La voce di Giovanni Pascoli è tra le poesie più toccanti della letteratura italiana. Una poesia che è un grido dolce e straziante, quello di un figlio che sente la madre morta chiamarlo ancora, sussurrando dal profondo della terra “Zvanì…”. Non è una poesia sul lutto, ma sull’amore che resiste alla morte, sul legame invisibile tra chi non c’è più e chi resta, e sulla forza misteriosa della memoria che continua a parlare.
Una poesia che ritorna di grande attualità anche grazie a Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli, il nuovo film biografico diretto da Giuseppe Piccioni che esplora la dimensione più intima e umana del poeta, le sue fragilità e i complessi legami familiari, specialmente il rapporto con la sorella Mariù.
la voce è stata scritta forse al 1902 e inserita nella raccolta di poesie Canti di Castelvecchio, pubblicata per la prima volta nel 1903. La voce è una delle liriche più toccanti e strutturalmente complesse di Giovanni Pascoli.
Leggiamo la struggente poesia di Giovanni Pascoli per viverne la bellezza e comprenderne il significato.
La voce di Giovanni Pascoli
C’è una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore:
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:voce d’una accorsa anelante,
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:tante tante cose che vuole
ch’io sappia, ricordi, sì… sì…
ma di tante tante parole
non sento che un soffio… Zvanì…Quando avevo tanto bisogno
di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno,
svegliandomi al primo boccone;una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, si beve?);dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto daccanto
quel soffio di voce… Zvanì…Oh! la terra, come è cattiva!
la terra, che amari bocconi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
– No… no… Di’ le devozïoni!Le dicevi con me pian piano,
con sempre la voce più bassa:
la tua mano nella mia mano:
ridille! vedrai che ti passa.Non far piangere piangere piangere
(ancora!) chi tanto soffrì!
il tuo pane, prega il tuo angelo
che te lo porti… Zvanì…Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all’improvviso
dissi – Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso,ora, o babbo! – che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:e che agli uomini, la mia vita;
volevo lasciargliela lì…
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio… Zvanì…Oh! la terra come è cattiva!
non lascia discorrere, poi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
– Piuttosto di’un requie per noi!Non possiamo nel camposanto
più prendere sonno un minuto,
ché sentiamo struggersi in pianto
le bimbe che l’hanno saputo!Oh! la vita mia che ti diedi
per loro, lasciarla vuoi qui?
qui, mio figlio? dove non vedi
chi uccise tuo padre… Zvanì…?Quante volte sei rivenuta
nei cupi abbandoni dei cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:voce d’una accorsa anelante,
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:la tua bocca! con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì!
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci… Zvanì…che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!che ti lessi negli occhi ch’erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d’essere buono!Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso… Zvanì…
La voce d’amore che vince il silenzio della morte
Con La voce, Giovanni Pascoli affida alla poesia il compito più alto e misterioso: rendere udibile ciò che la morte ha fatto tacere. La lirica rappresenta il punto più profondo della sua poesia del dolore e della memoria.
In essa, il poeta racconta l’esperienza di una voce che proviene dalla terra, la voce della madre defunta, che tenta di parlargli, di confortarlo, di impedirgli di arrendersi alla disperazione. È una voce “stanca”, “smarrita”, “piena ha la bocca di terra”, che riesce a generare immagini che fondono pietà e orrore, affetto e impotenza. Eppure, nonostante tutto, quella voce riesce ancora a farsi sentire.
Le parole che la madre vorrebbe dire non arrivano. Riesce ad arrivare soltanto un soffio, una sillaba: “Zvanì”, il diminutivo infantile di Giovanni. In quel suono tenue e antico si concentra tutta la forza della memoria e dell’amore. La vita grazie all’amore materno continua a parlare anche dopo la morte.
Nel ritmo lento e dolente dei versi si alternano dolore e tenerezza, fede e disperazione. Giovanni Pascoli rievoca due momenti cruciali della sua vita.
Un destino familiare segnato dal dolore
Per capire davvero la forza di La voce, bisogna ricordare la tragedia che segna la vita di Pascoli.
