Nessun genitore dovrebbe sopravvivere al proprio figlio. Questa è la ferita aperta, il messaggio più straziante di Giorno per giorno, la poesia con cui Giuseppe Ungaretti ha trasformato il suo lutto privato in un grido universale.
Una poesia che dà voce alle emozioni di un padre costretto ad assistere inerme alla più grande tragedia un uomo possa vivere, consapevole che a marcare l’anima resterà un dolore indelebile, una ferita che non potrà mai rimarginare e che solo attraverso i versi della sua poesia può dare sfogo alla tempesta interiore.
Giorno per giorno è stata scritta tra il 1940 e il 1946, questa lirica di 17 frammenti non è solo un diario personale della sofferenza, ma il cuore pulsante della sua raccolta più intima, Il Dolore, pubblicata per la prima volta nel 1947.
Leggiamo questa struggente poesia di Giuseppe Ungaretti per viverne le emozioni e coglierne il significato.
Giorno per giorno di Giuseppe Ungaretti
1
“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…”
E il volto già scomparso
ma gli occhi ancora vivi
dal guanciale volgeva alla finestra,
e riempivano passeri la stanza
verso le briciole dal babbo sparse
per distrarre il suo bimbo…2
Ora potrò baciare solo in sogno
le fiduciose mani…
E discorro, lavoro,
sono appena mutato, temo, fumo…
Come si può ch’io regga a tanta notte?…3
Mi porteranno gli anni
chissà quali altri orrori,
ma ti sentivo accanto,
m’avresti consolato…4
Mai, non saprete mai come m’illumina
l’ombra che mi si pone a lato, timida,
quando non spero più…5
Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze,
sollevava dai crucci un uomo stanco?…
La terra l’ha disfatta, la protegge
un passato di favola…6
Ogni altra voce è un’eco che si spegne
ora che una mi chiama
dalle vette immortali…7
In cielo cerco il tuo felice volto,
ed i miei occhi in me null’altro vedano
quando anch’essi vorrà chiudere Iddio…8
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…
9
Inferocita terra, immane mare
mi separa dal luogo della tomba
dove ora si disperde
il martoriato corpo…
Non conta… Ascolto sempre più distinta
quella voce d’anima
che non seppi difendere quaggiù…
M’isola, sempre più festosa e amica
di minuto in minuto,
nel suo segreto semplice…10
Sono tornato ai colli, ai pini amati
e del ritmo dell’aria il patrio accento
che non riudrò con te,
mi spezza ad ogni soffio…11
Passa la rondine e con essa estate,
e anch’io, mi dico, passerò…
Ma resti dell’amore che mi strazia
non solo segno un breve appannamento
se dall’inferno arrivo a qualche quiete…12
Sotto la scure il disilluso ramo
cadendo si lamenta appena, meno
che non la foglia al tocco della brezza…
E fu la furia che abbatté la tenera
forma e la premurosa
carità d’una voce mi consuma…13
Non più furori reca a me l’estate,
né primavera i suoi presentimenti;
puoi declinare, autunno,
con le tue stolte glorie:
per uno spoglio desiderio, inverno
distende la stagione più clemente!…14
Già m’è nelle ossa scesa
l’autunnale secchezza,
ma, protratto dalle ombre,
sopravviene infinito
un demente fulgore:
la tortura segreta del crepuscolo
inabissato…15
Rievocherò senza rimorso sempre
un’incantevole agonia di sensi?
Ascolta, cieco: “Un’anima è partita
dal comune castigo ancora illesa…”Mi abbatterà meno di non più udire
i gridi vivi della sua purezza
che di sentire quasi estinto in me
il fremito pauroso della colpa?16
Agli abbagli che squillano dai vetri
squadra un riflesso alla tovaglia l’ombra,
tornano al lustro labile d’un orcio
gonfie ortensie dall’aiuola, un rondone ebbro,
il grattacielo in vampe delle nuvole,
sull’albero, saltelli d’un bimbetto…Inesauribile fragore di onde
si dà che giunga allora nella stanza
e alla freschezza inquieta d’una linea
azzurra, ogni parete si dilegua…17
Fa dolce e forse qui vicino passi
dicendo: “Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
Lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l’aurora e intatto giorno”.
L’urlo del disperato amore di Giuseppe Ungaretti per il figlio
Giorno per giorno è la poesia di Giuseppe Ungaretti che offre la rappresentazione onesta dell’impossibilità per un padre di superare il dolore per la perdita di un figlio, un’esperienza che lacera l’anima e mette in discussione la vita stessa. L’unica salvezza è la trasfigurazione dell’amore nel ricordo, che promette un “aurora e intatto giorno”.
Il contesto della poesia
Giorno per giorno (1940-1947) è una poesia scritta da Giuseppe Ungaretti ed è composta da 17 strofe. Ungaretti scrive Giorno per giorno in memoria del figlio Antonietto, morto in Brasile nel 1939, a nove anni.
