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“Mi rapisco da sola” (2014) di Chandra Livia Candiani, la straordinaria poesia sull’assenza

Quanto è potente la nostalgia, l’assenza delle persone che abbiamo amato di più… Ce lo racconta Chandra Livia Candiani nella sua poesia “Mi rapisco da sola”.

L’assenza, lo scarto fra vivi e morti, l’amore che resta, indelebile, traccia di ciò che è stato e anticipazione di ciò che sarà. Di questo parla “Mi rapisco da sola”, una meravigliosa poesia di Chandra Livia Candiani.

“Mi rapisco da sola” di Chandra Livia Candiani

Mi rapisco da sola
guardando tanti fiori
nati sul balcone
non certo per merito mio
giardiniere è stato il vento.
Mi spellano dettagliatamente,
la bellezza incide
con lo stesso nobile coltello
degli assenti.
Ricordo il turbine
della tua risata
alla mia confessione
che i fiori mi spaventano.

Ho un dolore giovane,
ci vuole pazienza,
attesa di uccello
al bordo del campo
appena seminato.
Ti amavo di un amore umano
come togliersi i vestiti la sera
e rimetterseli al mattino.
Nei giorni ora sterminati
ti scrivo una lettera invisibile
per dirti un percorso meraviglioso
una perla che rotola spedita
in un viale alberato
e trascina luce
con sé, trascina veglia.

Io vedo il mondo
attraverso la tua trasparenza,
vedo il tuo atroce incanto
il suo fingersi opaco
ora risvegliato,
vedo il male che ci fa
il leggero del mondo.
Oggi i morti assomigliano ai vivi
non telefonano non gli manco,
si stemperano nelle loro vite
senza volermi accanto.

Il significato di questa poesia

Dove leggere “Mi rapisco da sola”

Chandra Livia Candiani è una poetessa che lavora con le parole come fossero fili sottili, intrecciando immagini di straordinaria delicatezza con una profondità emotiva intensa. La sua poesia nasce spesso da un’intimità ferita, ma anche da un’instancabile ricerca di luce e comprensione. “Mi rapisco da sola” appartiene alla raccolta La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, in particolare alla sezione Pianissimo, per non svegliarti.

All’interno di questa breve opera, l’autrice esplora il dolore, la perdita, l’amore e la solitudine con una voce spiazzante, vicina a quella dell’infanzia per la sua capacità di stupirsi e soffrire con la stessa intensità.

I versi di Candiani sembrano sempre in bilico tra fragilità e resistenza, tra la necessità di fuggire e quella di restare. È una poesia di ascolto, di sottrazione, che lascia spazio al non detto e che invita il lettore a percepire il silenzio tra le parole.

Lo stile della poesia

Lo stile di questa poesia è essenziale, ma ogni parola è scelta con estrema cura. Candiani evita le strutture tradizionali, preferendo un ritmo spezzato, quasi sussurrato, che ricorda il pensiero interiore, i ricordi che affiorano a frammenti.

Le immagini sono nitide eppure avvolte in una sorta di mistero: il vento che fa da giardiniere, i fiori che “spaventano”, il coltello “nobile” degli assenti. Ogni figura porta con sé una tensione, un senso di bellezza e di ferita insieme.

Il paragone tra l’amore e il gesto quotidiano di spogliarsi e rivestirsi è di una semplicità disarmante, eppure racchiude tutta la naturalezza e la ripetitività di un sentimento vissuto fino in fondo. Il verso finale, in cui i morti “si stemperano nelle loro vite senza volermi accanto”, è una chiusura dolceamara, che sovverte la percezione tradizionale della morte: i defunti non mancano ai vivi, sono i vivi a sentirne l’assenza come una ferita.

Nel dolore salvezza

Al centro di “Mi rapisco da sola” c’è infatti il tema dell’assenza e del legame invisibile tra chi c’è stato e chi rimane.

Il dolore della perdita è ancora giovane, va coltivato con la pazienza di un uccello che aspetta il raccolto.

Eppure, nonostante la sofferenza, la voce poetica trova un modo per convivere con il vuoto, per trasformarlo in qualcosa che illumina, come “una perla che rotola” e trascina luce. Il dolore, dunque, non è solo una mancanza, ma anche una presenza sottile che modifica lo sguardo sul mondo.

La trasparenza dell’altro diventa un filtro attraverso cui leggere la realtà, e questo sguardo svela “l’atroce incanto” del mondo, il suo farsi lieve e crudele allo stesso tempo.

Il cuore della poesia abita proprio in questa dicotomia: il “leggero del mondo” che fa male, la bellezza che incide, l’amore che si dissolve senza sparire del tutto. Candiani ci invita a sostare in questo spazio fragile, a riconoscere che l’assenza non è mai davvero vuota, ma che continua a trasformarci.

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