Ci sono poesie brevi che si leggono in un respiro. Altre che, in quel respiro, contengono un mondo. “Falsetto”, di Eugenio Montale, è una di queste.
Appena cinque versi, pubblicati nel 1925 all’interno della sua prima raccolta “Ossi di seppia“, eppure bastano a spalancare il paesaggio estivo di una baia ligure, il silenzio tagliente del caldo, e poi quel canto acuto, infantile, che fende l’aria e incrina l’equilibrio.
Montale, nato a Genova nel 1896, era uomo riservato, ironico, schivo. Ma la sua poesia, pur essenziale e scabra, sapeva aprire varchi: nella realtà, nella memoria, nella coscienza. “Ossi di seppia” è la raccolta che lo ha fatto conoscere, ed è lì che, attraverso il paesaggio marino della Liguria, ha cominciato a raccontare l’impossibilità dell’assoluto, la fatica dell’essere, la meraviglia fragile delle piccole epifanie.
“Falsetto” (1925) di Eugenio Montale
Il mare non ha paese nemmeno lui,
ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare,
di qua e di là dove nasce e muore
l’alba.È come il canto acuto d’un ragazzo
che, per gioco, tra le barche
all’àncora nella baia,
fende l’aria con un falsetto
che rompe
il cristallo dell’estate.
Il mare come spazio di libertà
Il primo verso — “Il mare non ha paese nemmeno lui” — è una dichiarazione potente, quasi anarchica. In una raccolta che spesso descrive la Liguria come terra di fatica, solitudine e ostilità, qui il mare si fa elemento universale, non possedibile, non confinabile. È di chi lo ascolta, non di chi lo domina.
Montale, che aveva vissuto l’esperienza della guerra e presto avrebbe conosciuto il fascismo, ha sempre guardato con sospetto ai confini rigidi, alle appartenenze forzate. Il mare, che unisce le sponde “di qua e di là dove nasce e muore l’alba”, diventa simbolo di apertura, di comunione, di ascolto.
Non è luogo di conquista, ma di contemplazione.
Il falsetto che rompe il silenzio
E poi arriva lui: il ragazzo.
Un bambino che, per gioco, canta un falsetto tra le barche ferme nella baia. È un gesto minimo, gratuito, spensierato. Ma il suo canto “fende l’aria” e “rompe il cristallo dell’estate”.
È forse uno dei versi più belli e delicati di tutta la poesia italiana del Novecento: “che rompe / il cristallo dell’estate”.
L’estate qui non è un’esplosione di vita, ma un momento di sospensione perfetta, immobile, quasi troppo pura per essere vera. Il canto — acuto, infantile, libero — rompe quella perfezione, la incrina come si incrina un vetro troppo teso.
Il gesto del bambino è innocente, ma produce una frattura: introduce il tempo, il cambiamento, la crepa necessaria per accedere a un senso. È, in fondo, ciò che fa la poesia.
Un’estate interiore
Questa non è una poesia sull’estate in senso classico: non c’è il sole che abbronza, né il mare che invita al tuffo.
È un’estate statica, quasi metafisica, che contiene in sé la tensione tra immobilità e rottura. È quella sensazione che si prova nelle giornate più calde, quando l’aria è ferma e ogni suono risuona più forte, più netto.
In quel contesto, un canto diventa rivelazione.
Non è un caso che Montale abbia scelto il falsetto: una voce finta, forzata, innaturale, eppure capace di spaccare il silenzio. Forse voleva suggerire che non è la verità assoluta a scuoterci, ma un’intonazione fuori posto, un’imperfezione improvvisa.
Una voce che non doveva esserci, e proprio per questo cambia tutto.
Perché Montale ha scritto questa poesia?
Nel 1925 Montale ha 29 anni. Ha da poco pubblicato la sua prima raccolta. L’Italia è stretta nella morsa del fascismo. Lui, che non aderirà mai, è un poeta che si rifugia nei dettagli, nei gesti minimi, nei paesaggi.
“Falsetto” nasce forse da un ricordo d’infanzia, da una scena vista davvero — o semplicemente dalla necessità di rompere il silenzio, anche solo per un istante.
È un piccolo inno alla libertà, alla voce individuale che si leva, non per denunciare, ma per giocare. E nel farlo, mette in crisi l’apparente ordine del mondo.
In questo senso, “Falsetto” è una poesia politica, nel modo più sottile e profondo: celebra la rottura dolce, la crepa, la voce singolare che incrina la superficie.
Una poesia attuale (e necessaria)
Riletta oggi, “Falsetto” sembra parlare ancora — e forse ancora di più.
Viviamo in un’epoca in cui le voci si moltiplicano, ma poche si distinguono davvero. C’è rumore, ma raramente un suono che rompa davvero il cristallo dell’indifferenza.
Montale ci ricorda che la poesia non urla, ma fende. Che basta un gesto semplice — un falsetto, un verso, uno sguardo fuori posto — per aprire una crepa in ciò che sembrava immobile.
E in quella crepa può entrare la luce, o il pensiero, o il dubbio. Tutte cose che oggi abbiamo più che mai bisogno di coltivare.
La bellezza fragile del canto
“Falsetto” è una poesia piccola, ma non minuscola. È una scheggia d’estate, un’incrinatura luminosa. Un invito a non temere la dissonanza, l’imperfezione, il gesto che disturba l’equilibrio apparente delle cose. Perché a volte, rompere il silenzio è l’unico modo per sentirsi vivi.