Nel 1936 Giuseppe Ungaretti durante un viaggio in Argentina su invito del Pen Club, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò.
Trasferitosi con tutta la famiglia in Brasile, vi rimarrà fino al 1942.
Ed è a San Paolo che morirà il figlio Antonietto per un’appendicite curata male. La morte del figlio fa cadere Ungaretti in uno stato di continuo dolore che risulta evidente anche in altre sue sue poesie raccolte ne Il Dolore, del 1947 e più tardi in Un Grido e Paesaggi, del 1952.
Nella mente del poeta continua ad echeggiare la voce del bambino malato e fiducioso, che chiede invano aiuto. Il dolore è straziante: “Come posso resistere a tanta angoscia (tanta notte)? Come posso continuare a parlare, a lavorare, a fumare, a vivere la vita di ogni giorno? nel commento alla raccolta Il Dolore.
Questa raccolta ha un valore tutto particolare, e molto probabilmente è quella che il poeta ha amato di più.
«Il Dolore è il libro che più amo… Quel dolore non finirà più di straziarmi.»
(da Giorgio Luti, Ungaretti, Mursia, 1992, p. 75)
Le poesie contenute nell’opera nascono in un periodo devastato dalla guerra. Il poeta assiste alla Roma occupata, all’Italia lacerata, alla dissoluzione morale del Paese. Ma è soprattutto il crollo della sua vita privata a plasmare il tono della raccolta.
Giorno per giorno, il diario della sofferenza di Ungaretti
Giorno per giorno è il diario in frantumi di un padre che ha perso il figlio. È la poesia di un uomo che cerca di sopravvivere alla morte, che tenta di capire come si possa reggere un peso simile. Ogni frammento è un respiro interrotto, un ritorno di memoria, un’onda di nostalgia che si infrange e poi riparte. È una lunga meditazione sull’amore che non muore e sul dolore che non finisce.
Ben 17 frammenti da leggere nel loro insieme, perché riescono a raccontare ciò che vive nella parte più profonda dell’anima del poeta.
Il racconto di un padre disperato
Il libro si apre con l’immagine più straziante, un bambino che, ormai consapevole della sua fine, dice alla madre:
«Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…».
Non è solo un lamento, è la tragedia di un bambino che percepisce la propria fragilità e la consegna ai genitori come un testamento involontario.
Ungaretti osserva quel volto già spento e quegli occhi ancora vivi che cercano la finestra, mentre la stanza si riempie del frullo dei passeri. È l’ultima immagine della felicità possibile. Le briciole sparse dal padre, gesto semplice e disperato, sono il tentativo di donare al figlio un frammento di vita mentre la vita gli sfugge.
Nel secondo frammento Ungaretti constata che potrà baciare il figlio “solo in sogno”. È il primo vero schianto. Eppure continua a parlare, lavorare, fumare. Sono i resti della vita quotidiana che tenta di non crollare, ma tutto appare vuoto.
La domanda finale “Come si può ch’io regga a tanta notte?” è la prima confessione della vertigine. Non c’è risposta. C’è solo una notte che non smette mai di cominciare.
Il poeta vede negli anni futuri solo nuovi orrori. Ma ciò che fa più male è l’assenza del figlio come compagno ideale. “M’avresti consolato…” dice, rivelando che il bambino era già per lui una forza spirituale.
Ora ogni possibilità di conforto è perduta. Il futuro è un deserto che nessuno potrà attraversare con lui.
Ungaretti afferma:
Mai, non saprete mai come m’illumina l’ombra….
È un paradosso di struggente verità. Non è la luce che consola, ma un’ombra. La presenza del figlio, trasfigurata in un’ombra timida e discreta, diventa un chiarore interiore che si manifesta proprio quando il poeta “non spera più”. È l’inizio di una spiritualizzazione del lutto.
Dov’è l’ingenua voce che in corsa risuonando per le stanze sollevava dai crucci un uomo stanco?
La domanda contiene già la risposta: quella voce è perduta per il mondo, ma non per il padre. La terra ha disfatto il corpo, ma il ricordo ne custodisce la parte intatta. Il figlio diventa un mito privato, un personaggio favoloso che continua a vivere nella memoria come ultimo spazio inviolabile.
Ogni altra voce è un’eco che si spegne.
Solo una continua a chiamare, e proviene dalle “vette immortali”. Ungaretti comincia a intuire che la morte non ha reciso il legame. La voce del figlio si muove in una dimensione più alta, oltre il tempo, e gli parla con una nitidezza che la realtà non possiede più.
In cielo cerco il tuo felice volto.
Guardare il cielo diventa un gesto rituale, un tentativo di ritrovare un’immagine che non appartiene più alla terra. Ungaretti chiede a Dio che i suoi occhi si chiudano solo dopo aver rivisto quel volto. È una preghiera che riconosce il ruolo salvifico del ricordo.
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto.
Qui l’amore non è balsamo, ma ferita permanente. Il poeta non attenua il dolore, lo espone nella sua forma più pura. L’amore che rimane è ciò che fa più male, perché non accetta la distanza. È la confessione più sincera del libro.
