In me tu vedi (Sonetto 73) di William Shakespeare è una poesia che che nella fragilità della fine svela il segreto dell’amore assoluto, quello autentico, puro.
In un mondo ossessionato dall’apparenza e dall’eterna giovinezza, il Sonetto 73 ricorda una verità dimenticata. La consapevolezza di perdere qualcuno è il carburante più potente per l’amore. Non si amano le persone perché sono perfette o immortali. Si amano perché sono destinate a svanire, a finire. È la brevità del tempo che è concesso insieme a rendere ogni istante sacro.
In questo senso, In me tu vedi non è una poesia sulla morte, ma un inno alla presenza. È la dimostrazione che l’amore vero resta seduto accanto al fuoco, anche quando sta per diventare cenere.
Il Sonetto 73 è uno dei più famosi e profondi dei 154 sonetti della raccolta di poesie Shake-Spears Sonnets (I sonetti di Shakespeare). L’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1609 a Londra, in un volume in-quarto (un formato di stampa) dall’editore Thomas Thorpe. Il frontespizio originale recitava SHAKE-SPEARES SONNETS. Never before Imprinted (I Sonetti di Shake-speare. Mai stampati prima).
leggiamo questa stupenda poesia del “Bardo” inglese. per scoprire l’immendso significato.
In me tu vedi (Sonetto 73) di William Shakespeare
In me tu vedi quel periodo dell’anno
quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.Questo in me tu vedi, perciò il tuo amor si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.
In me thou see’st (Sonnet 73), William Shakesepare
That time of year thou mayst in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruin’d choirs, where late the sweet birds sang.In me thou see’st the twilight of such day
As after sunset fadeth in the west,
Which by and by black night doth take away,
Death’s second self, that seals up all in rest.In me thou see’st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire,
Consum’d with that which it was nourish’d by.This thou perceiv’st, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.
Il tempo che fugge e la resistenza dell’amore
Il Sonetto 73 è una poesia di William Shakespeare che non è una semplice descrizione della vecchiaia, ma una sorta di cronometro dell’esistenza. Il “Bardo” costruisce il poema su una struttura “a imbuto” o a “zoom”, restringendo progressivamente il campo del tempo per creare un senso di urgenza crescente.
Leggendo la poesia emerge il senso dell’accelerazione del tempo. Si passa dalla durata di un anno (l’autunno nella prima strofa), alla durata di un giorno (il tramonto nella seconda), fino alla durata effimera di un attimo (il fuoco che muore nella terza). La fine non è lontana, ma è qui, adesso.
La vecchiaia non toglie solo la bellezza fisica, ma anche la “musica” e la vitalità creativa. La vita è descritta come un processo che consuma dentro. Più si vive, si avvicina la fine, proprio come un fuoco consuma il legno che lo nutre. Ma tutto questo dolore serve a preparare il terreno per il tema finale. L’amore non come illusione di eternità, ma come atto di coraggio di fronte all’addio.
Un viaggio dentro la fragilità umana e l’amore
Il Sonetto 73 è una confessione sussurrata a voce bassa, intima e disarmante. William Shakespeare non descrive la vecchiaia dall’esterno, ma porta il lettore dentro la sensazione fisica del tempo che finisce. Ecco il significato profondo che si cela dietro ogni strofa.
Il freddo della solitudine
In me tu vedi quel periodo dell’anno
quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
La poesia si apre con una sensazione tangibile: il freddo. L’autunno descritto dal poeta non è solo una stagione, ma uno stato d’animo. L’immagine degli alberi spogli, descritti come “nudi archi in rovina”, evoca la vulnerabilità di chi si sente ormai privo di difese. Ma l’elemento più toccante è il silenzio: lì dove un tempo “cantavano gli uccelli”, metafora della gioia, della creatività e della giovinezza, ora resta solo il vuoto. È la presa di coscienza che la stagione della fioritura è terminata per sempre.
L’abbraccio del buio
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
L’immagine si sposta e si fa più cupa. Il poeta si identifica con la luce che svanisce a ovest subito dopo il tramonto. Shakespeare tocca qui una paura ancestrale dell’uomo: l’essere inghiottiti dall’oscurità. La notte viene definita “ombra della morte”, suggerendo che ogni sonno è una piccola prova generale dell’addio definitivo. Non c’è lotta, ma una malinconica rassegnazione. La luce se ne va e non c’è nulla che l’uomo possa fare per trattenerla.
Il paradosso del vivere
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questa è la metafora più intima e crudele. La vita viene paragonata a un fuoco che sta soffocando sotto la sua stessa cenere. Il significato filosofico è potente, il fuoco, per ardere, deve consumare il legno che lo nutre. Allo stesso modo, la vita umana è un processo che consuma se stesso. Le stesse passioni ed energie che ci tengono vivi sono ciò che, lentamente, ci porta alla fine. Vivere significa, inevitabilmente, consumarsi.
La rivelazione dell’amore assoluto
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amor si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.
Dopo tre strofe cariche di mortalità, il finale ribalta ogni aspettativa. L’amato osserva questa decadenza, vede le rovine e la cenere, eppure non fugge. Al contrario, il sentimento si rafforza. Shakespeare consegna qui una verità universale: l’amore autentico non nasce dalla perfezione o dall’illusione di eternità, ma dalla consapevolezza della perdita.
Si ama “meglio” e più intensamente proprio ciò che si sa di dover lasciare a breve. È la fragilità a rendere sacro il legame.
Amare al massimo prima che arrivi il buio
Il Sonetto 73 ci lascia con un messaggio che trafigge i secoli e arriva intatto fino a noi: non abbiamo tempo. In una società che cerca disperatamente di nascondere la vecchiaia e la morte dietro filtri e illusioni di eternità, Shakespeare compie l’atto più rivoluzionario possibile: mette la fine al centro della scena.
Ma non lo fa per spaventare. Lo fa per svegliare.
Questa poesia è un monito contro la tiepidezza dei sentimenti. Il Bardo ci ricorda che ogni volta che diamo per scontata la presenza di chi amiamo, stiamo sprecando il “fuoco” che ci è stato concesso. La mortalità non è una condanna, ma è l’ingrediente segreto che dà sapore alla vita: senza la certezza della notte, non apprezzeremmo mai davvero la luce del tramonto.
La lezione definitiva di William Shakespeare, dunque, non è rassegnarsi al buio, ma usare quella consapevolezza per amare ferocemente, qui e ora. Perché se è vero che tutto è destinato a diventare cenere, è altrettanto vero che, finché la brace arde, abbiamo il dovere di riscaldarci a vicenda. Amare “bene” significa amare subito, prima che l’ultimo uccello smetta di cantare sui rami nudi della nostra esistenza.
