Che scherzo! (1964) di Dino Buzzati, la poesia che rivela perché il Natale fa paura

18 Dicembre 2025

E se il Natale accadesse davvero? La geniale poesia "Che scherzo!" di Buzzati che smaschera l'ipocrisia dei "brevettati miscredenti" tra atomi e razzi.

Che scherzo! (1964) di Dino Buzzati, la poesia che rivela perché il Natale fa paura

Che scherzo! di Dino Buzzati è molto più di una poesia natalizia: è una provocazione metafisica sulla perdita del sacro. Con il suo tipico tono tra il surreale e l’ironico, lo scrittore evidenzia come l’eventuale ritorno di Gesù non sarebbe accolto con gioia, ma come un evento catastrofico capace di far crollare il sistema di finzioni consumistiche e il cinismo intellettuale su cui abbiamo costruito la modernità.

Questa resistenza al magico non sembra nascere da una reale assenza di desiderio, quanto da un orgoglio intellettuale che impone all’individuo di restare “adulto” a ogni costo. Buzzati intuisce che l’umanità ha costruito una fortezza di certezze tecnologiche e scientifiche per proteggersi dall’ignoto, finendo però per restarne prigioniera. Il Natale, in questo contesto, si trasforma nel momento della massima tensione: una recita collettiva dove la società finge per abitudine, ma nessuno appare realmente pronto a gestire l’eventualità del miracolo.

È proprio in questo scarto tra la dichiarata razionalità e il timore segreto dell’imprevisto che si consuma lo “scherzo” buzzatiano. Lo scrittore bellunese mette il lettore davanti a uno specchio, mostrando come la modernità sia, in fondo, una corazza fragilissima. Se il regno della fiaba dovesse davvero sconfinare nella realtà, l’uomo contemporaneo non si troverebbe a festeggiare, ma proverebbe un profondo e umanissimo senso di smarrimento di fronte al crollo delle proprie sicurezze.

Che scherzo! è una poesia del 1964 contenuta nella raccolta Le poesie di Dino Buzzati, pubblicata da Neri Pozza nel 1982.

Leggiamo questa geniale poesia di Dino Buzzati per condividerne il significato.

Che scherzo! di Dino Buzzati

E se poi venisse davvero?
Se a quell’ora precisa
mentre la nebbia oppure la pioggia nera
oppure comunque le caligini il fetido l’incubo nero
della notte sopra la pianura dell’umidità e dell’espansione economica
l’arcipelago delle luminarie
sempre più denso verso il centro
specialmente i cinema i bar le stazioni di servizio
e poi nel cuore della città
la massima concentrazione di luci
di lusso di soldi di gioia di vizio
se nei palazzi cascine falansteri
attraverso le illusioni e i misteri,
lui davvero venisse?
Che scherzo pericoloso, eh?

Perché dicono dicono ma
non ci crede più nessuno.
Il proprietario del magazzino famoso
di articoli da regalo
non ci crede, e ne ride bonario
con le clienti in visone
anche il negoziante di giocattoli
sollevato dall’andamento straordinario
degli affari nonostante la recessione.

Non ci crede il capofamiglia
né lo scapolo né il coniugato
né il vecchio zio né la figlia,
neppure la mamma sebbene
tenendoli sulle ginocchia
abbia dettato ai bambini le lettere
col presepio e il bordo dorato
destinazione Paradiso
in franchigia, senza riflettere
al rischio della mistificazione.

Non ci crede neanche don Saverio
il buon prevosto della parrocchia
non basta infatti la fede
per prendere veramente sul serio
questa antica superstizione.

E neppure ci credono i bambini
che avrebbero sufficiente ingenuità
voglia di miracoli, di fantasia
di mostri, di favole, ma
ci fu quel sorriso speciale
della mamma così ambiguo e allora
nacque in loro l’ipocrisia
per la prima volta, con la paura
tipicamente italiana
di passare per cretini.

