Il Giorno dei Morti (1891) di Pascoli: quando l’amore è più forte del dolore e della morte

1 Novembre 2025

Scopri il significato de "Il Giorno dei Morti" di Giovanni Pascoli, la poesia che insegna che l'amore sopravvive al dolore e rende la memoria viva.

Il Giorno dei Morti (1891) di Pascoli: quando l'amore è più forte del dolore e della morte

Il Giorno dei Morti di Giovanni Pascoli non è solo una poesia sulla perdita, ma un dialogo infinito tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, tra la memoria e la speranza. In questo componimento il poeta non celebra la morte, ma la continuità dell’amore che sopravvive ad essa.

Pascoli, con il suo sguardo umile e visionario, riesce a trasformare il dolore in una forma di preghiera, e il lutto in un ponte invisibile che unisce generazioni.

Il Giorno dei Morti è la poesia che apre la raccolta Myricae di Giovanni Pascoli, pubblicata per la prima volta nel 1891.

Leggiamo la poesia di Giovanni Pascoli per condividere il ricordo di chi purtroppo non è più con noi.

Il Giorno dei Morti di Giovanni Pascoli

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l’inonda e muove la tempesta;

o camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo tutto sempiterni

e crisantemi. A ogni croce roggia
pende come abbracciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto di memorie, posa.

Non i miei morti. Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano con brontolìo roco)

piangono. La pupilla umida e pia
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un’altra lagrima per via.

Piangono, e quando un grido ch’esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno!…
cupo rompe un singulto lor dal petto.

Levano bianche mani a bianchi volti,
non altri, udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio de’ figli, ancor non nato.
Nessuno! i morti miei gemono: nulla!

— O miei fratelli! — dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegliò dal sogno della vita:

— o miei fratelli, che bevete ancora
la luce, a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati della dolce aurora;

o miei fratelli! nella notte oscura,
quando il silenzio v’opprimeva, e vana
l’ombra formicolava di paura;

io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.

E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre
io, senza un bacio, senza una parola.

E voi, fratelli, o miei minori, nulla!…
voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella:
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Ch’io l’oda il suono della vostra voce
ora che più non romba la procella:
io dormirò con le mie braccia in croce.

Nessuno! — Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia l’acqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre il camposanto.

— O figli — geme il padre in mezzo al nero
fischiar dell’acqua — o figli che non sento
più da tanti anni! un altro cimitero

forse v’accolse, e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.

E voi le braccia dall’asil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.

O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per un’intera eternità v’amai.

In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.

Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.

Oh! le parole mute ed infinite
che dissi! con qual mai strappo si franse
la vita viva delle vostre vite.

Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, nè il tetto,
nè chi li aiuti, nè chi li consigli.

Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m’ha tolta.

Perdona all’uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, buon Dio…
e se ha figlioli, in nome lor perdona.

Che sia felice; fagli le vie piane;
dagli oro e nome; dàgli anche l’oblio;
tutto: ma i figli miei mangino il pane.

Così dissi in quel lampo senza fine;
Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla più grandicella alle piccine.

Spariva a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo più non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano —

Dice; e più triste si rinnova il pianto;
più stridula, più gelida, più scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.

— No, babbo, vive, vivono — Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, eppur nota ad ascoltarla,

o mio Luigi, o anima compagna!
come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, all’acqua che ti bagna!

come mutato! sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via.

— vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?

È la sorella che morì lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio di Sogliano.

Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi; fuori del nero
chiostro, de’ sotterranei profondi!

Un’altra voce tu, fratello, ascolta;
dolce, triste, lontana: il tuo Ruggiero;
in cui, babbo, moristi un’altra volta.

Parlano i morti. Non è spento il cuore
nè chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore.

E or per quanto stridula di vento
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,

o mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che ti rivedessi!

Avessi tu provato di quell’ora
ultima il freddo, e or quest’abbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora —

— Ma se vivete, perchè, morti cuori,
solo è la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce è senza fiori? —

Così singhiozza Giacomo: poi geme:
— Quando sola restò la nidïata,
Iddio lo sa, come vi crebbi insieme:

se con pia legge l’umili vivande
tra voi divisi, e destinai de’ pani
il più piccolo a me, ch’ero il più grande;

se ribevvi le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;

se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di quest’acque, io suscitava
la buona fiamma d’eriche e sarmenti;

e io, quando vedea rosso ogni viso,
e più rossi i più piccoli, tremava
sì, del mio freddo, ma con un sorriso.

Ma non per me, non per me piango: io piango
per questa madre che, tra l’acqua, spera,
per questo padre che desìa, nel fango;

per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo io ti dicea… ma era
grossa la lingua e forse non udivi —

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto

d’occhi lasciati dalla morte attenti,
pianto di cuori cui la sepoltura
lasciò, ma solo di dolor, viventi.

L’odo: ora scorre libero: nessuno
può risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è così forte, il cielo è così bruno.

Nessuno udrà. La povera famiglia
può piangere. Nessuno, al suo lamento,
può dire: Altro è mio figlio! altra è mia figlia!