Nel 1867, quando aveva appena dodici anni, il padre Ruggero fu assassinato da ignoti mentre tornava a casa in calesse. Quel delitto, mai risolto, distrusse per sempre l’equilibrio del “nido” familiare.
Poco dopo, morirono anche la madre, due fratelli e due sorelle, lasciando Giovanni e le superstiti Mariù e Ida in una condizione di totale smarrimento.
La perdita del padre fu la ferita originaria; la morte della madre, il centro affettivo e morale della famiglia, ne rappresentò la disgregazione definitiva. Per tutta la vita, Pascoli cercherà di ricostruire quel nido distrutto, e la poesia diventerà il luogo dove i morti tornano a parlare e a consolare.
In La voce, la madre che lo chiama dal profondo della terra è la proiezione di quel bisogno assoluto di ritrovare unità, protezione e tenerezza, oltre la soglia della morte.
La fame: la miseria dopo la perdita
Il primo episodio ricordato nella poesia, rimanda agli anni di miseria che seguirono la tragedia familiare.
Quando avevo tanto bisogno
di pane e di compassione,
Rimasto orfano, Giovanni visse la fame non solo come bisogno fisico, ma come assenza d’amore e di sostegno. Da studente all’Università di Bologna, privo di mezzi e logorato dalla solitudine, conobbe davvero la fame: “mangiava solo nel sogno”, come scrive nel verso.
È su quella spalletta del Reno, “coperta di neve”, che la poesia lo ritrae solo, disperato, tentato di lasciarsi andare.
Eppure, proprio in quell’attimo di gelo, la voce materna ritorna:
No… no… Di’ le devozioni!
Non è una semplice esortazione religiosa, ma un invito a non arrendersi, a trovare nella preghiera e nel ricordo la forza di continuare. La madre, che non può più nutrirlo con il pane, lo nutre con la parola, con un gesto d’amore che attraversa la morte.
Il carcere: la solitudine e la chiamata alla pietà
Il secondo episodio, “Una notte dalle lunghe ore (nel carcere!)”, si riferisce al carcere di Bologna, dove Giovanni Pascoli fu rinchiuso nel 1879 per aver partecipato a una manifestazione socialista.
Fu un periodo di profonda umiliazione e isolamento. Il giovane poeta, idealista e povero, sperimentò un nuovo tipo di prigionia: non solo fisica, ma morale. Dentro quelle mura, la disperazione e il senso di colpa per aver disonorato la memoria del padre e della madre lo travolsero.
In poesia, la voce della madre lo raggiunge anche lì: Avresti molto dolore, tu, se non t’avessero ucciso…”
È una voce che lo ammonisce, ma con dolcezza, ricordandogli che la vita che gli è rimasta è un dono da custodire, non da sprecare. Lo invita a non “lasciare la vita agli uomini”, a non abbandonarsi al male o alla rabbia. La madre, dal regno dei morti, diventa coscienza viva, pietà incarnata. È lei a impedire al figlio di cedere al nulla, come se il suo amore potesse ancora salvarlo. Nella realtà, la madre era morta ormai da anni; ma nella poesia, la sua voce non tace, anzi diventa guida, compagna, redenzione.
La terra, ovvero il confine tra la vita e la morte
Dopo aver evocato la madre come presenza che consola, Pascoli torna più volte sull’immagine della terra, che in questa poesia assume un valore duplice e drammatico.
È la terra “cattiva”, che “non lascia discorrere”, la terra che ha inghiottito i suoi cari e che impedisce loro di parlare. Ma è anche la terra che custodisce, la madre universale da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna.
La voce materna è, letteralmente, una voce della terra, un suono che affiora dal profondo, un sussurro di polvere che diventa linguaggio.
In questi versi Pascoli mostra la sua visione più autentica del mondo. La natura non è né nemica né benevola, è il luogo del mistero, dove la vita e la morte si confondono, dove ogni essere torna a farsi parte di un ciclo eterno. Eppure, quel “piena ha la bocca di terra” resta una delle immagini più dolorose della sua poesia: il segno di un amore che vuole ancora parlare, ma che la morte ha reso muto.
