Tante sono le domande che affollano la nostra mente di giorno in giorno. Più si contempla ciò che ci circonda, più viene da chiedersi da dove arrivino, e perché, la bellezza, la morte, l’amore, la natura… Nella sua “Ma forse”, il poeta cileno Pablo Neruda affronta il tema per celebrare la grande e misteriosa bellezza della vita.
“Ma forse” di Pablo Neruda
È vero nulla si altera ma qualcosa forse sì
qualcosa, una brezza, l’aria, la vita, o infine, tutto
e quando già cambiò tutt’è cambiato
e ognuno se be è andato col nome e con le ossa.Bene bene, un giorno in più: che grande cosa
come saltare in un abisso nuovo
o ancora in altri, in un altro
regno di passeggeri: la faccenda
non finisce mai quand’è finita
e quand’è cominciata tu non c’eri.E perché tanti fiori, tanta vasta
Stirpe vegetale che innalza
stami, polline, luci, insetti , luna
e i nostri piedi , le nostre bocche piene
di parole, di polvere
che svanisce,
qui imbarcati, qui maturati
in piena deliziosa luce di cielo?
E perché? A quale scopo? Ma perché?
Il significato di questa poesia
Dove leggere “Ma forse”
Nel 1972, Pablo Neruda pubblica Geografía Infructuosa, una raccolta che giunge quasi al tramonto della sua intensa parabola poetica.
È un periodo delicato, malinconico, ma anche lucidissimo: il poeta ha già ricevuto il Nobel per la Letteratura (nel 1971), è ambasciatore del Cile a Parigi, e intanto nel suo paese si addensano le nubi di una crisi che porterà di lì a poco al colpo di stato di Pinochet.
Pablo Neruda, da sempre uomo del mondo e della parola, guarda dentro e fuori di sé con lo sguardo maturo di chi ha molto amato, molto combattuto e molto perso.
Geografía Infructuosa non è una mappa dei luoghi, ma delle domande. Non ci sono paesaggi da attraversare, ma paesaggi che si sgretolano: la geografia è “infruttuosa” perché non porta a un approdo, ma a uno spaesamento fertile, fecondo di pensiero.
La poesia “Ma forse”, contenuta in questa raccolta, è presente anche nella versione italiana pubblicata da Passigli Poesia nel 2006, nella raffinata traduzione di Maria Rosaria Alfani.
È un testo che si apre con incertezza, che vibra fin dal titolo di quella sospensione esistenziale che attraversa tutto il libro: Ma forse. Come a dire: nulla è certo, eppure tutto pesa. Un dubbio che abita i corpi, i nomi, i giorni.
Lo stile della poesia
Il linguaggio di Pablo Neruda, in questi versi, si è fatto più spezzato, più ellittico rispetto all’esuberanza delle sue liriche giovanili o amorose. Qui non c’è enfasi, ma un’essenzialità gravida di senso.
Il componimento sembra muoversi a balzi, quasi inciampando tra frasi che iniziano senza conclusione e affermazioni che subito si sciolgono in domanda. Il ritmo è frastagliato, talvolta vertiginoso: come se il pensiero procedesse per strattoni emotivi, per intuizioni.
La punteggiatura aiuta questa fluidità incerta, con pause strategiche che creano sospensione o lasciano spazio al non detto. L’uso del verso libero è assoluto: non ci sono rime né simmetrie, e le immagini si dispongono come frammenti di un mosaico che resta incompiuto.
Tuttavia, la voce di Neruda resta riconoscibile nella forza delle immagini: il poeta sa ancora accostare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente vasto, il polline e la luna, la parola e l’abisso.
È una scrittura che sembra interrogarsi mentre accade, che non offre risposte ma invita a condividere l’enigma. Ed è proprio in questa precarietà stilistica che si annida il suo fascino: un modo di dire le cose che non pretende di afferrarle, ma le sfiora, le evoca, le ascolta.
Il mistero della vita
“È vero nulla si altera ma qualcosa forse sì”: già il primo verso mette in crisi ogni pretesa di stabilità. La poesia si apre con un’aporia, un’oscillazione tra il nulla che cambia e il tutto che forse cambia.
In questo scarto si insinua tutta l’incertezza dell’essere. “Qualcosa, una brezza, l’aria, la vita, o infine, tutto”: l’elenco, che parte da un movimento impercettibile, arriva fino al capovolgimento cosmico. Neruda non si limita a constatare un cambiamento, ma ne coglie la vertigine: quando “già cambiò”, è tutto cambiato, e nessuno resta.
“Ognuno se ne è andato col nome e con le ossa”: la fisicità della sparizione, la crudezza dell’oblio. Eppure, subito dopo, c’è uno slancio inatteso: “Bene bene, un giorno in più: che grande cosa”. Come se, pur nella coscienza della transitorietà, vivere restasse un gesto eroico.
L’immagine dell’“abisso nuovo” e del “regno di passeggeri” rafforza questa idea del tempo come un viaggio incerto, in cui tutto è movimento, transito. La domanda centrale della poesia esplode nella seconda parte: perché tutto questo? Perché la vegetazione, i fiori, i nostri corpi pieni di polvere e parole? La natura appare in tutta la sua magnificenza, ma anche in tutta la sua gratuità enigmatica. Non c’è risposta, solo domande che si rincorrono: “E perché? A quale scopo? Ma perché?”.
È in questa triplice eco che risuona tutta la tensione filosofica della poesia: l’atto del vivere è meraviglioso e inspiegabile, luminoso e tragico insieme. Neruda non offre certezze, ma ci lascia con questo interrogativo aperto, eterno, come un cielo che non smette di domandarci il perché del nostro passaggio.