Sylvia Plath ha spesso intrecciato la propria esperienza personale con riflessioni ampie e universali sul ruolo della donna, sul corpo e sul peso delle convenzioni sociali: è una delle voci femminili più tormentate e forti del ‘900, forse la più famosa, e la sua tragica fine ha contribuito a renderla oggi uno dei soggetti simbolo della depressione femminile. I suoi “Diari”, famosissimi e virali sul BookTok, sono una lettura struggente forse ancor più de “La campana di vetro”, eguali solo a poesie come “L’aspirante” — “The Applicant” — di cui parliamo oggi.
Scritta nel 1962 e inclusa nella raccolta postuma “Ariel” (1965), “L’aspirante” rappresenta un esempio lampante della sua scrittura tagliente e corrosiva.
La poesia si presenta come un’intervista, o una selezione di lavoro, ma in realtà è una feroce satira sul matrimonio e sul mercato sociale che trasforma gli individui – soprattutto le donne – in prodotti da consumare.
“L’aspirante” di Sylvia Plath
Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l’hai
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia,
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma,Rattoppi a qualcosa che manca? Ah
No? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere.
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una manoChe la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
E a fare ogni cosa che gli dirai.
La vorresti sposare?
È garantita,Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore.
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme.
Che te ne pare di questo vestito –Un po’ rigido e nero, ma niente male.
Lo vorresti sposare?
È impermeabile, infrantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile
Credi a me, ti ci farai sotterrare.E adesso, scusa, hai vuota la testa.
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci fuori dal guscio
. Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina biancaMa in venticinqu’anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare.
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare.E funziona, non ha una magagna.
Qua c’è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?
Un colloquio glaciale
La poesia si apre con una domanda:
“Prima di tutto ce li hai i requisiti? / Ce l’hai…”
Un incipit freddo, secco, come la prima domanda di un interrogatorio o un esame clinico. La voce poetica assume i toni di un funzionario che valuta un candidato: l’“aspirante” del titolo. Ma invece di chiedere qualità spirituali o morali, si cercano protesi e difetti fisici: “Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia, / un tirante o un uncino, / seni di gomma, inguine di gomma”. Un corpo che non è più naturale, ma fatto di pezzi sostituibili.
La logica che guida il discorso è quella del consumismo e della mercificazione, temi che Sylvia Plath sentiva fortemente in una società come quella americana degli anni ’50-’60.
La sposa è un prodotto garantito
La seconda parte della poesia introduce l’errore, l’unico difetto, ma anche tutte le caratteristiche di cui è in dotazione questo magnifico oggetto che è la donna:
“Vuota? Vuota. Ma ecco una mano
che la riempie, disposta
a porgere tazze di tè e sgominare emicranie…
La vorresti sposare?
È garantita.”
Dunque il venditore freddo non si rivolge più a lei, ma a un uomo qualunque, al quale la presenta come un oggetto in vendita, una merce con garanzia. Il matrimonio, nelle parole di Plath, non appare come un’unione d’amore, ma come una transazione commerciale, dove lo sposo riceve un prodotto “funzionante” che svolgerà le mansioni richieste: servire il tè, consolare, prendersi cura… Il tono ironico e caustico colpisce con forza, svelando l’assurdità di una società che riduce la donna a un accessorio indispensabile ma privo di voce, rendendola “vuota” (V. 10).
La bambola perfetta
La parola che le compete è quella che ha in dotazione: è una bambola programmata:
“Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
sa parlare, parlare, parlare.”
La ripetizione di “parlare” rafforza il senso di alienazione: la donna è una macchina addestrata, un automa che compie le funzioni sociali richieste, ma non le interiorizza e non agisce sua sponte. Non c’è spazio per il desiderio individuale o la libertà: ciò che conta è la sua utilità, la capacità di essere conforme agli standard.
Il matrimonio come contratto sociale
La poesia si conclude con un tono imperativo e quasi minaccioso:
“Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?”
Il matrimonio non è una scelta libera, ma un destino inevitabile, un obbligo sociale che imprigiona. Il ripetersi della parola “sposare” simula la voce ossessiva della società che spinge l’individuo a conformarsi. Non c’è spazio per il sentimento: il rito matrimoniale è visto come un meccanismo che trasforma le persone in ingranaggi di un sistema più grande.
“L’aspirante” e l’importanza di Hughes
Nel 1956 la poetessa aveva sposato il poeta inglese Ted Hughes, con cui visse un rapporto intenso e tormentato, segnato da tradimenti, passioni e conflitti. Negli anni successivi, mentre si trovava a Londra e poi a Devon, Plath iniziò a percepire il peso del ruolo domestico che le era stato imposto. Pur essendo un’autrice di talento straordinario, era costretta a dividersi tra scrittura, maternità e i doveri di moglie.
Nel 1962, anno in cui scrisse “L’aspirante”, il matrimonio con Hughes stava crollando a causa della relazione di lui con Assia Wevill. È evidente che la poesia nasca da questo contesto: Plath trasforma la sua frustrazione e la sua rabbia in un linguaggio satirico che smaschera le dinamiche di potere tra i sessi.
Non a caso, “L’aspirante” è stata letta anche come una denuncia del ruolo subalterno della donna negli anni ’50 e ’60, quando il modello dominante era quello della casalinga perfetta, devota al marito e alla famiglia.
Il valore universale della poesia
Nonostante siano passati molti anni da quanto Sylvia Plath abbia messo mano alla penna per scrivere questa poesia, “L’aspirante” mantiene una straordinaria attualità.
I progressi nella parità di genere ci sono stati, vero, ma sotto un velo di apparenza si nasconde ugualmente questa convenzione che vuole la donna subalterna all’uomo e sempre pronta a curarsi di lui e della casa. Molte delle dinamiche denunciate da Plath resistono ancora: la pressione sociale sul matrimonio, la riduzione delle donne a ruoli funzionali, l’idea di dover essere “complete” solo attraverso un partner…
La forza della poesia sta proprio nella sua capacità di svelare il lato oscuro del quotidiano, trasformando l’esperienza personale in un simbolo universale.
Con il suo linguaggio tagliente e teatrale, Plath ci ricorda quanto il matrimonio — e più in generale i rapporti sociali — possano trasformarsi in una prigione, se privati della libertà e della verità dell’essere umano.