In un’Italia lanciata verso il boom economico, “Il pianto della scavatrice” è un grido sordo che Pier Paolo Pasolini pianta come un seme nelle borgate romane, dove l’asfalto si sovrapponeva all’argilla un tempo utile ai campi. Si sente qualcosa gemere in sottofondo, i palazzi crescere come artigli: nuove case, nuove vite, nuovi lavori e rimpianti. Solo chi ha vissuto con le mani nella terra sa distinguere il canto dalla ferita.
“Il pianto della scavatrice”, poesia del 1956, non è un lamento sul progresso, ma sul suo prezzo umano. È un monito in versi per chi ancora crede che la trasformazione sia sempre redenzione.
Vi avevamo già parlato di “Appendice I”, poesia proposta tra le tracce della Maturità 2025; adesso vogliamo proporvi un’altra, grandissima riflessione in più parti che potete trovare nella raccolta “Le ceneri di Gramsci” (1957) attualmente edita Garzanti (2015) con una bellissima prefazione di Giuseppe Leonelli.
“Il pianto della scavatrice” di Pier Paolo Pasolini
I
Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angosciail vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantatodella notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemichele forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neripiazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini mistiagli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appareancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzonidi lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventorichiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressadelle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contatocon pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capireche pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sonofratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interivivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fareesperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terramuta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflettelassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di pagliadi vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placiderisuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasaquando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.II
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla cittàe dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritornoera un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
unghi crepuscoli davanti alle carteammucchiate sul tavolo, tra strade di ango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte…Passano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che parevafrutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.Rinnovato dal mondo nuovo,
libero – una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtàche umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegriadi chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondodi borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondoche poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza ecodi donnette venute dai monti
Sabini, dall’Adriatico, e qua
accampate, ormai con tormedi deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolineaaffondati nel loro angolo
tra un’ultima striscia d’erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio…era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questamaturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vitanella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l’ultimo
sventolio del rotocalco: ossodell’esistenza quotidiana,
pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per esserefin troppo miseramente umana.
III
E ora rincaso, ricco di quegli anni
così nuovi che non avrei mai pensato
di saperli vecchi in un’animaa essi lontana, come a ogni passato.
Salgo i viali del Gianicolo, fermo
da un bivio liberty, a un largo alberato,a un troncone di mura – ormai al termine
della città sull’ondulata pianura
che si apre sul mare. E mi rigerminanell’anima – inerte e scura
come la notte abbandonata al profumo
una semenza ormai troppo maturaper dare ancora frutto, nel cumulo
di una vita tornata stanca e acerba…
Ecco Villa Pamphili, e nel lumeche tranquillo riverbera
sui nuovi muri, la via dove abito.
Presso la mia casa, su un’erbaridotta a un’oscura bava,
una traccia sulle voragini scavate
di fresco, nel tufo – caduta ogni rabbiadi distruzione – rampa contro radi palazzi
e pezzi di cielo, inanimata,
una scavatrice…Che pena m’invade, davanti a questi
attrezzi
supini, sparsi qua e là nel fango,
davanti a questo canovaccio rossoche pende a un cavalletto, nell’angolo
dove la notte sembra più triste?
Perché, a questa spenta tinta di sangue,la mia coscienza così ciecamente resiste,
si nasconde, quasi per un ossesso
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?Perché dentro in me è lo stesso senso
di giornate per sempre inadempite
che è nel morto firmamentoin cui sbianca questa scavatrice?
Mi spoglio in una delle mille stanze
dove a via Fonteiana si dorme.
Su tutto puoi scavare, tempo: speranzepassioni. Ma non su queste forme
pure della vita… Si riduce
ad esse l’uomo, quando colmesiano esperienza e fiducia
nel mondo… Ah, giorni di Rebibbia,
che io credevo persi in una lucedi necessità, e che ora so così liberi!
Insieme al cuore, allora, pei difficili
casi che ne avevano sperduto
il corso verso un destino umano,guadagnando in ardore la chiarezza
negata, e in ingenuità
il negato equilibrio – alla chiarezzaall’equilibrio giungeva anche,
in quei giorni, la mente. E il cieco
rimpianto, segno di ogni mialotta col mondo, respingevano, ecco,
adulte benché inesperte ideologie…
Si faceva, il mondo, soggettonon più di mistero ma di storia.
Si moltiplicava per mille la gioia
del conoscerlo – comeogni uomo, umilmente, conosce.
