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“Elegia pasquale” (1948) di Andrea Zanzotto, poesia sulla perdita del valore della Pasqua

Scopri una visione nuova, laica della Pasqua grazie ai versi di "Elegia pasquale", bella poesia di Andrea Zanzotto sulla perdita del senso della festa.

Tempo di attesa, tempo di rinascita. La Pasqua cantata da Andrea Zanzotto in Elegia Pasquale è segnata dal dolore, dal tempo trascorso e da quello immaginato, dal desiderio di risuscitare che raramente si concretizza per noi esseri umani.

Una profonda riflessione che, con immagini evocative e frammenti naturali, ci trasporta nella Pasqua laica di uno dei più grandi poeti italiani del Novecento.

Elegia Pasquale fu scritta nel 1948 ed è fra i testi iniziali della raccolta d’esordio Dietro il paesaggio di Andrea Zanzotto, pubblicata per la prima volta nel 1951.

Zanzotto, in quel periodo, aveva appena concluso un’esperienza da insegnante supplente presso un collegio svizzero, a Losanna ed era    rientrato nel suo paese natale, Pieve di Soligo.

Leggiamo questa bella poesia di Andrea Zanzotto per coglierne il profondo significato.

Elegia Pasquale di Andrea Zanzotto

Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
con tutto il tuo pallore disperato,
dov’è il crudo preludio del sole?
e la rosa la vaga profezia?

Dagli orti di marmo
ecco l’agnello flagellato
a brucare scarsa primavera
e illumina i mali dei morti
pasqua ventosa che i mali fa più acuti.

E se è vero che oppresso mi composero
a questo tempo vuoto
per l’esaltazione del domani,
ho tanto desiderato
questa ghirlanda di vento e di sale
queste pendici che lenirono
il mio corpo ferita di cristallo;
ho consumato purissimo pane.

Discrete febbri screpolano la luce
di tutte le pendici della pasqua,
svenano il vino gelido dell’odio;
è mia questa inquieta
Gerusalemme di residue nevi,
il belletto s’accumula nelle
stanze nelle gabbie spalancate
dove grandi uccelli covarono
colori d’uova e di rosei regali,
e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
dei propri lievi silenzi.

Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
le bocche non sono che sangue
i cuori non sono che neve
le mani sono immagini
inferme della sera
che miti vittime cela nel seno.

Il significato della Pasqua per Andrea Zanzotto

L’Elegia Pasquale è una poesia di Andrea Zanzotto che stimola ad una riflessione intensa e malinconica sulla Pasqua, interpretata in chiave laica e umana, priva della consueta esaltazione religiosa.

Cosa significa “Pasqua”? Per Andrea Zanzotto non è nel rito cristiano né nel momento finale della “risurrezione” che si nasconde il senso del termine.

Leggendo “Elegia Pasquale” veniamo trasportati in un tempo di attesa, in cui il racconto di una natura in fibrillazione si mescola a interrotti frammenti umani. L’idea della festa, della gioia, non appare in nessun punto del componimento.

Soltanto alla fine, timida ed evanescente, appare una luce che sembra aprire la possibilità di una speranza soffusa. Ed è proprio in questo che “Elegia pasquale” trova il suo significato: la Pasqua umanizzata di Andrea Zanzotto è un tutt’uno con l’attesa. L’attesa di una fioritura, l’attesa di una nuova luce, l’attesa di una rinascita. La speranza che ogni giorno illumina i nostri passi e, si spera, anche il nostro agire.

Leggendo più in profondità la poesia emerge che la Pasqua per Andrea Zanzotto è insieme salvifica e sconcertante, immersa in un contesto stagionale in cui il “risveglio” primaverile rappresenta una promessa di rinascita e felicità futura.

Una Pasqua che non dona primavera

Ma, a questa immagine che la religione ha fatto propria, il poeta veneto sovrappone un velo di minaccia , di sofferenza. La Pasqua è ancora minacciata dal perdurare del freddo gelo dell’inverno che fanno sentire i loro effetti, mitigando quella sensazione gioiosa che il periodo di festa promette.

La poesia si apre con l’immagine di una “Pasqua ventosa” che sale ai crocifissi con “pallore disperato”. Il poeta di Pieve di Soligo offre una personificazione della Pasqua, rappresentandola come una figura umana affaticata. La domanda “dov’è il crudo preludio del sole?” esprime il concetto di una promessa mancata. Vengono meno la speranza e la luce, “la rosa la vaga profezia”, ovvero la tanto attesa rinascita non si concretizza.

Nella seconda strofa si fa più evidente il senso che ciò che si desidera è solo una mera illusione. Gli “orti di marmo” evocano il cimitero, ovvero l’attesa speranzosa di coloro che sono in attesa di poter rinascere. L’agnello pasquale non è rappresentato come simbolo di redenzione, ma diventa immagine di sofferenza, di dolore. Il povero animale flagellato, bruca “scarsa primavera”, nel senso che la desiderata rinascita primaverile ha disatteso l’appuntamento sperato.

La Pasqua qui non lenisce il male, lo amplifica. Amplifica la sofferenza,  scava ancora di più le ferite della memoria e della condizione umana.

Nella terza strofa, Zanzotto riflette su se stesso. Se davvero è stato “composto” per esaltare il futuro, allora il presente lo tradisce. Il “tempo vuoto” è la condizione dell’anima, che offre solo un vuoto esistenziale. Il desiderio di qualcosa che il senso religioso sembrava promettere, sembra non aver dato i risultati sperati, lasciando solo sofferenza.