Il dolore delle sorelle e il senso della pietà
Nella seconda parte della poesia, Pascoli fa parlare la madre anche a nome di tutti i morti e dei vivi rimasti nel dolore. La voce dice:
Non possiamo nel camposanto
più prendere sonno un minuto,
ché sentiamo struggersi in pianto
le bimbe che l’hanno saputo!
Qui “le bimbe” sono le sorelle del poeta, in particolare Mariù e Ida, le uniche sopravvissute alla tragedia familiare. Le immagini che Pascoli evoca sono di una pietà sconfinata: la madre, pur morta, non può riposare perché sente il pianto delle figlie vive. I vivi e i morti sono legati da un filo di sofferenza e di amore che nessun confine spezza. È come se la madre implorasse il figlio di non aggiungere altro dolore al dolore, di vivere anche per loro, di farsi custode della famiglia perduta.
In questi versi emerge la morale più alta di tutta la poesia pascoliana. La pietà come forma suprema di bontà, l’amore come dovere verso chi non può più amare.
La madre non chiede di essere pianta, ma di essere onorata con la vita: “Non far piangere… chi tanto soffrì!” È una voce che non consola, ma che educa. È la coscienza morale che il poeta sente nascere dentro di sé.
La memoria come resurrezione
Nel finale, Pascoli passa dal ricordo alla visione. Le ultime strofe non raccontano più l’orrore del lutto o la miseria del dolore, ma un momento di dolcezza assoluta, il ricordo dell’infanzia.
La voce materna ritorna come quella che un tempo lo cullava, lo addormentava con il suo canto, gli posava la mano sul capo:
che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!
Qui la poesia si trasforma in tenerezza, in una visione quasi sacrale della madre. Il pianto diventa tepore, la tristezza si fa carezza. È la memoria che salva, che restituisce vita attraverso la poesia.
Il poeta rivede la madre non più nella morte, ma nella luce del suo amore.
L’ultima parola: il nome come eredità
Negli ultimi versi, Pascoli ricrea l’istante più intimo e universale dell’intero componimento:
Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso… Zvanì…
L’ultima parola della poesia è la stessa della prima voce udita: Zvanì.
Tutto il poema si chiude come si era aperto, in un cerchio perfetto. Ma ora quella parola non è più solo dolore, è redenzione. Non è un comando, non è un rimprovero, è “quasi un compianto”, un misto di tristezza e di speranza.
Pascoli sente che quella voce continua ancora a parlargli, a ricordargli la bontà, la pietà, la necessità di vivere. Il nome che la madre gli dona diventa eredità morale, la voce che lo accompagnerà per sempre.
Con quell’ultima sillaba, Pascoli trasforma la morte in presenza, la memoria in preghiera, la poesia in un atto d’amore eterno. La voce della madre non è più soltanto un ricordo, ma diventa la voce della vita stessa, quella che continua a chiamare ciascuno di noi anche nel silenzio.
La poesia come redenzione e sopravvivenza
Da quel silenzio colmo di assenze nasce la poesia stessa. In La voce, Giovanni Pascoli capisce che non può più parlare con i suoi cari come un tempo, ma può parlare di loro, attraverso di loro.
La voce materna, che nella realtà è ormai sepolta, nella poesia diventa presenza continua, guida morale, respiro invisibile. Scrivere diventa allora un modo per mantenere vivo il dialogo con i morti, per non lasciarli dissolvere nel nulla.
Ogni verso è un atto di fedeltà al passato, un gesto d’amore che riporta alla luce ciò che la terra ha nascosto. Il poeta comprende che, se la vita terrena finisce, la parola può continuare a dare forma alla vita, a riempire il silenzio con memoria e compassione.
È in questo senso che La voce è anche un atto di rinascita, non solo per Pascoli, ma per chiunque abbia conosciuto la perdita. La poesia diventa la lingua dei morti e dei vivi insieme, l’unico luogo dove il dialogo non si interrompe mai.