Aspettano. Oh! che notte di tempesta
piena d’un tremulo ululo ferino!
Non s’ode per le vie suono di pesta.

Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude l’uscio del tugurio al cane.

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall’assidua romba.
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

I figli morti stanno avvinti al padre
invendicato. Siede in una tomba
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora l’ombra. Culla
due bimbi morti sopra i suoi ginocchi.

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per sè nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;

e dice: — Forse non verranno. Ebbene,
pietà! Le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un po’ di bene.

Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme.

E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidïando, ai morti.

Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse e per chi resta in via,

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta,
per chi cammina, cammina, cammina;
e non ha pietra ove posar la testa.

Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, o figli morti, ai vivi! —

O madre! Il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.

Il contesto della poesia. Il cimitero come luogo della memoria e della comunione spirituale

Il Giorno dei Morti è una delle liriche di Giovanni Pascoli più dense e teatrali, costruita come una visione notturna. Il poeta si immagina davanti a un camposanto battuto dal vento e dalla pioggia, dove le voci dei suoi cari riaffiorano dal silenzio eterno.
Quel “fosco cipresso alto sul muro” e i “crisantemi” che pendono dalle croci sono immagini emblematiche della poetica pascoliana: simboli naturali che rivelano, dietro l’apparenza, una dimensione metafisica.

Il cimitero non è luogo di fine, ma di passaggio: una soglia dove le anime continuano a vivere, a dialogare, a piangere. È qui che Pascoli ricostruisce la sua famiglia perduta, devastata dalle morti premature del padre, della madre e dei fratelli. La poesia diventa un dramma corale, una preghiera collettiva in cui i morti prendono voce per raccontare la loro solitudine e il loro amore rimasto sospeso.

Perché Il Giorno dei Morti apre la raccolta Myricae

La poesia Il giorno dei morti fu scritta con ogni probabilità nel 1891. Alcuni critici indicano un periodo di composizione leggermente più ampio, tra il 1890 e il 1893, ma il 1891 è la data più comunemente accettata per la sua stesura.

È importante notare che, sebbene sia stata scritta in quel periodo, non ha sempre aperto la raccolta Myricae. È diventata la poesia proemiale (cioè quella di apertura) solo a partire dalla terza edizione della raccolta, pubblicata nel 1894.

La posizione di questa poesia all’inizio di Myricae non è casuale, ma profondamente simbolica. Pascoli la sceglie come apertura a partire dalla quarta edizione del 1894, facendone il vero e proprio prologo del suo universo poetico.
È una dichiarazione d’intenti, un avvertimento al lettore, tutto ciò che seguirà, i paesaggi, gli animali, le voci della campagna, sarà filtrato da un dolore primordiale.

Il Giorno dei Morti diventa la chiave di lettura emotiva dell’intera raccolta.

Pascoli mette subito in chiaro che la natura che canterà non è mai neutra né semplicemente idillica: è la natura vista attraverso il velo del lutto. Anche il canto degli uccelli, il suono del vento, l’odore della pioggia sono ombre e ricordi di chi non c’è più.

In questa poesia nasce il tema del nido, il cuore della poetica pascoliana: la famiglia distrutta, il rifugio perduto, la memoria che diventa la sola casa possibile.
Il poeta guarda la vita come chi resta davanti alle rovine di ciò che amava, e da quelle rovine ricostruisce un mondo poetico di piccole cose, di simboli umili e dolcissimi, ma sempre feriti.

Con Il Giorno dei Morti, Pascoli stabilisce il tono di tutta Myricae: un tono di malinconia, di pioggia, di intimità struggente.

Non c’è un solo fiore o un solo suono naturale che non sia intriso del pianto dei suoi cari. Per questo la poesia non descrive un cimitero reale, ma il cimitero interiore del poeta, dove ogni visione è anche memoria, e ogni parola un modo per continuare a vivere accanto ai propri morti.

Il rovesciamento di Foscolo

Con Il Giorno dei Morti, Pascoli capovolge la lezione di Ugo Foscolo. Nei Sepolcri, le tombe sono simbolo di memoria civile e virtù patriottiche: servono ai vivi per ricordare e per agire.

Nel suo cimitero invece non ci sono eroi, ma una famiglia ferita che cerca conforto. Le tombe non ispirano azioni, ma lacrime. Non uniscono la patria, ma il nido.

È un passaggio dalla memoria pubblica all’intimità privata, dalla gloria all’amore. Il sepolcro non è più monumento alla vita, ma luogo dove il dolore continua a respirare.

La sintassi del singhiozzo: il linguaggio del dolore

Giovanni Pascoli non solo racconta il dolore, ma lo scrive nel ritmo stesso della lingua.
Fin dal primo verso “Io vedo (come è questo giorno, oscuro!)” la sintassi è spezzata, interrotta da parentesi e ripetizioni. È una scrittura che imita il respiro corto del pianto, quella che i critici hanno chiamato la “sintassi del singhiozzo”.

Il “fonosimbolismo” amplifica la sensazione. La tempesta non è solo descritta, ma fatta “sentire” dal lettore. Le parole imitano i suoni del vento e della pioggia, “scroscia”, “sibila”, “romba”, e costruiscono il paesaggio acustico del lutto.