Neanche loro dunque ci credono più
che alla mezzanotte del venti-
quattro, carico di regali
in carte d’oro e d’argento
fra un grande sbattere d’ali
(ci saranno anche gli angeli, no?)
arriva il Bambino Gesù.

E se invece venisse per davvero?
Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse preso sul serio?
Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l’orsacchiotto il leone
che nessuno di voi ha comperati?
Se la vostra bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse a carte quarantotto?
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati.

E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell’attraversare il salotto
Guai se tu svegli i ragazzi,
che disastro sarebbe per noi
così colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi.
Fa piano, Bambino, se puoi.

Che scherzo!, il conflitto tra progresso e fede

Che scherzo! è una poesia di Dino Buzzati che evidenzia la contrapposizione tra la realtà tangibile (fatta di economia, scienza e consumismo) e la realtà metafisica (il miracolo, la fiaba, il sacro). Buzzati osserva con sguardo quasi antropologico come l’uomo del Novecento abbia sostituito l’attesa del Messia con l’attesa del profitto.

Il tema portante è l’imbarazzo intellettuale. La fede non è più un valore, ma una debolezza da nascondere per non apparire ingenui. La modernità, rappresentata dai successi tecnologici e dal benessere materiale, funge da paravento contro l’ignoto, rendendo l’eventualità di un miracolo non un evento felice, ma un elemento di disturbo per la “bella sicurezza” della ragione.

Sebbene il testo si presenti graficamente come una poesia, “Che scherzo!” incarna perfettamente la natura poliedrica di Dino Buzzati, scrittore capace di muoversi con disinvoltura tra il giornalismo, il racconto e l’arte pittorica. Si tratta di un componimento poetico a carattere narrativo, in cui Buzzati rinuncia alla rima e alle strutture metriche classiche per adottare il verso libero, trasformando quello che potrebbe essere un editoriale o un breve racconto in una confessione ritmata.

Questa scelta stilistica permette all’autore di mantenere l’urgenza della cronaca, con riferimenti precisi alla società del suo tempo, infondendo però al testo quella sospensione magica e quel respiro universale che solo la poesia sa garantire. È, a tutti gli effetti, un racconto “distillato” in versi.

E se poi venisse davvero?

La poesia si apre con una domanda che è già una minaccia: «E se poi venisse davvero?». Dino Buzzati non introduce il Natale come attesa rassicurante, ma come evento destabilizzante. L’ipotesi del ritorno di Gesù non viene collocata in uno spazio sacro, bensì nel cuore della modernità: la pianura dell’espansione economica, le luminarie, i cinema, i bar, le stazioni di servizio. È qui che il miracolo dovrebbe irrompere, non in una Betlemme lontana e simbolica.

L’elenco ossessivo di luci, lusso, soldi, gioia e vizio costruisce un paesaggio saturo, eccessivo, quasi soffocante. La città natalizia appare come un organismo iperilluminato che non lascia spazio all’ombra, al silenzio, all’ignoto. In questo contesto, la figura di Cristo diventa un corpo estraneo, un’anomalia capace di far saltare l’equilibrio di una società fondata sul consumo e sulla prevedibilità.

Buzzati insiste subito su un punto centrale: non ci crede più nessuno. La negazione della fede attraversa tutte le categorie sociali. Il commerciante, il negoziante di giocattoli, il capofamiglia, la madre, il sacerdote. Nessuno è escluso. La poesia assume così il tono di un censimento morale, una mappa della perdita del sacro che coinvolge ogni ruolo, ogni funzione, ogni maschera sociale.

Particolarmente feroce è lo sguardo riservato agli adulti. La madre che detta le letterine ai bambini non lo fa per fede, ma per tradizione, senza riflettere “al rischio della mistificazione”. Il presepe, le lettere, il Paradiso diventano strumenti educativi svuotati, gesti automatici che non impegnano più chi li compie. Il Natale sopravvive come rito, ma ha perso la sua carica di verità.