Attraverso la parola, Pascoli riscatta la fame, la prigionia, la morte, e ne fa materia di conoscenza e di amore. Non scrive per sfuggire al dolore, ma per abitarlo, per trasformare la ferita in significato. È come se dicesse: anche se la voce del mondo tace, anche se la terra chiude la bocca dei morti, la poesia può ancora parlare per loro.
In questo modo, la vita del poeta,segnata dalla perdita, dalla solitudine e dalla miseria, trova un nuovo senso: quello di trasmettere la pietà come forma suprema di resistenza.
Nell’amore per i suoi morti, Pascoli riscopre la parte più umana dell’esistenza, quella che non si lascia distruggere dal tempo. Per lui la poesia non è solo consolazione, ma dovere morale, eredità spirituale, modo di restituire voce a chi non può più farsi ascoltare.
Ecco perché La voce resta una delle opere più alte e universali della letteratura italiana: perché insegna che la vita continua solo se diventa parola, se trova il coraggio di dire ancora “Zvanì”, anche quando tutto sembra ormai perduto.
Dai versi al film, il legame tra La voce e il film Zvanì
Il film Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli, diretto da Giuseppe Piccioni e scritto insieme a Sandro Petraglia, nasce proprio dal cuore della poesia La voce, che ne diventa il filo invisibile.
La storia si apre nel 1912, con il funerale del poeta, e da lì torna indietro nel tempo per ricostruire il privato di un uomo che tutti pensiamo di conoscere, l’autore de La cavallina storna, il teorico del “fanciullino”, ma che resta in buona parte avvolto nel mistero.
L’essere rimasto orfano a undici anni influì in modo decisivo sulla sua vita e sulla sua poesia, ma il film sceglie di esplorare il lato più intimo di quel dolore, ovvero il legame con le sorelle, Mariù e Ida, le uniche superstiti del nido familiare spezzato.
Mariù, interpretata da Benedetta Porcaroli, è devota al fratello, quasi votata alla sua custodia affettiva e spirituale. Ida, invece, impersonata da Liliana Bottone, è più inquieta, desiderosa di libertà, simbolo di una femminilità che vorrebbe vivere al di fuori della tragedia.
Nel ruolo di Giovani Pascoli, Federico Cesari restituisce la fragilità e la grazia di un uomo costantemente in bilico tra l’intelligenza e la ferita.
Completano il cast Margherita Buy e Sandra Ceccarelli, con brevi apparizioni di Giosué Carducci e Gabriele D’Annunzio, il primo rigido e retorico, il secondo seduttore e ironico.
La regia alterna il presente funebre ai ricordi, in un fluire continuo di flashback che trasformano la memoria in linguaggio visivo, come se la pellicola fosse essa stessa un’eco della poesia. Il film, infatti, è costruito come La voce, procede per ondate emotive, non per cronologia, muovendosi tra ricordo e sogno, tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Piccioni e Petraglia non si limitano a raccontare il poeta che scrive, ma l’uomo che ascolta. Quello che sente ancora parlare la madre, che vive circondato da donne e presenze, che cerca nella parola un modo per placare l’assenza.
La poesia La voce diventa così la chiave di lettura di tutto il film, il soffio originario da cui nasce la sensibilità di Pascoli, il trauma da cui scaturisce la sua poesia, l’amore che ne attraversa la vita come un’eco lontana e incessante.
Se in La voce il richiamo della madre “piena ha la bocca di terra” è l’inizio della sua poesia, nel film Zvanì quella stessa voce è il motore della memoria, la ragione per cui la vita e la morte continuano a parlarsi, la prova che l’amore può vincere anche il silenzio della terra.
E forse è questo il messaggio più grande che la poesia e il film condividono. La vera voce di Giovanni Pascoli non appartiene ai libri né al cinema, ma a quell’amore che continua a chiamarci, tenero e inesorabile, dal fondo del tempo.