Anche il lessico oscilla tra l’umile e il solenne, mescolando termini domestici (“foco”, “pane”, “eriche”) con altri di tono sacro (“roggia”, “sempiterni”). Così il dolore quotidiano della famiglia diventa materia poetica universale.

Il significato profondo: il dolore che diventa linguaggio d’amore

Nella sua poesia Giovanni Pascoli non descrive la morte come assenza, ma come un modo diverso di continuare a vivere. La poesia si apre con un verso visivo e interiore: “Io vedo (come è questo giorno, oscuro!), vedo nel cuore, vedo un camposanto”.
Non è la vista esterna, ma quella interiore a guidare la narrazione. Il poeta vede “nel cuore”, e dunque la poesia si trasforma in un atto di chiaroveggenza affettiva, dove la memoria è più reale della vita stessa.

Le anime dei familiari appaiono, si parlano, si cercano. La sorella Margherita, morta giovanissima, si rivolge ai fratelli vivi con parole di struggente dolcezza:

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella:
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Qui il dolore trova la sua redenzione: non è disperazione, ma desiderio di comunione. La morte diventa la condizione attraverso cui l’amore si purifica e si fa eterno. Nel dialogo tra vivi e morti, Pascoli riscopre l’essenza stessa della fede, ovvero la speranza che il legame d’amore non venga mai spezzato, nemmeno dal tempo o dal silenzio.

Il coro dei morti e la voce della madre

La poesia si sviluppa come una grande sinfonia funebre, in cui ogni voce rappresenta un frammento dell’anima familiare. Il padre, ucciso in un agguato, parla con tono dolce e disperato:

O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per un’intera eternità v’amai.

È un verso che tocca il cuore perché rivela l’essenza della poetica pascoliana: l’amore assoluto, incapace di morire, che supera ogni ingiustizia e si trasforma in preghiera.
Anche la madre, figura simbolica della protezione e della pietà, appare tra le ombre del cimitero:

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per sé nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi.

La madre diventa ponte tra i due mondi, custode della continuità affettiva. È lei a chiedere misericordia per i vivi, rovesciando il senso comune della commemorazione: non sono i vivi a pregare per i morti, ma i morti a pregare per i vivi.
In questa inversione teologica si nasconde la forza spirituale della poesia: la compassione come valore universale, la pietà come collante tra le generazioni.

Il dolore dell’ingiustizia

Dentro questo dramma familiare si nasconde la ferita più profonda: quella dell’ingiustizia. Il padre, “ucciso”, parla da un aldilà che non ha avuto riparazione. Nessuno ha pagato per la sua morte.

Quando dice “Perdona all’uomo, che non so”, la sua voce non è solo cristiana, è anche umana, disperata. La fede in Dio diventa l’unico modo per accettare un torto che la giustizia terrena non ha saputo sanare.

L’universo pascoliano nasce proprio da qui, da un trauma che non trova pace e da un perdono che diventa l’unica forma di sopravvivenza morale.

Ascoltare il silenzio dei nostri cari

Nell’ultima parte, la visione del poeta si dissolve lentamente sotto la pioggia. I morti, stretti l’uno all’altro, “aspettano” in silenzio. Il vento ulula, la tempesta infuria, ma il loro pianto resta sospeso, invisibile, come una preghiera che non si spegne.
Il poeta osserva:

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall’assidua romba.
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

L’attesa diventa il simbolo del legame che non finisce. I morti attendono una parola, un pensiero, un gesto d’amore. Non vogliono essere dimenticati. E proprio questo è il messaggio più forte della poesia e del 2 novembre: ricordare non significa soltanto commemorare, ma continuare ad amare.
Chi è vissuto in noi, non muore mai del tutto. Vive nel modo in cui guardiamo il mondo, nelle parole che pronunciamo, nei silenzi che scegliamo di rispettare.

Il poeta come unico medium tra i mondi

Nel verso “Nessuno udrà. La povera famiglia / può piangere”, si rivela la missione del poeta. Solo lui può sentire quel pianto che il resto del mondo ignora. Pascoli diventa così un medium tra i vivi e i morti, tra il silenzio e la voce, tra la realtà e la memoria. La poesia è il solo spazio in cui il dialogo impossibile può continuare.

In questo senso Il Giorno dei Morti non è solo un canto funebre, ma un atto di mediazione spirituale. Il poeta è l’ultimo a vegliare il nido e il primo a restituirgli vita, parola, eternità.

Pascoli insegna che ricordare non è solo un gesto di devozione, ma un atto di ascolto. Dietro ogni preghiera, dietro ogni fiore portato a una tomba, c’è il desiderio di dialogare ancora con chi amiamo.

La poesia diventa così una soglia fra mondi, un luogo in cui la voce dei morti e quella dei vivi si riconoscono. E nel giorno dei morti, più che mai, la poesia di Giovanni Pascoli  ricorda che chi è stato amato non smette mai di parlare: basta saperlo ascoltare.

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