“Il sonnellino” è una delle poesie più suggestive dei “Canti di Castelvecchio”, raccolta del 1903 che segna la piena maturità artistica di Giovanni Pascoli. È qui che il poeta intreccia sapientemente natura, memoria e quella voce segreta che lui stesso chiamava Fanciullino con dei versi che sono al contempo bisogno di bellezza, nostalgia di ciò che è perduto e la precarietà dell’incanto.
Il componimento racconta un momento sospeso tra sonno e veglia: un filo di sogno, un canto di uccelli, un cielo rosato che sembra schiudere la promessa di una felicità pura. Ma è destinato a svanire, come le favole. La realtà irrompe con un tuono improvviso, trasformando l’alba “piaciuta” in una “giornata scialba”.
È tutta la poetica pascoliana: un istante di grazia subito spento, il fragile miracolo che il Fanciullino sa intravedere ma non trattenere.
“Il sonnellino” (1903) di Giovanni Pascoli
Guardai, di tra l’ombra, già nera, del sonno, smarrendo qualcosa
lì dentro: nell’aria non era
che un cirro di rosa.E il cirro dal limpido azzurro
splendeva sui grigi castelli, levando per tutto un sussurro
d’uccelli;che sopra le tegole rosse
del tetto e su l’acque del rio cantavano, e non che non fosse
silenzio ed oblìo: cantavano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore, che cantano forte e non fanno
rumore.E io mi rivolsi nel blando
mio sonno, in un sonno di rosa, cercando
cercando cercando quel vecchio qualcosa; e forse lo vidi e lo presi,
guidato da un canto d’uccelli, non so per che ignoti paesi
più belli…che pure ravviso, e mi volgo,
più belli, a guardarli più buono… Ma tutto mi toglie la folgore…O subito tuono!
ch’hai fatto succedere a un’alba
piaciuta tra il sonno, passata nel sonno, una stridula e scialba
giornata!
Il sogno come nostalgia
“Il sonnellino” è una dichiarazione limpida di ciò che Pascoli cercava nella poesia: non la fuga dal reale, ma il tentativo di trattenere l’attimo in cui la vita sembra buona, semplice, quasi infantile. È un testo che nasce dal bisogno di proteggere quell’istante in cui il cuore si apre alla meraviglia, guidato da un canto, da una sfumatura di cielo.
Qui si avverte il respiro del Fanciullino, la voce interiore che Pascoli teorizzò nell’omonimo saggio con la celebre frase “L’uomo adulto pensa, il fanciullino vede”.
Il poeta è colui che conserva questo sguardo primordiale, capace di trasformare un cirro in sogno e un suono in magia; ma l’adulto, con le sue disillusioni, incombe: il tuono finale è la coscienza che spezza l’incanto.
Eppure, anche nella sconfitta, la poesia salva qualcosa: custodisce la traccia di quell’alba, anche se il giorno sarà “stridulo e scialbo”.
Il Fanciullino tra i versi
“Guardai, di tra l’ombra, già nera, del sonno, smarrendo qualcosa”
L’incipit ci introduce in uno spazio liminare: il sonno è “ombra nera”, un luogo dove qualcosa si perde e scompare. È l’immagine stessa della memoria che sfuma, dell’infanzia che scivola via. Qui il Fanciullino si fa presente: cerca nel buio un residuo di stupore, una luce che resista.
“Cantavano come non sanno cantare che i sogni nel cuore”
È uno dei versi più puri. Gli uccelli cantano senza suono: “forte e non fanno rumore”. È la musica interiore della memoria, quella che non appartiene al mondo fisico ma all’anima. È la lingua del sogno, che solo il poeta – e il suo Fanciullino – sanno decifrare.
“Cercando cercando cercando quel vecchio qualcosa”
La ripetizione triplice è struggente: il poeta è in caccia di un bene perduto, “quel vecchio qualcosa” che non riesce a nominare. È l’infanzia? La madre? Una stagione di innocenza? Non importa: è ciò che l’uomo adulto non può più possedere, ma che il Fanciullino invoca con ostinazione.
“Ma tutto mi toglie la folgore… O subito tuono!”
Qui la poesia si spezza. La folgore è la bellezza improvvisa, il miracolo della visione; il tuono è la realtà che irrompe con brutalità. L’alba “piaciuta” svanisce in una “giornata scialba”: è la parabola della vita adulta, che soffoca il sogno sotto il peso delle ore quotidiane.
Giovanni Pascoli: il poeta che custodisce l’infanzia
Giovanni Pascoli (1855-1912) fu poeta e teorico di una rivoluzione silenziosa: dare voce alle piccole cose, restituendo alla poesia uno sguardo vergine. La sua teoria del Fanciullino è la chiave per leggere testi come “Il sonnellino”: il poeta è colui che non smette di stupirsi, anche quando la vita lo ferisce.
Dietro i versi limpidi dei “Canti di Castelvecchio” si nasconde una biografia segnata dal trauma: orfano a dodici anni per l’assassinio del padre, Pascoli visse lutti e precarietà che lo spinsero a cercare, nella natura e nel sogno, una compensazione.
Ma non è mai una consolazione facile: ogni armonia è provvisoria, ogni bellezza è fragile. Il tuono che chiude la poesia non è solo un fenomeno atmosferico: è la condizione stessa dell’esistenza.