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
furono vivi nelle vive esperienze.Mutò la materia di un decennio d’oscura
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
che più pareva essere ideale figuraa una ideale generazione;
in ogni pagina, in ogni riga
che scrivevo, nell’esilio di Rebibbia,c’era quel fervore, quella presunzione,
quella gratitudine. Nuovo
nella mia nuova condizionedi vecchio lavoro e di vecchia miseria,
i pochi amici che venivano
da me, nelle mattine o nelle seredimenticate sul Penitenziario,
mi videro dentro una luce viva:
mite, violento rivoluzionarionel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.
IV
Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verroo errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosadagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini… E infatti
cammino per una strada che avanzatra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso…
Trasportato dall’onda dei passi,questa che lascio alle spalle, lieve e
misero,
non è la periferia di Roma: “Viva
Mexico!” è scritto a calce o incisosui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,la città, mezza vuota, benché sia l’ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa – o del vespro che indorai bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.Da un gran silenzio le strade sono invase:
si perdono i selciati un po’ sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il
tempo,
e due lunghi listoni di pietracorrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzettoperduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s’aprano sereni, o un pozzettocon bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.Si apre sulla cima del colle l’erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verded’un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.Uno spazio che tremola celeste
o appena cereo… Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzettasospesa nel cielo appenninico:
s’interna fra case più strette, scende
un po’ a mezza costa: e più in basso
quando le barocche casette diradano
ecco apparire la valle – e il deserto.
Ancora solo qualche passoverso la svolta, dove la strada
è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,quasi fosse crollata la chiesa,
si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un’abside, pesta di volutelungo le cancellate cicatrici
del crollo – da cui soltanto essa,
l’immensa conchiglia, sia rimastaa spalancarsi contro il cielo.
È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un’aria, lieve,disperata,
che incendia la pelle di dolcezza…
È come quegli odori che, dai campibagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,
soffiano sulla città nei primigiorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capirese siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepiditodal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell’ariache come un tepore o una luce
respiro guardando la vallataV
Un po’ di pace basta a rivelare
dentro il cuore l’angoscia,
limpida, come il fondo del marein un giorno di sole. Ne riconosci,
senza provarlo, il male
lì, nel tuo letto, petto, coscee piedi abbandonati, quale
un crocifisso – o quale Noè
ubriaco, che sogna, ingenuamente ignarodell’allegria dei figli, che
su lui, i forti, i puri, si divertono…
il giorno è ormai su di te,nella stanza come un leone dormente.
Per quali strade il cuore
si trova pieno, perfetto anche in questa
mescolanza di beatitudine e dolore?Un po’ di pace… E in te ridesta
è la guerra, è Dio. Si distendono
appena le passioni, si chiude la frescaferita appena, che già tu spendi
l’anima, che pareva tutta spesa,
in azioni di sogno che non rendononiente… Ecco, se acceso
alla speranza – che, vecchio leone
puzzolente di vodka, dall’offesasua Russia giura Krusciov al mondo –
ecco che tu ti accorgi che sogni.
Sembra bruciare nel felice agostodi pace, ogni tua passione, ogni
tuo interiore tormento,
ogni tua ingenua vergognadi non essere – nel sentimento –
al punto in cui il mondo si rinnova.
Anzi, quel nuovo soffio di ventoti ricaccia indietro, dove
ogni vento cade: e lì, tumore
che si ricrea, ritroviil vecchio crogiolo d’amore,
il senso, lo spavento, la gioia.
E proprio in quel soporeè la luce… in quella incoscienza
d’infante, d’animale o ingenuo libertino
è la purezza… i più eroicifurori in quella fuga, il più divino
sentimento in quel basso atto umano
consumato nel sonno mattutino.VI
Nella vampa abbandonata
del sole mattutino – che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissiriscaldati – disperate
vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,di piazzette vuote, d’innocenza.
Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenzad’una dozzina d’anziani operai,
con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,le cui lotte contro gli sparsi
blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.Ma tra gli scoppi testardi della
benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,così pazzo di dolore, che, umano,
subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,nell’ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po’ d’aria di mare…A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori – accompagnatadal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confinedell’orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere… È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,– è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si facortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fieradi freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istantedi ferirci: è qui, che brucia
n ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiduciache ci dà vita, nell’impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell’altro fronte umano,il loro rosso straccio di speranza.
