“Il pianto della scavatrice” (1956), la poesia di Pasolini che da voce alle periferie

1 Luglio 2025

Nella poesia “Il pianto della scavatrice”, Pasolini ascolta la voce della città di Roma che cambia, da Rebibbia a Trastevere: un grido di condanna ma anche di speranza

“Il pianto della scavatrice” (1956), la poesia di Pasolini che da voce alle periferie

In un’Italia lanciata verso il boom economico, “Il pianto della scavatrice” è un grido sordo che Pier Paolo Pasolini pianta come un seme nelle borgate romane, dove l’asfalto si sovrapponeva all’argilla un tempo utile ai campi. Si sente qualcosa gemere in sottofondo, i palazzi crescere come artigli: nuove case, nuove vite, nuovi lavori e rimpianti. Solo chi ha vissuto con le mani nella terra sa distinguere il canto dalla ferita.

“Il pianto della scavatrice”, poesia del 1956, non è un lamento sul progresso, ma sul suo prezzo umano. È un monito in versi per chi ancora crede che la trasformazione sia sempre redenzione.

Vi avevamo già parlato di “Appendice I”, poesia proposta tra le tracce della Maturità 2025; adesso vogliamo proporvi un’altra, grandissima riflessione in più parti che potete trovare nella raccolta “Le ceneri di Gramsci” (1957) attualmente edita Garzanti (2015) con una bellissima prefazione di Giuseppe Leonelli.

“Il pianto della scavatrice” di Pier Paolo Pasolini

I

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

II

Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città

e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno

era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
unghi crepuscoli davanti alle carte

ammucchiate sul tavolo, tra strade di ango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte…

Passano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva

frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.

Rinnovato dal mondo nuovo,
libero – una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà

che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.

Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria

di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,

e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo

di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,

venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo

che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,

bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.

Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco

di donnette venute dai monti
Sabini, dall’Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme

di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,

i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea

affondati nel loro angolo
tra un’ultima striscia d’erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio…

era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa

maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,

chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita

nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,

come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l’ultimo
sventolio del rotocalco: osso

dell’esistenza quotidiana,
pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana.

III

E ora rincaso, ricco di quegli anni
così nuovi che non avrei mai pensato
di saperli vecchi in un’anima

a essi lontana, come a ogni passato.
Salgo i viali del Gianicolo, fermo
da un bivio liberty, a un largo alberato,

a un troncone di mura – ormai al termine
della città sull’ondulata pianura
che si apre sul mare. E mi rigermina

nell’anima – inerte e scura
come la notte abbandonata al profumo
una semenza ormai troppo matura

per dare ancora frutto, nel cumulo
di una vita tornata stanca e acerba…
Ecco Villa Pamphili, e nel lume

che tranquillo riverbera
sui nuovi muri, la via dove abito.
Presso la mia casa, su un’erba

ridotta a un’oscura bava,
una traccia sulle voragini scavate
di fresco, nel tufo – caduta ogni rabbia

di distruzione – rampa contro radi palazzi
e pezzi di cielo, inanimata,
una scavatrice…

Che pena m’invade, davanti a questi
attrezzi
supini, sparsi qua e là nel fango,
davanti a questo canovaccio rosso

che pende a un cavalletto, nell’angolo
dove la notte sembra più triste?
Perché, a questa spenta tinta di sangue,

la mia coscienza così ciecamente resiste,
si nasconde, quasi per un ossesso
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?

Perché dentro in me è lo stesso senso
di giornate per sempre inadempite
che è nel morto firmamento

in cui sbianca questa scavatrice?

Mi spoglio in una delle mille stanze
dove a via Fonteiana si dorme.
Su tutto puoi scavare, tempo: speranze

passioni. Ma non su queste forme
pure della vita… Si riduce
ad esse l’uomo, quando colme

siano esperienza e fiducia
nel mondo… Ah, giorni di Rebibbia,
che io credevo persi in una luce

di necessità, e che ora so così liberi!

Insieme al cuore, allora, pei difficili
casi che ne avevano sperduto
il corso verso un destino umano,

guadagnando in ardore la chiarezza
negata, e in ingenuità
il negato equilibrio – alla chiarezza

all’equilibrio giungeva anche,
in quei giorni, la mente. E il cieco
rimpianto, segno di ogni mia

lotta col mondo, respingevano, ecco,
adulte benché inesperte ideologie…
Si faceva, il mondo, soggetto

non più di mistero ma di storia.
Si moltiplicava per mille la gioia
del conoscerlo – come

ogni uomo, umilmente, conosce.
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
furono vivi nelle vive esperienze.

