. Non si può toccare, né contenere. È qualcosa che accade nonostante, che si insinua tra le pieghe della realtà senza lasciarsi imprigionare.
Ed è qui che Franco Arminio introduce una delle immagini più potenti della poesia: la gioia come spazio che si apre. È una forza che dilata, che scioglie i nodi dell’essere, che fa il vuoto.
Un vuoto non come mancanza, ma come disponibilità, apertura, accoglienza. Un vuoto in cui può entrare la vita, nella sua forma più semplice e più sorprendente. Nel pensiero orientale — e in molte pratiche meditative — il vuoto è considerato condizione necessaria all’ascolto, all’illuminazione, alla connessione col presente. Arminio, pur restando ancorato alla cultura del Mediterraneo interiore, sembra suggerire un concetto affine: solo nel vuoto interiore la gioia può fare il suo nido.
Tra vertigine e quotidiano
Nella sua poetica — che lui stesso chiama “paesologia” — Franco Arminio si muove in un territorio ibrido, dove convivono la lode e il lutto, il visibile e l’invisibile. La sua voce è quella di chi guarda il mondo non da lontano, ma dal margine: dai paesi spopolati dell’Irpinia, dalle case vuote dell’Appennino, dai corpi fragili della provincia.
È una poesia che non ha paura della malinconia, ma ne cerca il riscatto. Nel commento che accompagna questa poesia, scrivi che Arminio si muove tra “vertigine” e “gloria dell’ordinario”. Ed è esattamente questa la postura poetica che “Non pensarla la gioia, sentila” esemplifica. La gioia, ci dice, non è qualcosa da rincorrere nel futuro o da rintracciare nel passato. È un’apertura improvvisa nel presente. Una finestra che si spalanca, magari per poco, ma che vale tutto.
“Non pensarla la gioia, sentila non è solo un verso, è un suggerimento per vivere. È il sussurro di chi ha imparato che anche tra le rovine, anche nella perdita, anche nella solitudine dei paesi abbandonati, resta qualcosa da celebrare. Una fioritura. Una primavera del corpo. Un aprile degli occhi.