L’inferocita terra e l’immane mare separano il poeta dalla tomba del figlio. Ma Ungaretti capisce che il corpo non è più la sede dell’amore. Ciò che conta è
quella voce d’anima che non seppi difendere quaggiù.
È una presenza interiore che diventa sempre più forte, sempre più “festosa e amica”. Nasce una nuova forma di vicinanza, tutta spirituale.
Il ritorno ai luoghi amati come esperienza del dolore più puro
Sono tornato ai colli, ai pini amati.
La patria, che un tempo era rifugio, ora è la conferma dell’assenza. Ogni soffio dell’aria, privo della condivisione col figlio, lo spezza. Il paesaggio non consola, ma amplifica la perdita.
Passa la rondine e con essa estate.
Ungaretti osserva la ciclicità delle stagioni, ma il dolore non partecipa al ritmo del mondo. È un eterno presente. Eppure, dal fondo dell’inferno, a volte una quiete affiora. È una tregua misteriosa, non una guarigione.
Il ramo che cade si lamenta meno della foglia che trema al vento. È un’immagine durissima. Ungaretti vede nella natura la stessa violenza che ha colpito il figlio.
Fu la furia che abbatté la tenera forma…
dice, riconoscendo l’ingiustizia cosmica della perdita.
Le stagioni non portano più nulla: né ardore, né promessa, né rinnovamento.
puoi declinare, autunno,
con le tue stolte glorie:
per uno spoglio desiderio, inverno
distende la stagione più clemente!…
Solo l’inverno, spoglio e severo, gli somiglia. È la stagione che non pretende la gioia, che rispetta la sua desolazione.
Un demente fulgore.
Il crepuscolo diventa il simbolo dello stato psichico del poeta: una luce impazzita, un bagliore che ferisce invece di illuminare. Il dolore non è mai uniforme. Alterna vuoti profondi e improvvise esplosioni di sensazioni. Il crepuscolo è la sua immagine perfetta.
Ungaretti si domanda se sarà più devastante non udire più i “gridi vivi della sua purezza” o sentire quasi estinto in sé il “fremito pauroso della colpa”. È una riflessione crudele ma vera. Il genitore che perde un figlio non soffre solo la mancanza. Soffre la convinzione di non aver fatto abbastanza.
Il ritorno della vita come epifania inattesa
Il frammento si apre con riflessi, fiori, nuvole, un bimbo che salta. È un momento quasi visionario, in cui la realtà torna a pulsare. La stanza si dissolve “alla freschezza inquieta d’una linea azzurra”, come se il dolore concedesse un varco temporaneo alla bellezza.
L’ultimo frammento è una rivelazione. La voce del figlio sembra tornare e dire:
Sono per te l’aurora e intatto giorno.
È la più dolce delle apparizioni. Il figlio non è più solo ricordo, né ombra. Diventa principio di luce, promessa di un giorno che non finisce. È la forma più alta dell’amore dopo la morte.
Giorno per giorno, un dono all’umanità
La morte di un figlio è la prova più dura che un genitore possa affrontare. È un evento che rovescia l’ordine naturale delle cose e che lascia un senso di colpa e smarrimento. Ungaretti ne coglie l’angoscia pura. Racconta come diventi difficile parlare, lavorare, persino fumare. Ogni gesto quotidiano sembra impossibile.
Eppure non si lascia travolgere del tutto. Trasforma l’orrore in parola, il dolore in testimonianza. La presenza del figlio, percepita come un’ombra affettuosa, diventa un tenue filo di consolazione. Il poeta coltiva la speranza di ritrovarlo un giorno, quando anche la sua vita giungerà alla fine.
La poesia prova a credere che il ricordo e la speranza possano superare l’assenza. Ma i versi finali rivelano che nessuna convinzione basta davvero a chiudere una ferita così profonda.
Ungaretti e la parola che resiste
Alla morte del figlio si aggiunge per Giuseppe Ungaretti quella del fratello, che porta via l’ultimo legame diretto con l’infanzia. Il dolore si moltiplica e la voce poetica cambia. I testi risultano tesi, affannosi, intrisi di un’energia che sembra un urlo trattenuto. È la stanchezza di un uomo provato da troppi colpi, ma deciso a non tacere.
Non c’è compiacimento nella sofferenza. Ungaretti resta estraneo all’autocommiserazione. Trasforma l’esperienza personale in un canto che appartiene a tutti, un luogo in cui il dolore individuale incontra quello dell’umanità intera. Anche nelle liriche più intime emerge una fraternità profonda con chi soffre, come se la poesia potesse unirli in un’unica voce.
Si racconta che molte pagine de Il Dolore furono scritte piangendo. La loro forza sta proprio qui: non nell’enfasi, ma nell’autenticità. È la parola che continua a esistere anche quando tutto sembra perduto, la parola che resiste e dà forma all’indicibile.