Neppure la Chiesa viene risparmiata. Don Saverio, il prevosto, non crede davvero. Buzzati afferma che non basta la fede dichiarata per prendere sul serio ciò che si celebra. Qui la critica diventa radicale: il sacro è diventato una pratica professionale, non un rischio esistenziale.

Il passaggio forse più amaro riguarda i bambini. Sarebbero gli unici, per natura, capaci di credere. E invece anche loro vengono iniziati precocemente all’ipocrisia. Non è la ragione a spegnere la fede infantile, ma lo sguardo ambiguo degli adulti. Quel sorriso incerto della madre genera la paura “tipicamente italiana” di passare per cretini. Buzzati coglie un meccanismo culturale profondissimo: la vergogna di credere, il bisogno di apparire sempre intelligenti, smaliziati, superiori.

A questo punto la poesia compie una torsione decisiva. Dopo aver elencato tutte le ragioni per cui nessuno crede più, Buzzati rilancia l’ipotesi iniziale: e se invece venisse per davvero?. È qui che il testo abbandona il tono ironico per scivolare in una vera e propria angoscia metafisica. Il miracolo non è più una favola, ma un evento che minaccia di far “andare a carte quarantotto” la sicurezza nella scienza e nella dea ragione.

Il lessico cambia. Entra il linguaggio della crisi, del crollo, della leggerezza imperdonabile. La fiducia assoluta nella razionalità appare improvvisamente come una scommessa azzardata. La modernità, che si crede solida, viene rivelata come fragile, costruita su una rimozione collettiva del mistero.

Il finale è di un’ironia spietata. L’invocazione al Bambino Gesù non è un atto di fede, ma una richiesta di silenzio. Camminare piano, non svegliare i ragazzi, non disturbare l’ordine delle cose. Il sacro deve restare discreto, invisibile, innocuo. Perché un miracolo vero sarebbe un disastro per una società che si crede colta, intelligente, brevettata, miscredente.

Dino Buzzati chiude così una poesia che non deride la fede, ma l’assenza di coraggio dell’uomo moderno. Non denuncia chi non crede, ma chi non osa più nemmeno immaginare che qualcosa possa sfuggire al controllo della ragione.

La paura di essere smentiti

Che scherzo! di Dino Buzzati è una poesia che parla meno di fede e più di potere. Del potere che l’uomo moderno attribuisce alla propria ragione e della paura profonda di vederla incrinata. Il miracolo, in questo testo, non è un dono atteso, ma una minaccia. Non perché sovverte le leggi della natura, ma perché smaschera l’illusione di controllo su cui la modernità ha edificato la propria identità.

Buzzati mostra una civiltà che ha imparato a fingere. A celebrare il sacro come tradizione, a evocarlo come folklore, a tollerarlo solo finché resta simbolo. Il Natale sopravvive come rito condiviso, ma ha perso il suo carattere di evento. Nessuno è davvero disposto a sostenere le conseguenze di ciò che afferma di ricordare.

La vera colpa non è il non credere. È l’imbarazzo di fronte alla possibilità che qualcosa possa eccedere la ragione, sfuggire alle categorie, rivelare la fragilità di un sistema fondato sulla sicurezza scientifica e sul progresso come dogma. L’uomo buzzatiano non è ateo. È spaventato. Teme di apparire ingenuo, teme il ridicolo, teme di dover rimettere in discussione le proprie certezze.

La richiesta finale di silenzio rivolta al Bambino è il gesto più rivelatore. Non è una preghiera, è una supplica difensiva. Il sacro deve restare invisibile, perché un’apparizione autentica costringerebbe tutti a fare i conti con ciò che hanno rimosso. Con il mistero, con il limite, con l’idea che non tutto possa essere previsto, misurato, brevettato.

Dino Buzzati consegna così una diagnosi ancora attualissima. Una società che si proclama adulta ha in realtà paura di crescere davvero. Perché crescere significa accettare l’incertezza, il rischio, la possibilità di essere smentiti. E forse il vero scherzo non sarebbe il ritorno del Bambino, ma scoprire quanto poco siamo pronti ad accoglierlo.

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