La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi è una poesia che mette al centro la ribellione del poeta contro la natura malvagia che gli ha negato ogni cosa, anche la speranza. Non resta che la fine per sopravvivere al dolore, alla sofferenza e all’infelicità di un destino malvagio.
La sera del dì di festa è un idillio composto, molto probabilmente, a Recanati nel 1820. La poesia fu pubblicata con il titolo La sera del giorno festivo per la prima volta nel 1825 sul Nuovo Ricoglitore milanese di Antonio Fortunato Stella nel numero del dicembre 1825.
L’Idillio venne poi inserita nella raccolta Versi edita Stamperia delle Muse di Bologna nel 1826. La poesia fu inserita nei Canti pubblicati per la prima volta a Firenze da Guglielmo Piatti nel 1831. Il componimento assunse il titolo attuale solo nel 1835, quando venne pubblicata la seconda edizione dei Canti, Napoli 1835.
Ma leggiamo questa meravigliosa poesia di Giacomo Leopardi per coglierne il profondo significato.
La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
La sera del dì di festa, il significato della poesia
La sera del dì di festa è una poesia di Giacomo Leopardi che mette in scena gli aspetti più profondi dell’esistenza del poeta. In lui c’è la voglia disperata di volersi ribellare ad una Natura infame, ad un destino sadico.
La sera del dì di festa inizia con la bellissima descrizione di una splendida sera, probabilmente estiva, in cui come in altre sue poesie Leopardi scruta tutto l’ambiente che lo circonda immergendosi intimamente nella natura.
Tutto è calmo, tranquillo intorno a lui. Stimolato da questa pace esteriore, Giacomo Leopardi si rivolge alla donna amata recriminando che mentre lei dorme placida, come tutto ciò che in quell’attimo vive all’esterno, lui è solo a vivere un immenso senso di sofferenza di dolore.
Non è l’amore non corrisposto il protagonista dei versi iniziali, bensì l’indifferenza umana nei riguardi di chi vive il proprio dolore esistenziale. La donna amata rispecchia il concento intrinseco della solitudine umana nei confronti del mondo che lo circonda e dell’universo che l’ha creato.
Giacomo Leopardi contrappone al suo essere sveglio e inquieto, la pace che invece vive la donna lontana nella sua stanza che godendo della notte tranquilla vive i propri sogni sereni, fatti di felicità e speranza.
La veglia della sera l’incubo del vivere
Quell’essere sveglio invece per Giacomo Leopardi rappresenta l’incubo del vivere un’esistenza priva di qualsiasi speranza.
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
La Natura ha donato a Leopardi solo infelicità, “Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto”, negandogli quella speranza che è l’unica via per affrontare la vita almeno con l’illusione di poter godere domani gioia e felicità.
No, per Giacomo Leopardi, in questa poesia e non solo, la natura è stata una cattiva matrigna, togliendogli quella “speme” che è la cosa più importante per gli esseri umani.
Giacomo Leopardi, poi, evidenzia, metaforicamente, l’esperienza del giorno festivo, “Questo dì fu solenne”, molto probabilmente la celebrazione della festa di san Vito, il Patrono di Recanati, che si svolge il 15 giugno.
Il poeta contrappone il dolce sognare della donna, che ha goduto dei “trastulli” del giorno festivo e le attenzioni avute da parte di diversi aspiranti amanti, “a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te”, alla triste e dolorosa disillusione del poeta, che in quel “dì di festa” dall’amata ha avuto solo indifferenza.
Per Leopardi quella notte è un incubo a occhi aperti. L’esclusione delle attenzioni della donna desiderata lo fa impazzire, “Mi getto, e grido, e fremo”.
Tutto è destinato a finire dal piccolo al grande
E in questa profonda angoscia il poeta rappresenta la fine di ogni cosa attraverso “il solitario canto Dell’artigian” che torna a casa dopo i “sollazzi” del giorno di festa.
Si sente stringere il cuore prendendo coscienza che ogni cosa è destinata a finire, e lui vivrà quella fine senza aver potuto godere delle fortune dell’amata donna e dello stesso artigiano.
Guardando indietro nel percorso della vita che conduce alla fine per il poeta c’è solo tragico dolore. Ma, qualsiasi siano state le gesta umane, la fine di quel giorno arriva sempre.
La vita si spegne, e il passaggio dal terreno al cosmico non può che essere la via per far finire la sua angosciante sofferenza, “tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona”.
Il pensiero di Giacomo Leopardi nell’ultima parte della poesia ritorna a quando era bambino e già quella sofferenza del giorno festivo era presente. Mentre il mondo viveva le proprie gioie, il poeta “doloroso in veglia, premea le piume”. Stringeva il cuscino forte nell’attesa spasmodica che tutti finisse.
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
La metafora della vita e della morte
La sera del dì di festa come abbiamo potuto percepire esprime la metafora della vita e della morte. Quella vita che per tanti è stata gioia e felicità è destinata a finire per tutti. Ma, rispetto alle gioie terrene la disillusione di Giacomo Leopardi è totale. Non c’è nessuna percezione di cosa sia la speranza.
Ciò che chiaro che l’essenza della poesia è il doloroso volgere del tempo che vive l’autore, più la vita va avanti e più la speranza sembra sparire come vocabolo e come sentire.
Il Canto di Giacomo Leopardi evidenzia l’inganno della natura, che a prima vista gli appare serena e benevola, ma che in realtà lo condanna all’infelicità. Se guardiamo bene la poesia esprime la stessa pace tra la Natura e la donna amata. Ciò che vive angoscia è l’anima del poeta che vive il senso del passare del tempo.
I due momenti emblematici sono il momento iniziale, ovvero quando si affaccia alla finestra e rivolge le proprie recriminazioni alla presunta amata e il momento in cui l’artigiano “sollazzato e forse un po’ su di giri” torna al suo “povero ostello”.
Il vero “dì di festa” è solo nei sogni e quindi nei ricordi della donna e quindi rappresenta il passato. L’attimo doloroso e di acuta sofferenza è breve e veloce come il presente. Mentre tutto all’esterno è placido, gioioso, calmo, all’interno c’è solo sofferenza e dolore.
L’esterno è la Natura indifferente alle speranze umane, l’interno è l’umanità nella sua sete di speranza non ricambiata.
La fine della giornata, ovvero l’attimo in cui anche l’ultimo ritardatario torna a casa è il futuro, che coincide con la fine di ogni cosa, ovvero la morte. Il XIII Canto di Giacomo Leopardi non prevede il domani, finisce con il “dì di festa”.
La ribellione di Leopardi in un Canto
In questa poesia c’è il pensiero che Giacomo Leopardi viveva negli anni in cui compose questo splendido capolavoro. L’Idillio esprime il senso che ogni cosa dalla più grande alla più piccola è destinata a finire. Anche il “grande impero di quella Roma” nella sua enorme vanità ha conosciuto la fine.
Anche l’ultima parte della poesia, ovvero il ricordo dell’infanzia è fondamentale per far capire che la vita del poeta ormai guarda all chiusura della vita.
La natura ha imposto al poeta solo dolore, è stata ingiusta con lui. Attraverso questo Canto Giacomo Leopardi vuole mostrare tutta la sua ribellione. La recriminazione nei riguardi della donna amata e la protesta nei riguardi di una vita ingiusta e di una natura molto cattiva con lui.
La conseguenza che si avverte è il desiderio della fine, della morte, l’unica soluzione terapeutica esistenziale possibile per smetterla di soffrire.