Nella quarta strofa emergono le “febbri discrete”, ovvero quelle inquietudini interiori che incrinano la luce di questo giorno sacro. Anche il “vino dell’odio” viene svuotato, ma non per purificarsi: tutto rimane freddo, svuotato, quasi postumo. La “Gerusalemme” del poeta non è la salvezza, ma diventa instabile, ghiacciata, e malinconica. È un luogo dell’anima in cui il sacro si è ritirato, lasciando dietro solo il nulla.

La festa tanto attesa sembra svuotarsi dei suoi contenuti essenziali. Il poeta offre una rappresentazione quasi teatrale della Pasqua reale, ovvero di quella priva del senso religioso.

Stanze truccate (“belletto”) e gabbie aperte, simboli di una festa svuotata, diventano solo apparenza. Le uova, i doni, gli uccelli — tutti simboli pasquali — restano come tracce inerti. Il mondo stesso è ridotto a un sacrario indegno. Non c’è più spazio per il divino, ma la Pasqua sin trasforma in contenitore di silenzi e illusioni. Il sacro si è ritirato, lasciando un’eco.

I segni della Pasqua, le uova, i colori, i doni, compaiono come fantasmi in gabbie spalancate, evocando una festa che ha perso il contatto con la vita. È tutto lì, ma senza calore, senza senso. Il mondo stesso si fa “indegno sacrario”, incapace di contenere qualcosa di veramente vivo o divino.

L’ultima strofa offre la struggente discesa nel silenzio: ombre crocifisse, bocche di sangue, cuori di neve, mani impotenti. L’umanità è ridotta a frammenti, a immagini spezzate. Nessuna salvezza, solo il buio mite della sera che accoglie, ma non riscatta, le sue “vittime”. Il gesto finale è di resa, non di fede.

Il finale è apocalittico e dolcissimo insieme. L’ombra, non la luce, è crocifissa al tramonto. I corpi e i sentimenti sono svuotati, astratti: le “bocche” sono solo sangue, i “cuori” freddi come neve. Le mani, che dovrebbero agire o accogliere, sono immagini fragili, “inferme”. E la sera, madre oscura e silenziosa, accoglie le vittime non con gloria, ma con un silenzio mite, quasi rassegnato. Nessuna resurrezione, solo un’umanissima resa.

Andrea Zanzotto, in questa poesia, non nega il bisogno di spiritualità, ma mostra quanto possa essere doloroso cercarla nel vuoto. È una Pasqua vissuta come elegia, un tempo in cui la natura, la memoria e il linguaggio stesso sembrano farsi testimoni silenziosi della mancanza. Non c’è disprezzo, ma una struggente, altissima malinconia.

Andrea Zanzotto

Andrea Zanzotto, figlio del pittore e decoratore Giovanni Zanzotto, nasce il 10 ottobre del 1921 a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso. L’anno successivo, la famiglia si trasferisce nella contrada di Cal Santa per via del lavoro del padre. I luoghi descritti nelle poesie di Andrea Zanzotto sono proprio questi.

Nonostante i problemi dovuti alle idee politiche del padre, notoriamente antifascista, il giovane Andrea trascorre un’infanzia serena, in cui le parole, sin dal primo incontro, acquistano un ruolo fondamentale. In “Autoritratto”, è Zanzotto stesso a raccontare come già dalle scuole elementare il suo legame con la scrittura fosse radicato in lui:

“Provavo qualcosa di infinitamente dolce ascoltando cantilene, filastrocche, strofette (anche quelle del “Corriere dei Piccoli“) non in quanto cantate, ma in quanto pronunciate o anche semplicemente dette, in relazione a un’armonia legata proprio al funzionamento stesso del linguaggio, al suo canto interno”.

Ed infatti, comincia a scrivere molto presto, già nel 1936, quando frequenta l’istituto magistrale e si invaghisce di una ragazza. L’adolescenza del giovane è segnata dall’amore per le lettere e da un forte sentimento di esclusione dovuto ai continui attacchi di allergie ed asma, che gli precludono le attività proprie dei suoi coetanei. Conseguita la maturità classica, Andrea Zanzotto si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova.

In questi anni scopre i poeti francesi, fra cui Rimbaud e Baudelaire, e legge gli autori tedeschi del Romanticismo. Nel frattempo, Zanzotto collabora con alcune riviste venete e ottiene le prime supplenze, che gli permettono di aiutare la famiglia in un momento critico come quello della Seconda Guerra Mondiale.

Le precarie condizioni di salute non gli permettono di partecipare agli eventi bellici. Escluso dal reclutamento la prima volta, viene poi chiamato alle armi ad Ascoli, ma viene ben presto condotto in un ospedale militare.

Nei periodi di pausa dagli impegni militari, l’autore di “Elegia pasquale” scrive. Compone versi che lo riportano a casa, che sono nutriti di speranza, di amore per le radici, per la terra, le montagne e ogni cosa che esiste e ci pre-esiste. Tuttavia, le prime raccolte poetiche dell’autore risalgono a qualche anno dopo.

Fra le più significative, troviamo: “Dietro il paesaggio” (1951), “Vocativo” (1957), “La beltà” (1968), il poemetto “Filò” (1970), “Il galateo in bosco” (1978) e molte altre raccolte, che oggi sono racchiuse in un’opera omnia che ripercorre tutta la vita e la produzione di un grande poeta del Novecento.

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