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“Il borgo” di Umberto Saba, la poesia sulla ricerca dell’empatia

Nella poesia Il Borgo Saba realizza un ritratto esistenziale del suo essere poeta ed esprime la sua ricerca di contatto con l'altro, di empatia

Su empatia e di immedesimazione, il mondo della letteratura offre storie che consentono ai lettori di evadere dalla realtà e di calarsi nei panni di personaggi più o meno fantastici. Tuttavia possono essere maggiormente significative poesie come “Il borgo” di Umberto Saba, scrittore che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento si dedica a una poesia da lui stesso definita onesta in quanto basata sulla realtà.

Versi d’autore

Nella prima parte della poesia l’itinerario d’esperienza percorso dall’autore per conoscere la realtà ha origine da una contemplazione della vita, dove ancora manca la capacità di un’intima e vera adesione sentimentale alle cose del mondo. Nella seconda parte della lirica troviamo il poeta giunto alle soglie della maturità che ancora vorrebbe, nostalgicamente, “la fede avere/di tutti” nel credere che la vita non sia solo sventura come egli invece, nella sua acuta intelligenza del reale, ha avuto modo di conoscere.

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Umberto Saba è stato uno dei poeti più importanti del Novecento italiano, capace di raccontare il quotidiano attraverso una lingua semplice e concreta

Alla ricerca dell’empatia

Nel componimento sembra esserci il racconto della vocazione poetica dell’autore. Nella poesia emerge la voglia di empatia, il desiderio di fuggire dall’individualismo e di essere parte di una società, di cui narrare, senza finzione, l’umanità. L’immedesimazione negli altri è vista da Saba come un modo per alleviare il dolore universale che deriva dalla solitudine. L’oggetto di ricerca del poeta è quel senso di uguaglianza che lo possa fare sentire fra gli uomini un uomo, per cancellare così ogni differenza segnata da epoche e società.

La poesia “Il borgo”

Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m’avvenne.

Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d’uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent’anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.

Dove nel dolce tempo
d’infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d’umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d’immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.

La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l’alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d’essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.

Nato d’oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
– eco perduta
di giovinezza – per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell’alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.

La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da un parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m’aspetta.

Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d’immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d’allora.

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