Il Coro XIV di Giuseppe Ungaretti è una stupenda poesia in cui, attraverso l’allegorica figura mitologica di Didone, il poeta mette in scena la sua fragilità, la disillusione di una vita giunta alla maturità e le promesse sembrano lasciare spazio alla presa di coscienza della solitudine.
La poesia è il canto disperato di un uomo che ha vissuto una vita piena di grandi traumi e tragedie. Le illusioni giovanili purtroppo hanno incontrato l’amarezza e il dolore, segnando l’anima per sempre e sviluppando la consapevolezza che quando si raggiunge la maturità alla fine anche le lacrime sono finite.
La poesia è il quattordicesimo coro della sezione “Cori descrittivi di stati d’animo di Didone” della raccolta di poesie La terra promessa. Frammenti di Giuseppe Ungaretti, pubblicata da Arnoldo Mondadori nel 1950.
Ma leggiamo questa poesia di Giuseppe Ungaretti per comprenderne il significato.
Coro XIV di Giuseppe Ungaretti
Per patirne la luce,
Gli sguardi tuoi, che si accigliavano
Smarriti ai cupidi, agl’intrepidi
Suoi occhi che a te non si soffermerebbero
Mai più, ormai mai più.
Per patirne l’estraneo, il folle
Orgoglio che tuttora adori,
A tuoi torti con vana implorazione
La sorte imputerebbero
Gli ormai tuoi occhi opachi, secchi;Ma grazia alcuna più non troverebbero,
Nemmeno da sprizzarne un solo raggio,
Od una sola lacrima,
Gli occhi tuoi opachi, secchi,Opachi, senza raggi.
Quando gli occhi diventano opachi e la luce smette di splendere
Nel Coro XIV, Giuseppe Ungaretti è nel cuore del suo viaggio negli stati d’animo di Didone, che poi sono l’allegoria del suo cammino nell’esistenza. Il poeta di Alessandria d’Egitto trasferisce alla regina di Cartagine la rappresentazione delle sue disillusioni, delle sua fragilità e della propria solitudine.
Una poesia che offre la grandezza del suo autore perché riesce in quindici versi ad offrire ai posteri lo stato d’animo di moltissime persone a cui la vita ha donato la sofferenza di tragedie che segnano per sempre. Ricordiamo la morte del figlio Antonietto, scomparso quando aveva soli nove anni in Brasile, un lutto che ha spezzato la vita di Ungaretti in un “prima” e un “poi”. Quel dolore non è gridato, ma è diventato pietra, si è fatto secco come gli occhi di Didone.
In questi versi, la luce del sole non è più fonte di vita o di calore, ma serve solo a “patire”. È una luce crudele che illumina l’assenza. Ungaretti costruisce un contrasto straziante tra il passato e il presente:
Ieri erano gli occhi erano “cupidi” (pieni di desiderio) e si “accigliavano” (reagivano, erano vivi) davanti allo sguardo “intrepido” dell’amato. Oggi, quegli stessi occhi sono “opachi, secchi”. Non riflettono più nulla.
Il contesto mitologico della poesia e la figura di Didone
Per afferrare il senso profondo di questo frammento, dobbiamo guardare oltre la semplice cronaca amorosa. Ungaretti attinge al IV libro dell’Eneide di Virgilio, dove si narra il tragico amore tra Didone, la regina di Cartagine ed Enea, l’eroe troiano, ma compie un’operazione rivoluzionaria.
Il poeta spoglia il mito della sua armatura epica. Nella versione classica, Didone si uccide con una spada su una pira funebre, maledicendo la stirpe di Enea. Nella versione di Ungaretti, invece, la spada scompare. La ferita non è nel corpo, ma nell’anima. Didone diventa l’archetipo di chi resta.
Enea nel testo è definito “l’estraneo”. Lui rappresenta la giovinezza, la bellezza e il tempo che scorrono inesorabili. Enea è colui che deve partire, colui che guarda al futuro (la Terra Promessa) e non può fermarsi.
Didone è la rovina. Lei rappresenta la memoria e l’attaccamento alla vita. Il “folle orgoglio” citato nei versi è la colpa di aver osato amare ancora, di aver cercato di trattenere la felicità nonostante il destino avverso.
Ungaretti usa la maschera antica della regina per mettere in scena il dramma moderno della consunzione: Didone non muore in un istante, ma si spegne lentamente, trasformandosi in una rovina barocca. La sua “Terra Promessa” non è una nuova patria, ma il silenzio del deserto interiore dove, alla fine, nemmeno il pianto è più possibile.
La spiegazione della poesia
L’incipit della lirica introduce immediatamente la sofferenza fisica di Didone dove la luce non si manifesta più come epifania di vita ma diventa un mero strumento di tortura per chi subisce l’abbandono. Il verso iniziale isola questa condizione di patimento che trasforma la vista in una condanna poiché la luce del giorno serve ormai soltanto a rendere visibile e insopportabile l’assenza dell’amato.
Proseguendo nella lettura emerge come lo sguardo della regina vaghi smarrito cercando quegli occhi intrepidi che un tempo incrociava con desiderio e che ora le sono negati per sempre. La sentenza cade inesorabile con la ripetizione del mai più che chiude la prima parte del componimento sancendo l’irreversibilità del distacco e la fine di ogni speranza di contatto visivo tra i due amanti ormai distanti.
La parte centrale del componimento sposta l’attenzione sull’interiorità ferita e su quel folle orgoglio che Didone continua ad adorare nonostante il dolore. Si tratta di un amore che non si pente ma che consuma e che porta gli occhi a inaridirsi mentre cercano invano di imputare alla sorte la colpa di un destino crudele che ha trasformato l’estraneo in un nemico inafferrabile.
La chiusura della poesia raggiunge il vertice della drammaticità mostrando il totale inaridimento vitale in cui non c’è più spazio per alcuna grazia o sollievo. La vera tragedia si consuma nel fatto che dagli occhi non sgorga nemmeno una lacrima liberatoria e lo sguardo rimane fisso in una condizione di aridità assoluta descritta dalla ripetizione finale degli aggettivi opachi e secchi che sigillano il componimento nel buio di un’anima ormai priva di raggi.
La confessione matura di Giuseppe Ungaretti
Il Coro XIV è dunque una confessione mascherata. Giuseppe Ungaretti si nasconde dietro Didone per dire ciò che non riuscirebbe a dire in prima persona.
È un canto sulla fine della luce interiore, sull’impossibilità di tornare indietro, sulla maturità che porta con sé più ombre che promesse. In questi versi non c’è più l’illusione della giovinezza, non c’è più la speranza di un riscatto: c’è soltanto la verità nuda dell’esistenza, quella che arriva quando il dolore ha consumato le lacrime e ciò che resta è lo sguardo opaco di chi ha visto troppo.
Per questo questa poesia non parla solo di Didone. Parla di tutti coloro che come il poeta raggiungono la maturità della vita e anziché vivere le promesse e le illusioni della giovinezza, si ritrovano a dover fare i conti con il tradimento della vita.
Giuseppe Ungaretti condivide il momento in cui si prende consapevolezza che la grazia non sempre torna, e che la luce, una volta perduta, molte volte non si accende più.