Mutò la materia di un decennio d’oscura
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
che più pareva essere ideale figura

a una ideale generazione;
in ogni pagina, in ogni riga
che scrivevo, nell’esilio di Rebibbia,

c’era quel fervore, quella presunzione,
quella gratitudine. Nuovo
nella mia nuova condizione

di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
i pochi amici che venivano
da me, nelle mattine o nelle sere

dimenticate sul Penitenziario,
mi videro dentro una luce viva:
mite, violento rivoluzionario

nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.

IV

Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verro

o errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosa

dagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini… E infatti
cammino per una strada che avanza

tra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso…
Trasportato dall’onda dei passi,

questa che lascio alle spalle, lieve e
misero,
non è la periferia di Roma: “Viva
Mexico!” è scritto a calce o inciso

sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.

Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,

la città, mezza vuota, benché sia l’ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa – o del vespro che indora

i bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.

Da un gran silenzio le strade sono invase:
si perdono i selciati un po’ sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il
tempo,
e due lunghi listoni di pietra

corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzetto

perduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s’aprano sereni, o un pozzetto

con bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.

Si apre sulla cima del colle l’erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verde

d’un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.

Uno spazio che tremola celeste
o appena cereo… Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzetta

sospesa nel cielo appenninico:
s’interna fra case più strette, scende
un po’ a mezza costa: e più in basso
quando le barocche casette diradano
ecco apparire la valle – e il deserto.
Ancora solo qualche passo

verso la svolta, dove la strada
è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,

quasi fosse crollata la chiesa,
si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un’abside, pesta di volute

lungo le cancellate cicatrici
del crollo – da cui soltanto essa,
l’immensa conchiglia, sia rimasta

a spalancarsi contro il cielo.
È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un’aria, lieve,

disperata,
che incendia la pelle di dolcezza…
È come quegli odori che, dai campi

bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,
soffiano sulla città nei primi

giorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capire

se siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepidito

dal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell’aria

che come un tepore o una luce
respiro guardando la vallata

V

Un po’ di pace basta a rivelare
dentro il cuore l’angoscia,
limpida, come il fondo del mare

in un giorno di sole. Ne riconosci,
senza provarlo, il male
lì, nel tuo letto, petto, cosce

e piedi abbandonati, quale
un crocifisso – o quale Noè
ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro

dell’allegria dei figli, che
su lui, i forti, i puri, si divertono…
il giorno è ormai su di te,

nella stanza come un leone dormente.

Per quali strade il cuore
si trova pieno, perfetto anche in questa
mescolanza di beatitudine e dolore?

Un po’ di pace… E in te ridesta
è la guerra, è Dio. Si distendono
appena le passioni, si chiude la fresca

ferita appena, che già tu spendi
l’anima, che pareva tutta spesa,
in azioni di sogno che non rendono

niente… Ecco, se acceso
alla speranza – che, vecchio leone
puzzolente di vodka, dall’offesa

sua Russia giura Krusciov al mondo –
ecco che tu ti accorgi che sogni.
Sembra bruciare nel felice agosto

di pace, ogni tua passione, ogni
tuo interiore tormento,
ogni tua ingenua vergogna

di non essere – nel sentimento –
al punto in cui il mondo si rinnova.
Anzi, quel nuovo soffio di vento

ti ricaccia indietro, dove
ogni vento cade: e lì, tumore
che si ricrea, ritrovi

il vecchio crogiolo d’amore,
il senso, lo spavento, la gioia.
E proprio in quel sopore

è la luce… in quella incoscienza
d’infante, d’animale o ingenuo libertino
è la purezza… i più eroici

furori in quella fuga, il più divino
sentimento in quel basso atto umano
consumato nel sonno mattutino.

VI

Nella vampa abbandonata
del sole mattutino – che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi

riscaldati – disperate
vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,

di piazzette vuote, d’innocenza.
Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenza

d’una dozzina d’anziani operai,
con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,

le cui lotte contro gli sparsi
blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.

Ma tra gli scoppi testardi della
benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,

quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,

così pazzo di dolore, che, umano,
subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,

rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,

nell’ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po’ d’aria di mare…

A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori – accompagnata

dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine

dell’orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere… È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,

– è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: è qui, che brucia
n ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell’impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell’altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza.