Una poesia dedicata a Roma
Nella poesia non c’è retorica, ma un dolore consapevole. Perché chi ha davvero amato un luogo, lo riconosce anche quando cambia pelle. È un po’ come quando, anno dopo anno, si frequenta la stessa spiaggia in cui si è andati per la prima volta da bambini. Prima c’erano solo gli ombrelloni e le sdraio, poi i lettini, infine la doccia, e oggi anche il bar.
Nei versi di “Il pianto della scavatrice”, si affacciano Trastevere, Rebibbia, Viale Marconi: non come sfondo, ma come personaggi e testimoni di un’educazione sentimentale che non passa dai libri, bensì dal fango, dalle voci alte dei ragazzi in tuta, dal calore di un’osteria che chiude troppo tardi.
È la Roma che muta le sue sembianze, quella che piange, perché echeggia nelle lamentele della macchina.
Penna in mano: il contesto storico della poesia
Pasolini scrive questa poesia a Roma, dopo l’espulsione dal PCI e dall’ambiente friulano. Ci troviamo in un periodo di rapida trasformazione sociale, in un’Italia cerca di lasciarsi alle spalle il tormento della Seconda Guerra Mondiale e punta in alto con un processo di urbanizzazione e modernizzazione attraverso la borghesia.
Ciò che però non cambia in questo contesto è lo sguardo critico con cui viene osservata l’omosessualità. Pasolini si sente ancora messo all’angolo, osteggiato, la pecora nera in una famiglia dove il padre è un ufficiale di fanteria dell’esercito italiano, simpatizzante fascista, arrestato per un breve periodo nel 1942; e il fratello un ormai deceduto partigiano cattolico.
Il cuore ricorda lo scandalo al nord, quello scandalo che ha tagliato il bel rapporto che aveva con sua madre, e trova conforto nel sottoproletariato delle borgate, che diventa uno dei fulcri della sua poetica e ideologia.
La giovinezza e il rimpianto
In “Il pianto della scavatrice” rimanda ai campi, alla purezza umana contadina. Un’esplosione incontenibile e irripetibile. Una giovinezza vissuta a contatto con un popolo che non ha letto Marx, ma ne incarna senza saperlo la fame, la lotta, la gioia. Ragazzi “sporchi, ridenti”, “stridenti nelle canottiere a pezzi”, con il sole africano addosso. In loro, Pasolini trova ciò che altrove gli è negato: la possibilità di una comunione autentica, magari fugace, ma mai addomesticata.
La fine, il dolore e le lacrime di ferro
Eppure, tutto ciò è destinato a finire. A diventare “isolato”, “decoroso”, “spento dolore”. La scavatrice diventa allora simbolo del passaggio: non solo urbanistico, ma esistenziale. Le sue lacrime di ferro sono quelle dell’autore stesso, che ha creduto — e crede ancora — nel potere del contatto, dell’empatia, della materia che non mente.
La periferia non è solo un luogo: è una frontiera. Lì l’uomo si disfa e si rifà, come il quartiere sotto i colpi delle ruspe. La “scavatrice” diventa simbolo di quel progresso industriale che trasforma e soffoca la terra, i luoghi dell’infanzia, della memoria, della poesia; e “il pianto” diviene voce, rende l’oggetto umano.
Un concetto che ricorda molto l’opera d’arte “Can’t Help Myself” di Sun Yuan Peng Yu (2019), divenuta virale online solo dal 2023 grazie al nuovo allestimento della Biennale di Venezia.
Una poesia che è un grido di speranza
Ma la poesia non si chiude con una condanna. Il grido della scavatrice è disperato, sì, ma è anche fecondo. La città che muta — e con essa l’Italia intera — piange perché perde qualcosa. Ma quel pianto è anche una nascita: niente più campi, né prati, ma nuove case e nuovi palazzi. Opportunità e persone. Modi di essere.
E se Pasolini può ancora camminare “tra i primi prati primaverili, sfatti in una luce di paradiso”, allora forse c’è ancora spazio per la speranza. Una speranza che non è mai retorica, mai piena. Ma che si aggrappa alle “piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre”.
E mentre la scavatrice urla tra i palazzi accecati, diventa chiaro che quella voce non è solo sua. È anche di chi ha amato Roma prima che diventasse capitale. Di chi l’ha odiata mentre si trasformava. Di chi, ancora oggi, cerca nella polvere qualcosa che somigli alla verità.