Una poesia dedicata a Roma

Nella poesia non c’è retorica, ma un dolore consapevole. Perché chi ha davvero amato un luogo, lo riconosce anche quando cambia pelle. È un po’ come quando, anno dopo anno, si frequenta la stessa spiaggia in cui si è andati per la prima volta da bambini. Prima c’erano solo gli ombrelloni e le sdraio, poi i lettini, infine la doccia, e oggi anche il bar.

Nei versi di “Il pianto della scavatrice”, si affacciano Trastevere, Rebibbia, Viale Marconi: non come sfondo, ma come personaggi e testimoni di un’educazione sentimentale che non passa dai libri, bensì dal fango, dalle voci alte dei ragazzi in tuta, dal calore di un’osteria che chiude troppo tardi.

È la Roma che muta le sue sembianze, quella che piange, perché echeggia nelle lamentele della macchina.

Penna in mano: il contesto storico della poesia

Pasolini scrive questa poesia a Roma, dopo l’espulsione dal PCI e dall’ambiente friulano. Ci troviamo in un periodo di rapida trasformazione sociale, in un’Italia cerca di lasciarsi alle spalle il tormento della Seconda Guerra Mondiale e punta in alto con un processo di urbanizzazione e modernizzazione attraverso la borghesia.

Ciò che però non cambia in questo contesto è lo sguardo critico con cui viene osservata l’omosessualità. Pasolini si sente ancora messo all’angolo, osteggiato, la pecora nera in una famiglia dove il padre è un ufficiale di fanteria dell’esercito italiano, simpatizzante fascista, arrestato per un breve periodo nel 1942; e il fratello un ormai deceduto partigiano cattolico.

Il cuore ricorda lo scandalo al nord, quello scandalo che ha tagliato il bel rapporto che aveva con sua madre, e trova conforto nel sottoproletariato delle borgate, che diventa uno dei fulcri della sua poetica e ideologia.

La giovinezza e il rimpianto

In “Il pianto della scavatrice” rimanda ai campi, alla purezza umana contadina. Un’esplosione incontenibile e irripetibile. Una giovinezza vissuta a contatto con un popolo che non ha letto Marx, ma ne incarna senza saperlo la fame, la lotta, la gioia. Ragazzi “sporchi, ridenti”, “stridenti nelle canottiere a pezzi”, con il sole africano addosso. In loro, Pasolini trova ciò che altrove gli è negato: la possibilità di una comunione autentica, magari fugace, ma mai addomesticata.

La fine, il dolore e le lacrime di ferro

Eppure, tutto ciò è destinato a finire. A diventare “isolato”, “decoroso”, “spento dolore”. La scavatrice diventa allora simbolo del passaggio: non solo urbanistico, ma esistenziale. Le sue lacrime di ferro sono quelle dell’autore stesso, che ha creduto — e crede ancora — nel potere del contatto, dell’empatia, della materia che non mente.

La periferia non è solo un luogo: è una frontiera. Lì l’uomo si disfa e si rifà, come il quartiere sotto i colpi delle ruspe. La “scavatrice” diventa simbolo di quel progresso industriale che trasforma e soffoca la terra, i luoghi dell’infanzia, della memoria, della poesia; e “il pianto” diviene voce, rende l’oggetto umano.

Un concetto che ricorda molto l’opera d’arte “Can’t Help Myself” di Sun Yuan Peng Yu (2019), divenuta virale online solo dal 2023 grazie al nuovo allestimento della Biennale di Venezia.

Una poesia che è un grido di speranza

Ma la poesia non si chiude con una condanna. Il grido della scavatrice è disperato, sì, ma è anche fecondo. La città che muta — e con essa l’Italia intera — piange perché perde qualcosa. Ma quel pianto è anche una nascita: niente più campi, né prati, ma nuove case e nuovi palazzi. Opportunità e persone. Modi di essere.

E se Pasolini può ancora camminare “tra i primi prati primaverili, sfatti in una luce di paradiso”, allora forse c’è ancora spazio per la speranza. Una speranza che non è mai retorica, mai piena. Ma che si aggrappa alle “piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre”.

E mentre la scavatrice urla tra i palazzi accecati, diventa chiaro che quella voce non è solo sua. È anche di chi ha amato Roma prima che diventasse capitale. Di chi l’ha odiata mentre si trasformava. Di chi, ancora oggi, cerca nella polvere qualcosa che somigli alla verità.

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